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La vita con un figlio autistico si riempie di fatica ma anche di risate

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Paola Belletti - pubblicato il 28/05/18
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Giovanna moglie di Pietro e mamma di Nicodemo, Sebastiano e Clara racconta una famiglia che si misura con tutto ciò che la vita ha in serbo, anche la disabilità di un figlioCara Giovanna grazie per avere accettato di rispondere alle nostre domande. Allora la prima,  per i nostri lettori di Aleteia: chi sei e cosa fai?

Buongiorno a tutti. Sono Giovanna Bonazzi, moglie e mamma; vivo a Pieve di Cento e faccio la casalinga. Ho fatto studi classici, sono laureata in storia antica. Per un periodo ho insegnato poi sono successe cose nella vita che mi hanno portato dove sono ora.

Quali cose?

Nicodemo, il primogenito, era una bambino straordinariamente bello, biondo, ricciolino, occhi blu (poi diventati verdi). Intorno ai tre anni ci accorgiamo di qualcosa che non va; era spesso iperattivo e mostrava segnali di impaccio motorio e di un certo ritardo. Nel frattempo era già nato anche Sebastiano, che ha due anni di meno.  Immagina, mi ritrovo con due bambini piccoli e di colpo una diagnosi che ci precipita nell’angoscia. Lui il primogenito, così perfetto: disturbo pervasivo dello sviluppo.  E sai cos’ho pensato quasi subito? «Ecco, non riderò più». E proprio su questo il Signore ha giocato. Cioè, senza fingere che sia una fiaba felice, devo dire che questa strada, la nostra, è stata spessissimo attraversata dalla risata.


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Infatti non mi pare proprio che sia un prendere le cose alla leggera, anzi…

No, è stata la salvezza. E’ stato questo che ha permesso, a me e mio marito, di cambiare prospettiva. Andammo dallo psicologo; Nicodemo aveva già la sua diagnosi, un disturbo dello spettro autistico ma, al contrario di quanto ci si aspetti da quella patologia, lui è tutto fuori, tutto relazione, tutto proiettato verso l’altro: dal baciarti, al guardarti, allo scrutarti, abbracciarti, fino all’incalzarti con mille domande: “Perché fumi che poi muori come mio nonno che non respirava più perché fumava?”. Il dottore mi disse “Signora, davanti a queste figuracce lei si faccia una bella risata!”. “Dottore” dicevo “di fronte al bambino con la sindrome di Down le persone sono commosse e in fondo sanno cosa aspettarsi. Ma davanti al mio che sembra normale no. E io assisto trepidante allo sguardo altrui che da benevolo in un attimo, quasi impercettibile, diventa malevolo o infastidito”.

Il momento più duro è stato quello della diagnosi allora?

C’è stato quello e poi un altro colpo, davvero duro. In tre mesi muoiono entrambi i miei genitori. Nel frattempo, dopo Nicodemo e Sebastiano, nasce Clara. Resto sola con questi tre bambini piccoli. Ero senza alcun appoggio. Ovviamente c’è mio marito ma intendo sola perché, insieme mi viene dato il dolore enorme della loro perdita e mi viene tolto il loro supporto quotidiano che mi alleviava e sosteneva. Fino ai 18 anni di Nicodemo (ora ne ha 22) siamo stati affiancati da uno psicologo: “salviamo la mamma, salviamo il bambino”. E così è stato: “Lei ha salvato Nicodemo quando era già sul baratro dell’autismo, l’ha acciuffato e l’ha salvato”, mi disse. Se ci penso davvero a questa cosa a volte, mi chiedo “come, dove?”


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Il dottore stesso mi rivelò: «Lo ha salvato restando al suo posto e crescendo come donna e come mamma». E quello che soprattutto inizialmente è stato motivo di rammarico e mortificazione, il dover rinunciare a dare seguito agli studi fatti con una professione, è diventato la nostra salvezza. L’emergenza con Nicodemo poteva arrivare senza alcun preavviso. Allora avevo deciso di stare, di restare lì.

Hai già raccontato qualcosa degli altri figli. Che non sono semplicemente “gli altri”, i “fratelli di Nicodemo”

No, amo visceralmente ognuno di loro. Sebastiano è sempre stato bravo e autonomo; è intelligente e molto altro. Poi c’è Clara, che è una perla, e muove in me tutte le espressioni più belle della vita. La loro nascita è stata anche una conferma come mamma: non era colpa mia la malattia di Nicodemo.

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Il vostro matrimonio: come lo dipingeresti in due, tre pennellate?

Pietro ed io ci conosciamo da sempre, fin da ragazzini, ci siamo sposati a ventisette e ventotto anni. Lui è una persona razionale, è un ingegnere. Ama me e ama i suoi figli; c’è. Li ama tutti in una maniera incredibile, come tanti papà. L’unica volta che l’ho visto piangere è stato quando non sapeva come aiutare suo figlio. Non sapevamo (ancora) come prenderlo. Ma quello che abbiamo fatto di straordinario, se così posso dire, è stato di restare; di rimanere al nostro posto. Siamo una famiglia normale, che fa anche i conti con questa vicenda.



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È un figlio speciale, Nicodemo, o rifuggi queste definizioni?

Definire Nicodemo “speciale” sarebbe un torto non tanto nei confronti di Nicodemo ma per gli altri, perché io sono perdutamente innamorata di tutti e tre i miei figli. Sono speciali tutti, in qualche modo perfetti, anche se devo dire che Nicodemo ha inizialmente rappresentato la delusione delle aspettative riposte nel primogenito. Era il sogno che si realizzava ed in qualche modo si è infranto. Mentirei se dicessi che la sua particolarità non mi, non ci ha feriti nell’orgoglio e fatto dubitare della nostra capacità di essere genitori. Essendo il primo dentro di te lavorano e scavano più ferocemente i dubbi e i sensi di colpa. A questo aggiungi due giovani sposi che diventano genitori, circondati da famiglie numerose dove noi siamo gli ultimi arrivati, i più piccoli. Insomma tutti hanno consigli da dare e sai cosa questo significhi.

La disabilità, in questo caso parliamo di disturbo dello spettro autistico, non piace a nessuno. Ma il figlio non è mai la sua malattia…

Il passaggio che ad un certo punto abbiamo fatto è proprio che la malattia non ha identificato lui. Per cui anche nel modo di trattarlo, a volte persino duramente, non siamo dei santi. Abbiamo avuto degli scontri: lui ti mette alla prova dalla mattina alla sera, un giorno dietro l’altro. È tutto un mondo di fatica, altrimenti non parleremmo di disabilità, giusto? «Lo sai che devi farti la barba?» gli dico. E allora iniziano i suoi loop mentali, le mille domande e obiezioni che fanno fare tanta fatica. Lo vedi come tuo figlio, un figlio che ti stanca, ti mette alla prova, continuamente. Questo permette di amarlo come persona e non solo per le difficoltà che ha. Questo salva, dà libertà. Rende la relazione con lui, e la vita stessa, vivibile. Forse come mamma ho dato fondo alla mia sensibilità, alla mia femminilità. Mi sono invece difesa dalla smania di informarmi su tutto e di scandagliare troppo.  Lo psicologo mi mise in guardia: «se lei legge e va ascoltare mille voci, finisce che ci sprofonda dentro». A che pro’ aggiungere informazioni, dettagli, ipotesi di ogni genere se poi ci si rimane sotto, schiacciati? Se non aiuta la vita vera?

Come avete attraversato finora le difficoltà?

Guardandolo come figlio. Anche nella fatica immane che ci richiede. A volte dico che sono la sua “segretaria”, secondo l’espressione che usò lo psicologo; certo cammina, si lava, parla. Si nutre da solo ma ha bisogno di una “segretaria” sempre. E io avevo fatto studi umanistici non la scuola per “periti aziendali corrispondenti in lingua estera” (sorride, NdR): lui per giunta è curioso per tutte le lingue straniere: appena gli è possibile chiede agli stranieri che incontra come si dice questo o quello. Sono il suo punto fermo; quella che gli ricorda chi è, dove sta, dove deve stare.

C’è stato un momento particolare, una svolta?

Sì. Quando ho cambiato atteggiamento davanti alle innumerevoli figuracce che mi faceva e che continua a farmi fare. Non è solo una normale ironia o capacità di riderci sopra: occorre una specie di capriola. Bisogna essere dei fenomeni per prendere con filosofia le figure epocali che fa fare, sorridere davanti allo sconosciuto che guarda basito tuo figlio, senza vedere e tenere conto che io mamma sono lì, due passi indietro. Uno lo guarda, gli chiede “Chi sei, cosa vuoi?!”. Allora mi faccio avanti io: “Buongiorno, lui è con me, sì. E’ mio figlio”. E così mi sono guadagnata la medaglia d’oro di sorriso davanti alle figure di “emme”.  A volte però lo prendo da parte e gliele canto: “Piantala di farmi fare queste figure!” E lui: “ah scusa non avevo mica capito”.

Poi ho fatto un altro passo ancora: non solo ridere ma anche cogliere la verità nascosta nelle sue parole imbarazzanti, nei suoi sguardi che vanno sempre più in là: oltre, dietro, in fondo… E così gli episodi gustosi e commoventi si sono moltiplicati e anche i rapporti umani sono notevolmente migliorati. Più passa il tempo, più vedo la gente che gli vuole bene, lo cerca, ha bisogno dei suoi abbracci. E poi ci sono le sue domande. Non solo quelle buffe: “Come mai sei triste oggi?”

Sì, davvero una domanda grande. Sembra che Nicodemo faccia domande da “Nicodemo”, quello che va di notte da Gesù. Anche se tuo figlio me lo immagino andare ad interpellarlo in pieno giorno, il Signore, e davanti a tutti!

Ho saputo che avete aperto una Sala da Tè a Cento dove lavorano i vostri ragazzi, Nicodemo e altri ragazzi con disabilità, soprattutto con sindrome di Down.

Sì! Anche questa è una cosa bellissima. Abbiamo avuto l’appoggio entusiasta del nostro Arcivescovo, Mons. Zuppi (Cento è in provincia di Ferrara ma Arcidiocesi di Bologna) che tra l’altro ha approfittato della riapertura della Chiesa della collegiata di San Biagio, ancora chiusa dal terremoto del 2012 ed è venuto all’inaugurazione: era il 24 marzo 2018.


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Il tutto è nato grazie ad una associazione di genitori di ragazzi con disabilità, che si chiama Oltretutto. Ora che sono grandi, finite le superiori, rischiano di passare le giornate senza fare niente di costruttivo, invece il lavoro dà dignità, è importante per la promozione vera della persona. Abbiamo pensato di mettere in piedi un’attività adatta a loro, che potesse funzionare sul mercato. Cioè è una cosa bella sul serio, dove i clienti vengono per davvero e ci tornano, dove le cose devono funzionare. Ci sono tante cose da raccontare ma forse servirebbe una seconda intervista…

Solo qualche domanda allora: perché una sala da tè e non un bar ?

Perché in un bar si entra, si consuma e si esce. Questo è il nodo centrale. Nella nostra Sala da Tè Solidale: invece  entro, mi accomodo, scelgo un prodotto che va degustato con calma, ho lo spazio per stare seduto con tranquillità. Posso aprire il giornale o usare il tablet:(c’è pure una stazione di ricarica e il wi-fi libero). Ti prendi una pausa e vivi un momento di socialità.

SALA DA Tè SOLIDALE

Sala da Tè Solidale

Avete trovato accoglienza per questo progetto, oltre a quella di Mons. Zuppi intendo?

Sì, c’è stata, come si dice, una gara di solidarietà. Chi con i materiali, chi con la manodopera o altro. Persino il marchio di tè che distribuiamo: è un brand famoso, Peters Tea House con sede a Bolzano. Di solito forniscono punti vendita in franchising, a noi lo hanno dato lo stesso. E i nostri ragazzi hanno i turni veri, sono stati formati in modo professionale (distanza dal cliente, ordinazioni, i gesti, tutto), hanno una divisa curata, bella. Non è un progetto sentimentale, è una realtà ben studiata perché regga sul mercato e offra a loro e ai clienti un’esperienza di qualità.

Guarda qua, una delle tante recensioni e sono tutte positive:

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Quale specialità di tè mi consigli? O dovrei chiedere a Nicodemo?

Sì, sì è da chiedere a lui, anzi non devi neanche chiedere, arriva subito con l’aromateca in mano e inizia a proporre, a spiegare a far annusare. Una volta disse ad una signora piuttosto in carne “prenda la Snelly più”!(e io a tirarlo in disparte, “non si dicono ste cose.” Però insomma era un buon consiglio).

Cosa ti senti di dire ai genitori che si trovano ad avere a che fare con la disabilità di un figlio?

Che il Signore opera in maniera imperscrutabile e incomprensibile dandoci gli strumenti per uscire da situazioni drammatiche e di dolore. A volte serve guardare le cose da un altro punto di vista; fare una vera capriola e vedere bello ciò che sembra brutto. E significa provare sul serio cosa significa il fatto che c’è un posto e un destino per tutti. Poi se vado avanti e dico quanto sono fortunata…divento antipatica!

Sono certa invece che i nostri lettori proveranno per te, Nicodemo e tutta la tua famiglia, simpatia nel senso più vero del termine. Intanto consiglio agli amici di Bologna, Ferrara, Modena e dintorni di venire a cercarvi alla Sala da Tè Solidale, in Corso Guercino. Un abbraccio Giovanna e grazie di cuore per quello che ci ha raccontato e per la tua vita. Per il bene che fai restando saldamente al tuo posto.

(ps: attenzione al “Buttadentro”! Questo è Nicodemo sulla porta del locale  Sala da Tè Solidale pronto a sollecitare all’ingresso i clienti)

NICODEMO BUTTADENTRO

Giovanna Bonazzi

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