Vale per i morti ma anzitutto per i vivi; lo dice il Magistero ma anzitutto la Scrittura; ne parla perfino Dante nella Commedia (e neanche poco), ma le sue fonti erano i Padri e i Dottori della Chiesa.
Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza.
Gc 5, 16
Commentando un articolo, una lettrice faceva un’affermazione lapidaria e bruciante: «Le grazie arrivano solo a chi è in grazia di Dio». La questione può far sorridere per quella (utilissima invero) ripetizione della parola “grazia”, che la fa sembrare un gioco di parole o uno scioglilingua. E in realtà salirebbe alla mente l’assonanza concettuale con l’assioma “I mutui li dànno solo a chi ha i soldi” – e passa la voglia di ridere, perché tutti impariamo (con fatica) che è proprio così (e non è “la crisi”, occhio: Benigni ne rideva nel 1983, ancora epoca di vacche grasse…).
Ma tralasciamo la metafora finanziaria, che ci porterebbe troppo lontano – per quanto lo spunto che offre sia sostanzialmente corretto: sì, le grazie arrivano solo a chi è in grazia di Dio. O meglio, arrivano solo per chi è in grazia di Dio, e ci avviciniamo così a una prima importante distinzione: Dio «fa splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti», dice Gesù (Mt 5, 45), ma un unico e stesso giorno non è il medesimo per l’uomo che va a lavorare (costruendo la propria famiglia e la società) e per quello che va a rubare; un’unica e stessa luce non è la medesima per l’alcoolista e per l’innamorato, e un’unica brezza marina può entrare in una finestra dove una nonna cuoce la pappa per il nipote o in una dove una moglie sta tradendo il marito e ancora in una dove un marito picchia la moglie.
Le ragioni della Fede e della Scrittura
Potremmo parlare del trattato scolastico de Gratia e distinguere certosinamente tra gratia gratis data e gratia gratum faciens, e ancora discettare di grazia operante e grazia cooperante, grazia preveniente e grazia abituale, grazia sufficiente e grazia efficace… ma forse in questo contesto sarebbe come spiegare un profumo descrivendo le formule chimiche del suo composto. Il risultato sarebbe che capirebbero solo quelli che già conoscessero le formule usate (e il profumo non lo sentirebbero neppure loro).
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No, dicevo che la grazia arriva solo per chi è in grazia di Dio e quel “per” ha due sensi, immediati e riconoscibili nell’esperienza di ciascuno:
- il primo significa che la grazia arriva solo a vantaggio di chi sa accoglierla e metterla a frutto (come indicavo negli esempi di cui sopra);
- il secondo che la grazia può essere mediata, sì, ma soltanto da chi sia con essa in una situazione di particolare intimità.
Occorre sgombrare il campo da preconcetti che, inavvertiti quanto si vuole, tuttavia inquinano il pensare la propria fede: per una tanto astratta quanto malsana idea di “giustizia come pura uguaglianza” troveremmo degno dell’Essere Perfettissimo che ascoltasse tutti e ciascuno in egual misura. Dio però non è un bot su Telegram, programmato per rispondere a tutti allo stesso modo, o perlomeno non è tale il Dio cristiano (al limite lo è quello – inutilissimo e odioso – dei teisti, in fondo degli atei senza la a: risponde a tutti allo stesso modo in quanto non risponde ad alcuno): Dio è mistero di comunione di tre Persone coeterne unite nell’essenza, nell’esistenza, nella volontà e nell’azione. È certo che «Dio non fa preferenza di persone» (At 10, 34), come pure che l’odio Gli è estraneo, come sentimento personale:
Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini,
in vista del pentimento.
Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?
Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita.
Sap 11, 23-26
Difatti Pietro proseguiva spiegando:
In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto.
At 10, 34-35
Dunque l’amore di Dio è sì incondizionato per tutte le sue creature, però è pure ferito e offeso – come il vero amore personale che è – da ogni atto che lede l’oggetto del suo amore (cioè le sue creature), ossia da quegli atti di autolesionismo che per brevità chiamiamo “peccati”:
Se vedi smarriti un bue o una pecora di tuo fratello, tu non devi fingere di non averli scorti, ma avrai cura di ricondurli a tuo fratello. Se tuo fratello non abita vicino a te e non lo conosci, accoglierai l’animale in casa tua: rimarrà da te finché tuo fratello non ne faccia ricerca e allora glielo renderai. Lo stesso farai del suo asino, lo stesso della sua veste, lo stesso di qualunque altro oggetto che tuo fratello abbia perduto e che tu trovi; tu non fingerai di non averli scorti. Se vedi l’asino del tuo fratello o il suo bue caduto nella strada, tu non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare.
La donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore tuo Dio.
Deut 22, 1-5
Nessuna persona, dunque, è mai odiata da Dio, ma ci sono «cose che il Signore tuo Dio odia» (Deut 16, 29) e che proprio facendoti del male ti rendono sempre meno capace di comunicare con lui, ove “comunicare” significa “condividere i doni e i doveri” – ciò che, nelle sue varianti di lode, di richiesta, di contemplazione, chiamiamo “preghiera”. Per questo i Padri del Concilio di Trento, nel decreto sul Battesimo, vollero chiosare:
Nulla Dio odia in chi è rinato.
Ma il tema è proprio che quando ci facciamo del male la nostra preghiera diventa torbida, sbilenca, inefficace per forza di cose: è come il discorso di un ubriacone… nessuno lo prende sul serio e anche se qualcuno volesse dargli una mano sarebbe lui, l’ubriacone (cioè noi quando siamo nel peccato), a non capirlo e a rifiutare l’aiuto.
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Parola di Dante Alighieri
Se quando studiamo la Divina Commedia non ci accomodassimo sul facile gusto dello “stile basso” riservato all’inferno lo sapremmo bene: Dante ha fatto di questo tema un Leitmotiv della seconda cantica. Nel Purgatorio infatti il Poeta ha voluto dare grande rilievo alla dottrina teologica del suffragio, cioè della possibilità per i cristiani di beneficiare tutti insieme dei meriti di Cristo e di quelli gli uni degli altri.
Se ne parla spesso con grande superficialità, come di un’invenzione del Papato rinascimentale (buon ultimo l’aveva ribadita invece il Lionese II del 1274) finalizzata a rimpinguare le avide casse della Curia Romana, e poi via dicendo con Lutero e tutto il resto. Allora, è vero che Lutero reagì ad alcuni marchiani abusi nel campo delle indulgenze… ma è altrettanto vero che pure Dante, illustrando per bene la dottrina cristiana in merito, sta reagendo: il Poeta enfatizza il fatto che ci voglia un’anima buona proprio per eclissare la già rodata pratica dell’acquisto delle indulgenze. La dottrina dei suffragi si radica sul piano dogmatico in quella della comunione dei santi – che non è certo la morte a scalfire – ma ricava linfa scritturistica da 2Macc 12, 39-45: a Lutero è sembrato pratico tagliare dalla Scrittura quel libro e tutti gli altri redatti e recepiti in greco; a Dante sembrò meglio assai dare piena luce alla verità cattolica perché scomparissero insieme quanti la avversavano (catari e valdesi in primis) e quanti ne abusavano.
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Proprio nel canto III del Purgatorio, infatti, dove comincia effettivamente la scalata della Santa Montagna, Dante incontra il primo personaggio che gli fa cenno a quella vera e sana dottrina cattolica: Manfredi di Svevia, morto in battaglia da scomunicato e già figlio di uno scomunicato come Federico II, non era all’inferno bensì s’era salvato!
Manfredi
Dante stesso ne è molto stupito, e il giovane re lo avverte, anzi sa che tutti fra i vivi condivideranno quello stupore (qualcuno si scandalizzerà pure).
[…] ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;ché qui per quei di là molto s’avanza».
Pg III, 114-145
L’amore di padre pensa al cuore della figlia, straziato dall’eventualità della dannazione di Manfredi, e il re prega Dante di andare a dirle “il vero”.
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Nel raccontare la triste vicenda della sua morte l’anima beata non omette una trasparente confessione della propria reità («orribil furon li peccati miei») e una denuncia di quanto l’ostinata avversione politica di alcuni ecclesiastici (monsignor Bartolomeo Pignatelli era stato inviato come legato da Clemente IV presso il nemico di Manfredi, Carlo d’Angiò) non gli abbiano mostrato “questa faccia” di Dio – cioè la misericordia.
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Il dolore di Manfredi per l’effetto infamante della scomunica (il divieto di inumazione in terra consacrata) è dolorosamente lamentato dallo spirito salvo, il quale però spiega che la giustizia divina tutela comunque la santità della Chiesa: chi muore “in contumacia” dall’assemblea dei redenti, e quindi non ha mai partecipato alla comunione dei santi, deve “colmare” quella mancanza di comunione restando lì sulle soglie della salita purgatoriale per trenta volte il tempo della latitanza dall’abbraccio ecclesiale. Perché trenta? La fantasia dantesca richiama numerologicamente l’età di Cristo, i lustra sex che san Tommaso cantava nel Lauda Sion pochi anni prima. Bello il nesso, perché la Chiesa è corpo di Cristo e viaggia verso una sua pienezza, come dice la Lettera agli Efesini:
…fino a che arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo.
Eph 4, 13
Tuttavia… c’è un “però”: questa mistica moltiplicazione può essere accorciata da “buoni prieghi”, e l’aggettivo “buono” va inteso come riferito all’oggetto della preghiera, al modo in cui essa viene fatta e alla persona che la fa (perché chi è cattivo non sa chiedere cose buone, o anche se chiede cose buone non sa chiederle bene… e tuttavia talvolta Dio “si accontenta”). E Manfredi rafforza la richiesta proprio nell’ultima terzina e nell’ultimo verso del canto: «Ché qui per quei di là molto s’avanza».
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Una dottrina sublime che va capita bene: non si tratta di svendite, sconti, liquidazioni di fine stagione. Si tratta di «portare gli uni i pesi degli altri», perché «così adempirete alla legge di Cristo» (Gal 6, 2): un’anima può “accorciare” il proprio tempo di purgazione perché “partecipa” della grazia di altre anime, le quali a loro volta le “comunicano” la propria prossimità a Dio. Può sembrare una cosa estrinseca e meramente putativa, come quando mia madre mi passa i punti del supermercato per prendere prima i premi. Invece no, perché quando scopri che quelli da cui ti sei guardato per molto tempo o per tutta la vita sono lì pronti a darti ciò che tu avresti ricevuto da subito se fossi stato con loro… ti si allarga il cuore, vedi precisamente “quella faccia” di Dio che è la misericordia.
Belacqua
Né è solo Manfredi a spiegare a Dante questa verità: la si ritrova ancora a puntellare tutta la cantica, ma nel IV e nel VI canto essa ha uno spazio particolare. Poco dopo aver incontrato Manfredi, difatti – e cioè quando passava tra quanti non vissero fuori dalla Chiesa ma vivacchiarono in essa senza attingere sollecitamente ai suoi Sacramenti –, Dante riconobbe un suo vicino di casa, un liutaio tanto proverbialmente pigro da sembrare “il fratello della Pigrizia in persona”. «Vai, vai avanti tu, ché sei pieno di forze!», diceva ironico il beato al pesante pellegrino (e poi lo sfotteva per le sue minuziose annotazioni astronomiche). È uno dei rarissimi passi della Commedia in cui Dante accenna un sorriso, un po’ per via della ritrovata consuetudine con l’ex vicino di casa, un po’ perché stava in pena per il pigrone ed era contento di saperlo in salvo. Naturalmente il Poeta gli chiese perché se ne stesse lì senza salire fino alla porta del Purgatorio, dove l’Arcangelo Raffaele fa accedere le anime al percorso catartico.
Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
l’angel di Dio che siede in su la porta.Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
perch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri,se orazïone in prima non m’aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
l’altra che val, che ’n ciel non è udita?».Pg IV 127-135
Dunque la questione è semplice: quanti “vivacchiano nella Chiesa” ma non meritano di andare all’inferno debbono attendere di nuovo tutto il tempo della loro vita prima di poter accedere al Monte. A meno che – anche qui – non sopraggiunga la preghiera, ma che sgorghi «da un cuore che viva in stato di grazia». Qualunque altra preghiera – dice Belacqua – è inutile: neanche arriva al Cielo. Dante usa il verbo “udire”, invece di “esaudire” appunto per questo: non è Dio che decide di restar sordo, è la preghiera che parte proprio fiacca e sbilenca, come una freccia scoccata da un ubriaco.
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Ma Dante è filologo e filosofo, oltre che grande teologo: poiché a ogni pie’ sospinto in Purgatorio gli si avvicina qualcuno a chiedergli di far pregare per lui, e siccome sa bene che non esistono “doppie verità” o cose simili, vuole vederci chiaro.
Come libero fui da tutte quante
quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».Pg VI 25-33
Dante si è ricordato di un verso dell’Eneide, quello in cui la Sibilla risponde a Palinuro, che chiedeva di essere traghettato al di là dell’Acheronte malgrado il suo corpo fosse insepolto: «Non sperare di poter piegare gli statuti di un dio con le preghiere» («Desine fata deum flecti sperare precando» – Æn VI 376). È vero che Virgilio era pagano, ma Dante sapeva che la Rivelazione cristiana non poteva contrastare i risultati conseguiti da una retta ragione che cerca la verità – e questo (oltre a molto altro ancora) era per lui Virgilio. Quindi un po’ sommessamente Dante chiede: «Sono questi che mi fermano di continuo a illudersi o sono io che non ho capito il tuo verso?».
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E Virgilio risponde a entrambi i punti, però affermando previamente: «Quello che ho scritto io è vero, e allo stesso modo questi hanno ragione in ciò che ti chiedono». Basta un poco d’attenzione, dice la guida di Dante. E spiega:
- Il giudizio di Dio non cambia natura (non diventa una valle da una montagna che era) come se il fuoco delle preghiere compiesse in un istante la pena dell’anima purgante: la soddisfazione al peccato, infatti, non viene “condonata”, ma compiuta in solido.
- Quanto al passo dell’Eneide citato da Dante, v’era una ragione teologica per cui le cose allora stavano effettivamente così: prima dell’incarnazione di Cristo le preghiere non avevano presa su Dio così come nessuno avrebbe potuto afferrare e crocifiggere il Figlio di Dio (malgrado questi esistesse e operasse fin dall’eternità). La preghiera degli uomini, dunque, vede ontologicamente mutata la propria efficacia proprio a partire dal mistero di Cristo.
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto».Pg VI 34-42
L’opinione teologica di sant’Agostino e di san Tommaso
Ma devo qualcosa pure alla memoria di mio nonno, che quando mi sentiva parlare lungamente di Dante interrompeva brusco: «E questo Dante! Mica è Vangelo! E neanche un Papa, un Padre o un Dottore della Chiesa!» (già, mio nonno aveva la quarta elementare ma le fonti della teologia le distingueva e le elencava correttamente). Del resto anche lo stesso Virgilio, in quel passo dantesco, sentiva di aver dato una risposta corretta ma ancora insufficiente:
[…] Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».Pg VI 43-48
Non solo perché “Beatrice rappresenta la teologia mentre Virgilio la filosofia”, come ancora possiamo leggere negli stanchi appunti che si prendevano al liceo, ma molto di più perché Beatrice è inserita in quel mistero di grazia, mentre Virgilio ne è escluso – questo è, per le prime due cantiche, uno dei crucci esistenziali e dottrinali più estesi di Dante –: dunque lei può comunicarlo e lui no. Può intravederlo e può accennarlo, ma non ne comprende appieno e da dentro le dinamiche.
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E chiediamo allora alla teologia, ma uscendo dalla Commedia (per rispetto della memoria di mio nonno e degli altri che – giustamente – esigono “le fonti”).
Agostino
Scriveva dunque nel suo Manuale su fede, speranza e carità il Dottore della Grazia – quello che aveva spiegato come fosse inascoltata la preghiera di chi è cattivo, chiede cose cattive e le chiede male –:
Non si deve nemmeno negare che le anime dei defunti ricevono sollievo dalla pietà dei propri cari che sono in vita, quando viene offerto per loro il sacrificio del Mediatore o si fanno elemosine nella Chiesa. Tutto questo però giova a quanti in vita hanno acquisito meriti che consentissero in seguito di ricavarne vantaggio. C’è infatti un tipo di condotta non così buono da non richiedere questi suffragi dopo la morte, né così cattivo da non ricavarne giovamento dopo la morte; ve n’è poi uno talmente buono da non richiederne e viceversa uno talmente cattivo da non potersene avvantaggiare, una volta lasciata questa vita. È in questa vita perciò che si acquista ogni merito, che consente a ciascuno di ricavarne sollievo o oppressione. Nessuno però s’illuda di guadagnarsi presso Dio, al momento della morte, quanto ha trascurato quaggiù. Quindi tutte le pratiche solitamente raccomandate dalla Chiesa a favore dei defunti non sono contrarie all’affermazione dell’Apostolo: Tutti dovremo comparire davanti al tribunale di Dio, ciascuno per ricevere la ricompensa per quanto ha fatto finché era nel corpo, sia in bene che in male; anche il merito di potersi giovare di queste cose, infatti, ciascuno se l’è procurato finché viveva nel corpo. Ma non tutti se ne giovano: e perché mai, se non perché ciascuno ha condotto, finché era nel corpo, una vita diversa? Ora, dal momento che vengono offerti sia i sacrifici dell’altare sia di qualunque altra elemosina, essi rendono grazie per chi è veramente buono; intercedono per chi non è veramente buono; per chi poi è veramente cattivo, non potendo in alcun modo aiutare i morti, cercano in qualche modo di consolare i vivi. Per quanti poi se ne giovano, il giovamento comporta o la piena remissione o almeno la possibilità di una condanna più tollerabile.
Aug., Ench. 110
Circa otto secoli dopo l’Aquila Patrum, l’altro grande Dottore d’Occidente, Tommaso d’Aquino, dedicava l’intera Quæstio 71 del Supplementum alla Summa Theologiæ per discutere dei suffragi per i morti. I primi tre articoli sarebbero da riportare integralmente, ma visto che ci siamo già dilungati abbondantemente riporteremo unicamente il terzo, che lascia perfino intravedere (con quell’acribia unica e peculiare del Dottore Angelico) qualche possibilità per cui anche la preghiera dei peccatori può essere ascoltata. Il che, mi pare, è anche una buona notizia per tutti noi.
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Tommaso
Se ai morti giovino i suffragi fatti dai peccatori
Supplemento
Questione 71
Articolo 3
SEMBRA che ai morti non giovino i suffragi fatti dai peccatori. Infatti:
1. Nel Vangelo si legge: “Dio non ascolta i peccatori”. Ma se le preghiere fatte da loro giovassero a quelli per i quali sono formulate, essi sarebbero esauditi da Dio. Dunque i suffragi che essi fanno non giovano ai morti.2. Dice S. Gregorio che “quando si interpone a pregare uno che non gode il favore di chi si prega, se ne provoca lo sdegno e la vendetta”. Ora, qualsiasi peccatore dispiace a Dio. Perciò i suffragi da lui fatti non inducono il Signore alla misericordia. Quindi tali suffragi non giovano.
3. Un’opera buona reca più utilità a chi la fa che a qualunque altro. Ma il peccatore con le sue opere non può meritare in alcun modo per sé. Molto meno dunque può meritare per altri.
4. Ogni opera meritoria deve essere vivificata, ossia “informata dalla carità”. Ma le opere del peccatore sono morte. Dunque non possono giovare ai morti, ai quali sono destinate.
IN CONTRARIO: 1. Nessuno può sapere con certezza assoluta se un altro è in stato di grazia o di colpa. Se quindi giovassero solo i suffragi di quelli che sono in grazia, uno non potrebbe sapere a chi rivolgersi per i suffragi da fare per i propri defunti. E così molti si asterrebbero dal procurare i suffragi.
2. Dice inoltre S. Agostino che un morto riceve dai suffragi tanto giovamento quanto meritò per riceverlo in vita; quindi il valore dei suffragi è [solo] proporzionato dalle condizioni di colui, cui sono diretti. Perciò non ha importanza che siano fatti dai buoni o dai peccatori.
RISPONDO: Nei suffragi fatti da coloro che non sono in grazia si possono considerare due cose. Primo, l’opera compiuta: p. es., il sacrificio dell’altare. Ebbene questa giova come suffragio dei defunti anche se compiuta da peccatori, perché i nostri sacramenti hanno efficacia per se stessi a prescindere dall’opera di chi li amministra.
Secondo, l’opera quale atto dell’operante. E allora bisogna distinguere. Perché l’opera del peccatore che fa i suffragi, considerata in primo luogo come sua, non può essere affatto meritoria né per sé né per altri. – Ma il peccatore che fa i suffragi può essere considerato quale rappresentante di tutta la Chiesa, come il sacerdote che compie le esequie per i morti. Ora, siccome l’azione appartiene a colui in nome del quale viene fatta, come dice Dionigi, è chiaro che i suffragi di detto sacerdote, anche se peccatore, giovano ai defunti. – L’opera può essere di un altro, quando chi la compie agisce come suo strumento. In tal caso l’azione si attribuisce, più che allo strumento, all’agente principale. Perciò anche se chi funge da strumento non è in istato di poter meritare, l’azione può nondimeno essere meritoria a motivo dell’agente principale: come se un servo, trovandosi in peccato, fa una qualsiasi opera di misericordia per ordine del padrone che vive in grazia di Dio. Perciò se qualcuno, morendo in istato di grazia, o chi per lui nelle stesse disposizioni, ordina che gli vengano fatti dei suffragi, questi valgono per il defunto, anche se chi li fa si trova in peccato. Tuttavia essi varrebbero di più se chi li compie fosse in grazia di Dio: perché allora quelle opere sarebbero doppiamente meritorie.SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La preghiera fatta dal peccatore in certi casi non è del peccatore, ma di un altro. Perciò da questo lato è degna di essere esaudita dal Signore.
Talvolta poi anche i peccatori sono ascoltati da Dio, cioè quando chiedono quel che a lui è gradito. Il Signore infatti dispensa il bene non solo ai giusti, ma anche ai peccatori, come è detto nel Vangelo, non per i loro meriti, ma per la sua clemenza. Perciò la Glossa, a commento delle parole di S. Giovanni: “Dio non ascolta i peccatori”, dice che il cieco le pronunciò come ancora “infangato”, cioè come uno che non ci vedeva perfettamente.2. La preghiera del peccatore, pur non essendo accetta a Dio per l’orante che dispiace, può esserlo a motivo degli altri che quegli rappresenta, o di cui eseguisce l’ordine.
3. Se il peccatore che fa i suffragi non ne riporta nessun beneficio, lo deve alla propria indisposizione. Quelli però possono giovare ad altri, che non sono indisposti.
4. Sebbene l’opera del peccatore non sia viva in quanto appartiene a lui, tuttavia lo può essere in quanto è di un altro, come è stato già spiegato.
Siccome poi le ragioni addotte in contrario sembrano concludere che è indifferente procurare i suffragi per mezzo dei buoni o dei cattivi, bisogna rispondere anche a queste.5. È vero che non possiamo sapere con certezza se esso è in stato di grazia, ma è possibile congetturarlo da ciò che di lui apparisce all’esterno, perché “l’albero si conosce dai suoi frutti”, come dice il Vangelo.
6. Perché i suffragi valgano per un altro, si richiede da parte sua la capacità recettiva che egli acquistò in vita per mezzo delle proprie opere buone. In questo senso parla S. Agostino. Tuttavia si richiede anche, nell’opera destinata al suffragio, una certa qualità. E questa non dipende da colui che deve usufruirne, bensì da colui che la compie o che ordina di compierla.
Th., Sup. q. 71, a. 3