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L’ordinazione sacerdotale, tra Ladária e Grillo: alla ricerca del posto delle donne nella Chiesa

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 07/06/18
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A seguito di una dichiarazione del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede il liturgista del Sant’Anselmo ha proposto una serie di critiche (alcune delle quali irricevibili) che possono (tuttavia) aiutarci nell’approfondire la nostra comprensione del mistero ecclesiale. E forse la Chiesa stessa capirà di avere in serbo una perla speciale da offrire al nostro mondo, sull’argomento.

Ricordo ancora la battuta con cui una mia collega d’università – eravamo matricole di filosofia – folgorò un tizio che la invitava a dire la sua (ovvero ad esporsi) sul “sacerdozio alle donne”: «Ma certo che sono d’accordo: non prima, però, che gli uomini comincino a partorire». Le ironiche fatalità della vita avrebbero portato la mia amica ad avere una “santa presbitera” in famiglia, giacché sua sorella avrebbe sposato un giovane cattolico orientale avviato al sacerdozio (e quello è il titolo con cui in Oriente si designa “la moglie del prete”): eravamo entrambi digiuni, o quasi, di studi teologici, eppure a distanza di questi non pochi anni guardo indietro e mi pare che quelle parole cogliessero l’essenziale di tutta la questione. In via preterintenzionale, mi dico, ma forse la realtà è che davvero

soprattutto i nostri giorni attendono la manifestazione di quel “genio” della donna che assicuri la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo! E perché «più grande è la carità» (1Cor 13, 13).

Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem 30

Per tale ragione avevo condiviso cordialmente le parole di monsignor Ladária, quando osservava:

[…] Desta seria preoccupazione veder sorgere ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina. Per sostenere che essa non è definitiva, si argomenta che non è stata definita ex cathedra e che, allora, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli, non solo sul sacramento dell’ordine come parte della costituzione divina della Chiesa, ma anche sul magistero ordinario che può insegnare in modo infallibile la dottrina cattolica.

È vero, se si scorre la lista dei pronunciamenti in materia – se ne contano ben cinque “importanti”, nei soli venti anni tra il 1975 e il 1995, escludendo i richiami ad essi fatti dai Pontefici, buon ultimo Francesco – si ha quasi l’impressione che a fronte di una dottrina chiara e definita tornino ancora e sempre a manifestarsi degli agenti ecclesiali che insistono a chiedere ciò che è stato negato per sempre. Un atteggiamento comprensibilmente irritante, per chi ha il compito di custodire l’integrità del depositum fidei: modus operandi catalogabile a metà tra la stolida insistenza delle mosche contro il vetro e il petulante cicaleccio dell’adolescente che chiede a un genitore ciò per cui l’altro ha già negato il proprio consenso. Soprattutto si fatica sempre a intravedere le motivazioni di codesto rivendicazionismo, che non sembra molto distante – nel tono, nelle forme e nella sostanza – da quello del femminismo sessantottino.


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Questo il contesto in cui Ladária è tornato ad affermare «a proposito di alcuni dubbi» «il carattere definitivo della dottrina di “Ordinatio sacerdotalis”»:

Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini. La Chiesa si è riconosciuta sempre vincolata a questa decisione del Signore, la quale esclude che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne. Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994, ha insegnato, «al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa» e «in virtù del [suo] ministero di confermare i fratelli» (cfr. Luca, 22, 32), «che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4). La Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che si tratta di una verità appartenente al deposito della fede.

Sintesi precisa e succinta, come è nel tratto di Ladária. Il quale dopo poco è tornato ad aggiungere:

Consapevole di non poter modificare, per obbedienza al Signore, questa tradizione, la Chiesa si sforza anche di approfondire il suo significato, poiché il volere di Gesù Cristo, che è il Logos, non è mai privo di senso. Il sacerdote, infatti, agisce nella persona di Cristo, sposo della Chiesa, e il suo essere uomo è un elemento indispensabile di questa rappresentazione sacramentale (cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Inter insigniores, n. 5). Certamente, la differenza di funzioni tra l’uomo e la donna non porta con sé nessuna subordinazione, ma un arricchimento mutuo. Si ricordi che la figura compiuta della Chiesa è Maria, la Madre del Signore, la quale non ha ricevuto il ministero apostolico. Si vede così che il maschile e il femminile, linguaggio originario che il creatore ha iscritto nel corpo umano, sono assunti nell’opera della nostra redenzione. Proprio la fedeltà al disegno di Cristo sul sacerdozio ministeriale permette, allora, di approfondire e promuovere sempre di più il ruolo specifico delle donne nella Chiesa, dato che, «nel Signore, né l’uomo è senza la donna, né la donna è senza l’uomo» (1 Corinzi, 11, 11). Inoltre, si può gettare così una luce sulla nostra cultura, che fa fatica a comprendere il significato e la bontà della differenza tra l’uomo e la donna, la quale tocca anche la loro missione complementare nella società.

Mi pare che non si sia dato il giusto rilievo alle considerazioni del Prefetto sull’effetto eversivo che simili rivendicazioni hanno sul senso ecclesiale del Popolo di Dio, quasi che l’atto della fede cattolica si limitasse alle sole verità “rivelate e definite” con appello al carisma dell’infallibilità del Romano Pontefice in materia di fede e di morale. E l’approfondimento prodotto dal prelato spagnolo è quanto mai luminoso e chiarificatore, in tal proposito:

È importante ribadire che l’infallibilità non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Sommo Pontefice quando parla ex cathedra, ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente. A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in Ordinatio sacerdotalis. Così egli non ha dichiarato un nuovo dogma ma, con l’autorità che gli è stata conferita come successore di Pietro, ha confermato formalmente e ha reso esplicito, al fine di togliere ogni dubbio, ciò che il magistero ordinario e universale ha considerato lungo tutta la storia della Chiesa come appartenente al deposito della fede. Proprio questo modo di pronunciarsi riflette uno stile di comunione ecclesiale, poiché il Papa non ha voluto operare da solo, ma come testimone in ascolto di una tradizione ininterrotta e vissuta. D’altra parte, nessuno negherà che il magistero possa esprimersi infallibilmente su verità che sono necessariamente connesse con il dato formalmente rivelato, poiché solo in questo modo può esercitare la sua funzione di custodire santamente ed esporre fedelmente il deposito della fede.

Si potrà sempre dire, se si diffida dei dicasteri della Curia Romana, che quella di Ladária è una balla propagandistica, mentre di per sé il Papa polacco intese semplicemente lasciare libere le mani dei suoi successori… ma – sorvolando sul fatto che si tratterebbe di una bugia sublime, se menzogna fosse – risulterebbe problematico in sé proprio conciliare la diffidenza alla Santa Sede (che misticamente è molto più della Curia Romana) con una genuina fede cattolica.


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Comunque alla dichiarazione di Ladária ha fatto ampio riferimento il rinomato liturgista Andrea Grillo, docente al Sant’Anselmo, con una lunga e fervorosa confutazione: quella del Prefetto spagnolo sarebbe “teologia d’autorità con ratio troppo fragile”. Del testo di Grillo va senz’altro respinta con fermezza la chiusa, con la quale il liturgista ha voluto assestare all’Arcivescovo un tanto sonoro quanto ingiustificato ceffone, attribuendogli posizioni retrograde che in nessun modo sono ravvisabili nel suo testo: in realtà lo scopo della proiezione di S.Th. Suppl. 39 1, c sul pronunciamento del Prefetto è unicamente il tentativo di screditare in blocco tutto quanto non corrisponda immediatamente allo “spirito del Concilio” (simile a quella cosa inafferrabile «che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie», per dirla con Ratzinger). Poiché però il resto dell’intervento di Grillo è di livello decisamente superiore alla chiusa – in cauda venenum… – passiamo in rassegna le sue segnalazioni circa i punti deboli e le questioni ermeneutiche ravvisabili nel testo di Ladária.

Cristo non disse nulla in merito

Grillo attacca Ladária anzitutto sorridendo del riferimento del Prefetto alla «fedeltà alle parole di Cristo»:

Il silenzio interpretato come parola esplicita, e il fatto tradotto in discorso normativo, non appare una soluzione teologica capace di sostenere con autorevolezza la pretesa di una tradizione “irreformabile”.

Attenzione: il silenzio non è “parola esplicita”, il silenzio è silenzio. Esso viene semmai interpretato alla luce dell’atteggiamento complessivo di Gesù verso le donne, alle quali nel corso della propria vicenda affidò missioni delicatissime e perfino decisive (dalla visitazione al preconio pasquale)… ma non la missione apostolica, non nel senso in cui la affidò ai dodici, “quelli che scelse”. Il mistero della volontà di Cristo si esprime in parole e gesti, come tutta la Rivelazione e come la stessa liturgia; ma alle parole corrispondono i silenzi, come sfondo e come complemento, almeno quanto ai gesti corrispondono le omissioni. Cristo non proibì tutto ciò che scelse di non fare, ma pretendere che abbia comandato tutto ciò che non comandò presenta una fallacia perlomeno analoga a quella che si rimprovera all’avversario di disputa: una fallacia a cui Grillo si espone spesso.

Più solida appare invece l’obiezione seguente:

Pensare di risolvere tale questione con il riferimento insostituibile al “maschile” per la “rappresentazione di Cristo sposo” appare una via troppo fragile, che liturgicamente risulta oggetto di ampia discussione.

È vero, la discussione c’è (al pari di moltissimi altri temi accademici) e la via di “Cristo sposo” può apparire davvero fragile. Il che non significa, tuttavia, che sia falsa: natura non facit saltus, questo vale anche nello sviluppo del dogma (e non solo quando è utile ai teologi), e il piccolo ramoscello di oggi potrà diventare domani un solido tronco. È strano, invece, che si pretenda di abbandonare una tesi che mostra buoni elementi di veracità solo perché (ancora) fragile. Storicismo a targhe alterne?


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Un punto su cui la critica di Grillo appare invece molto fondata, e che pare segnare – se si vuol dire così – un punto a suo vantaggio, è quella circa il riferimento di Ladária al decreto tridentino Sulla comunione sotto le due specie e la comunione ai fanciulli: in effetti quel testo

  1. si riferisce ad altro che al sacramento dell’Ordine;
  2. se dovesse essere estrapolato formalmente potrebbe venire addirittura addotto a sostegno della tesi di Grillo, non meno che di quella “di Ladária”;

Il liturgista scopre invece il fianco mentre afferma che il nodo centrale dell’argomentazione del Prefetto si regge su «un doppio passaggio che appare altamente problematico»:

Da un lato si interpreta un fatto – il sesso maschile dei 12 apostoli – come una indicazione normativa; dall’altro si pensa il sacramento introducendo nella sua sostanza un “sesso maschile” che escluderebbe ogni margine di modificabilità da parte della Chiesa. Ma la prima affermazione è congetturale, mentre la seconda è una costruzione sistematica del tutto discutibile. Sarebbe del tutto plausibile pensare che oggi – nelle condizioni storiche e culturali di buona parte del mondo –possa rappresentare una grave forma di infedeltà verso il Signore non riconoscere gradualmente tutta la ricchezza ministeriale e carismatica che battezzate di sesso femminile potrebbero riservare alla azione e alla autorità della Chiesa. E che invece la vera fedeltà possa essere scoperta nella capacità della Chiesa di uscire dalle proprie consuetudini storiche, riconoscendo di averle identificate a lungo, ma oggi erroneamente, come tradizioni normative vincolanti.

Anzitutto, in linea di principio i fatti possono ben essere indicazioni normative: non devo essere io a ricordare a un professore di liturgia che in una lettera di Cipriano si definisce l’eucaristia precisamente così. «Idem facere quod fecit Dominus» [«Fare la stessa cosa che fece il Signore»] (T.C. Cipriano, Lettera 63, 18) significa precisamente assumere dei fatti come indicazioni normative. Lo stesso attesta Paolo, lo stesso la Didaché, lo stesso – proprio in materia liturgica – molte altre fonti: “facciamo ciò che fece Cristo” sottintende sempre “e non facciamo ciò che non fece”; “facciamo ciò che gli apostoli ci hanno tramandato” implica pure “e non facciamo ciò che non ci hanno tramandato”. Certamente, la Chiesa ha facoltà di discernere quali siano gli elementi che si possono cambiare, ma si deve pur rilevare che storicamente essa si è dimostrata molto più restia a modificare disposizioni minime e materiali, ove certamente risalenti a Cristo o agli apostoli, che a ritoccare grandi e solenni decisioni ecclesiali ove apparisse la loro distanza da quella stessa fonte che fu la Chiesa nascente. In pratica, è stato più facile nel IV secolo ritoccare la datazione della Pasqua (e comunque c’è voluto del bello e del buono…) che ancora ai nostri giorni nel permettere ai preti di celebrare la messa con bevande analcoliche nei Paesi in cui la sola detenzione di alcool è di per sé illegale (e talvolta punibile con la morte). In tal senso si capisce perché Ladária potrebbe aver scelto quel testo tridentino che a prima vista sembra meno appoggiarlo che sfidarlo: possiamo decidere di dare la comunione sotto una sola specie come possiamo permettere ai preti di vestire un abito regolare o no; ma come l’eucaristia non si può fare senza pane e senza succo d’uva fermentato (pure nelle ostie per celiaci un po’ di glutine deve trovarsi, sennò non è pane…), così i preti non si possono “fare” senza quell’umana materialità che Cristo, nella sua libertà sovrana, volle scegliere – ossia senza degli uomini maschi che credano in lui (dopo la Samaritana e la Maddalena, chi gli avrebbe impedito di mettere donne tra i Dodici?).


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Grillo sembra non vedere tutto questo: afferma invece che il passaggio dai fatti alle norme sarebbe “congetturale”, che l’inclusione dell’umanità sessuata nelle condizioni dell’Ordine sarebbe “discutibile”, mentre al contrario “pensare che oggi” (grande luogo teologico: oggi!) non sussistano più motivi di quanti ne sussistevano ai tempi di Gesù per ordinare le donne… questo potrebbe «rappresentare una grave forma di infedeltà verso il Signore». Mentre pensare il contrario – cioè quello che Grillo non fa mistero di pensare – sarebbe “plausibile”. Congetturale, discutibile, plausibile: in tutto ciò il principio di realtà, la responsabilità verso la Tradizione (e Grillo è uno serio, sa che cosa vuole dire “Tradizione” con la T maiuscola), il rispetto delle fonti storiche… tutto sembra svanire.

Un articolo letto “parzialmente”

Grillo arruola poi sul carro del proprio argomento un importante collega – il gesuita Giancarlo Pani, docente di storia ecclesiastica moderna in Gregoriana – e per suo tramite un mammasantissima della teologia del XX secolo, il domenicano Yves Congar. Sintetizza Grillo:

[…] quando la tradizione attesta dei “fatti”, se ne può desumere prudentemente la possibilità o la necessità. Ma quando ad essere attestata è una “assenza di fatti”, non sempre è prudente desumerne la non necessità o la impossibilità. Citando questa bella espressione di Y. Congar, Pani mette in guardia da facili generalizzazioni, oggi assai diffuse.

Subito prima il liturgista aveva (correttamente) indicato il riferimento dell’articolo, ma il lettore s’ingannerebbe se pensasse di trovare citate di seguito le parole di Pani e di Congar. Poiché invece sono parole belle e vere, ora le riportiamo (prima di questo e poi di quello). Così Congar:

L’assenza di un fatto non è criterio decisivo per concludere sempre prudentemente che la Chiesa non può farlo e non lo farà mai.

E chi lo contesterebbe? Ma poiché Grillo contesta a Ladária che il decreto tridentino si occupava di Eucaristia e non di Ordine, allora ci sarà consentito domandare di cosa stesse parlando Congar. Risponde Pani:

P. Congar lo notava a proposito dei rapporti tra sacerdoti e vescovi: «Dal fatto che la Chiesa ha fatto una cosa, si può concludere che ella poteva e può farla. Ma dal fatto che ella non ha fatto una cosa, o perlomeno che non siamo a conoscenza del fatto che l’abbia fatta, non è sempre prudente concludere che ella non può farla e non la farà mai» [traduzione dal francese mia].

Giancarlo Pani, La donna e il diaconato in La Civiltà Cattolica 3999, 217 (e nota 39)

Rapporti tra sacerdoti e vescovi, dunque, e non accesso delle donne all’Ordine sacro. Ma Grillo prosegue l’elenco così:

Ci si chiede, poi: il pronunciamento di Ordinatio Sacerdotalis, che dice nel 1994 una parola forte sulla esclusione delle donne dal ministero, a che livello di autorevolezza deve essere collocato? La breve discussione riportata da Pani riaccende l’interesse sulle implicazioni che, indirettamente, quella soluzione comporta nella discussione sul diaconato femminile.

Il passaggio in questione precede l’osservazione di Congar, non la segue. Peraltro Pani chiosa, citando un passo di Alberto Piola (tesi dottorale: relatore, Luis Ladária):

Non avrebbe senso sostenere che la Chiesa deve cambiare solo perché i tempi sono cambiati, ma resta vero che una dottrina proposta dalla Chiesa chiede di essere compresa dall’intelligenza credente. La disputa sulle donne prete potrebbe essere messa in parallelo con altri momenti della storia della Chiesa; in ogni caso oggi nella questione del sacerdozio femminile sono chiare le auctoritates, cioè le posizioni ufficiali del Magistero, ma tanti cattolici fanno fatica a comprendere le rationes di scelte che, più che espressione di autorità, paiono significare autoritarismo. […] Oggi c’è un disagio tra chi non riesce a comprendere come l’esclusione della donna dal ministero della Chiesa possa coesistere con l’affermazione e la valorizzazione della sua pari dignità.

Ivi, 217-218, cf. A. Piola, Donna e sacerdozio, 8-10 passim

E ci sarebbe poco altro da aggiungere, se non il fatto che lo stesso Grillo riconosce nella conclusione del suo scritto che «resta sempre la distinzione della questione della “ordinazione sacerdotale” da quella della “ordinazione diaconale”, che non può essere considerata inclusa nel ragionamento prodotto dalla discussione che abbiamo fin qui considerata.



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Molto vero e molto corretto, Professore: si capisce un poco meno perché allora l’esempio di un articolo storico sul diaconato femminile doveva essere utile in sede di elaborazione teologica circa l’ammissione di donne all’ordinazione sacerdotale. O forse si capisce qualcosa, perché Grillo spiega:

Quindi, anche al di là della conclusione cui si giungesse nella valutazione di OS, bisognerebbe riconoscere pur sempre che il documento esaminato nulla dice a proposito di una eventuale ordinazione diaconale, quando venisse estesa a soggetti battezzati di sesso non maschile, ma femminile. A meno che non si ritenga, con la logica del piano inclinato, che ogni cedimento iniziale, anche minimo, possa poi a cascata risultare incontrollabile.

Francamente, da studioso di storia del dogma quale un poco sono, non mi pare che il problema sia principalmente “politico”, ossia che riguardi concessioni e cedimenti, ma storico: come infatti ben sintetizza lo stesso Pani,

J. Danielou, R. Gryson e C. Vagaggini avallano una sostanziale analogia tra l’ordinazione delle diaconesse e quella dei diaconi. Invece, A.G. Martimort ritiene che le ordinazioni delle diaconesse orientali si collochino, per così dire, a metà strada tra gli ordini maggiori (diaconato, presbiterato, episcopato) e l’ampia serie dei ministeri minori (suddiaconato, accolitato, ostiariato ecc., che non sono “ordinati”).

Ivi, 219

Ma queste cose Grillo le sa benissimo, anzi le insegna (e bene): difficile quindi soffocare il sospetto che quella che chiama “la logica del piano inclinato” sia precisamente la “sua” strategia (neanche troppo nascosta). Diremmo così, fuori dai denti: diaconato e sacerdozio vanno insieme e sono analoghi se possiamo ottenerli tutti e due e subito; altrimenti, meglio una diaconessa oggi e una sacerdotessa domani che nessuna delle due nei secoli. Il Professore è un uomo erudito, non si discute: mi pare però che questo sia un modo singolare di fare storia.



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Però non avrei trascinato il lettore per più di ventimila battute col solo scopo di “confutare Grillo”: in realtà mi pare che il suo testo, al netto di qualche grossa faziosità e di alcune forzature, dica una cosa importante, di cui dovremmo far tesoro:

La domanda sull’eventuale riconoscimento di autorità a soggetti battezzati di sesso femminile va onorata con risposte all’altezza, non con minestre riscaldate, basate su argomenti fragili, su citazioni bibliche e magisteriali non pertinenti e fondate su pregiudizi del passato.

Affermare che quella di Ladária sarebbe una “minestra riscaldata” e tutto il resto è chiaramente un insulto indegno del grado accademico di Grillo (e da un uomo nella sua posizione ci si aspetta ben altro livello di temperanza), ma Ladária è il primo a sapere che gli officiali della Congregazione per la Dottrina della Fede stanno ai teologi come in un campo di calcio i membri dello staff arbitrale stanno ai giocatori: tutti corrono, tutti sudano, tutti osservano e interpretano delle norme, ma nella fattispecie i primi sono incaricati di vigilare sull’integrità del regolamento, i secondi di animare la partita. Fuor di metafora, Ladária è un finissimo teologo, ma non per questo detiene le chiavi segrete di tutti i misteri della teologia, e soprattutto pretendere da lui «la parola che squadri da ogni lato» sarebbe come aspettarsi una rovesciata da un guardalinee.



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È vero che dal 1975 la questione dell’ammissione delle donne all’ordinazione sacerdotale è tornata con un’insistenza che talvolta è diventata irritante, da quanto è sovente vuota di ogni argomento che non sia la rivendicazione in sé e per sé. Ciò può leggersi in almeno questi tre modi:

  1. Lo storicismo: il progresso è inarrestabile per definizione, ed è il criterio assiologico stesso della giustizia e della verità. Chi vi si oppone è inesorabilmente destinato alla sconfitta.
  2. La reazione: i novatori modernisti (scil., gli storicisti di cui sopra) portano nella loro dottrina la quintessenza di tutte le eresie. Resistere alle loro pretese è l’unica cosa da fare, a prescindere dalle reali possibilità di successo.
  3. L’intelligenza della fede: alcune domande possono essere sbagliate e spesso possiamo individuarne con esattezza le ragioni contingenti che hanno determinato o favorito il loro insorgere. Tuttavia la fede cattolica è tale da poter crescere anche rispondendo a siffatte domande maliziose e tendenziose. Anzi la stessa storia del cristianesimo lo attesta incontrovertibilmente: ogni volta che ha affrontato delle eresie, la Chiesa è cresciuta «in età, sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 51-52).

E a ben rileggere il testo di Ladária, dopo tutto quanto veniamo esponendo, alcune righe che a una prima lettura rischiavano forse di sfuggirci si fanno più vivide, come se il Prefetto avesse già tracciato il cammino alternativo al “salto della staccionata” proposto dagli eversori:

Certamente, la differenza di funzioni tra l’uomo e la donna non porta con sé nessuna subordinazione, ma un arricchimento mutuo. Si ricordi che la figura compiuta della Chiesa è Maria, la Madre del Signore, la quale non ha ricevuto il ministero apostolico. Si vede così che il maschile e il femminile, linguaggio originario che il creatore ha iscritto nel corpo umano, sono assunti nell’opera della nostra redenzione. Proprio la fedeltà al disegno di Cristo sul sacerdozio ministeriale permette, allora, di approfondire e promuovere sempre di più il ruolo specifico delle donne nella Chiesa, dato che, «nel Signore, né l’uomo è senza la donna, né la donna è senza l’uomo» (1 Corinzi, 11, 11). Inoltre, si può gettare così una luce sulla nostra cultura, che fa fatica a comprendere il significato e la bontà della differenza tra l’uomo e la donna, la quale tocca anche la loro missione complementare nella società.

Così la Chiesa, semplicemente vivendo la propria vita, darebbe un’importante testimonianza circa le gravi confusioni addotte da «quell’errore della mente umana» (© Francesco) che è l’ideologia del gender. Cristo è Figlio, e in quanto sposo e corpo della Chiesa è pure padre e madre di «una moltitudine di fratelli» (Col 1, 15; cf. Rom 8, 29). Se l’analogia di “Cristo sposo” risulta (ancora) fragile – e in un certo senso sono d’accordo con questa particolare critica mossa da Grillo – ciò comporta non un invito a misconoscere e demolire il deposito della fede, bensì il comando di approfondire la comprensione di «quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 18-19).



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A oggi la via regale di questo cammino sembra essere data dall’assioma enunciato da Hans Urs Von Balthasar nei Neue Klarstellungen:

Maria è la “Regina degli Apostoli” senza rivendicare per sé poteri apostolici. Lei possiede altro e molto di più.

H.U. von Balthasar, Neue Klarstellungen, 181

Non a caso nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 1987 Giovanni Paolo II volle indicare questo testo per lumeggiare la distinzione tra “principio petrino” e “principio mariano”:

In questo senso, la dimensione mariana della Chiesa antecede quella petrina, pur essendole strettamente unita e complementare. Maria, l’Immacolata, precede ogni altro, e, ovviamente, lo stesso Pietro e gli apostoli: non solo perché Pietro e gli apostoli, provenendo dalla massa del genere umano che nasce sotto il peccato, fanno parte della Chiesa “sancta ex peccatoribus”, ma anche perché il loro triplice “munus” non mira ad altro che a formare la Chiesa in quell’ideale di santità, che già è preformato e prefigurato in Maria. Come bene ha detto un teologo contemporaneo, “Maria è “regina degli apostoli”, senza pretendere per sé i poteri apostolici. Essa ha altro e di più”. Singolarmente significativa si rivela, da questo punto di vista, la presenza di Maria nel cenacolo, ove Ella assiste Pietro e gli altri apostoli, pregando con loro e per loro in attesa dello Spirito.

Questo legame tra i due profili della Chiesa, quello mariano e quello petrino, è dunque stretto, profondo e complementare, pur essendo il primo anteriore tanto nel disegno di Dio quanto nel tempo, nonché più alto e preminente, più ricco di implicazioni personali e comunitarie per le singole vocazioni ecclesiali.



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Da questa breve citazione si capisce bene, mi pare, che non si potrà percorrere la via di questo approfondimento se non spogliandoci dai preconcetti dello storicismo e delle paure reazionarie: il mistero della donna, il genio femminile all’interno della Chiesa – in particolare per questa nostra epoca – è una foresta quasi vergine che chiede di essere esplorata, ma nessuno uscirà vivo da quella selva se vi sarà entrato per difendere delle tesi e non per scoprire la verità (accettandola perfino se corrispondesse alla Tradizione della Chiesa!). Questo ci chiede il nostro mondo nel nostro tempo; questo esige Dio, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).

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