Il nuovo presidente della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea parla con Aleteia di Europa, popoli, cultura, identità.
Mons. Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo, è stato eletto per sei anni alla presidenza della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) nel marzo 2018. Questa commissione, il cui segretariato è presente in maniera permanente a Bruxelles, raggruppa vescovi dei 28 stati dell’Unione europea (UE) con il compito di accompagnare le politiche condotte dall’UE. Mons. Hollerich si racconta ad Aleteia ed evoca le sfide dell’Europa e il dialogo tra la Chiesa e l’UE.
Aleteia: Come presidente COMECE lei incontrerà Papa Francesco oggi, 18 maggio. Che cosa si aspetta da lui sulle questioni riguardanti l’Europa?
Mons. + Jean-Claude Hollerich: A più riprese, Papa Francesco ha pronunciato grandi discorsi sull’Europa. Sono ricchi di grande ispirazione. Essendo di origini non europee, apporta una visione differente che può aiutare l’Europa. Mentre ispira la Chiesa su un buon numero di argomenti, egli instilla un certo rinnovamento di cui mi rallegro profondamente.
A.: Tra i discorsi che il Papa ha pronunciato c’è quello di quando ricevette il premio Carlomagno, il 6 maggio 2016: «Che cosa è successo, Europa, terra di poeti, di filosofi, di artisti, di musicisti, di letterati? Che cosa è accaduto, Europa, madre dei popoli e delle nazioni?». Lei cosa ne pensa?
+ J.-C. H.: Se il Papa ha utilizzato parole tanto forti è perché era necessario: bisogna che ci risvegliamo. Abbiamo conosciuto una primavera dell’Europa, al tempo di Robert Schuman. Poi abbiamo barcollato sotto il peso di una certa tecnocrazia. Bisogna ritrovare una nuova ispirazione perché i cittadini europei si sentano di nuovo coinvolti dalle politiche condotte dall’UE. L’Europa non deve diventare un mostro amministrativo ma deve concentrarsi sulla persona umana.
A.: Quando Papa Francesco parla di un risveglio europeo sembra dire che l’Europa si è addormentata… Su quali punti?
J.-C. H.: Su parecchi. Non si può dire, per esempio, che l’integrazione europea stia facendo dei veri progressi. Un altro rischio è quello di tracciare linee politiche disconnesse dalla vita dei cittadini europei. La Chiesa deve quindi richiamare ai responsabili europei che la vera politica è tutt’altro: essa è anzitutto democratica. Bisogna vegliare e curare che la gente pensi e desideri profondamente. E poi condurre una politica in accordo con le sue aspirazioni.
A.: Si possono anche chiosare le questioni di bioetica, sulle quali c’è una vera attesa…
+ J.-C. H.: Molto spesso le persone si sentono sovrastate da quei problemi, riservati come sono agli esperti. Ma sarebbe pericoloso prendere decisioni senza un adeguato dibattito. Senza dibattito ci si sente manipolati. C’è una certa tiepidezza dei partiti politici, su questo terreno, e di conseguenza essi vengono rimpiazzati da altre organizzazioni. Ma tradizionalmente i dibattiti erano avviati proprio al loro interno, prima di essere proseguiti nei parlamenti. Ben vengano, dunque, i dibattiti, perché in gioco c’è il nostro avvenire. Senza una seria riflessione etica non si può immaginare la costruzione del mondo di domani. A questo titolo mi rallegro del fatto che a Parigi ci sia qualcuno che sa bene queste cose e che vigila [mons. Michel Aupetit, N.d.R.].
A.: E la COMECE come prenderà posizione, in questi dibattiti bioetici?
+ J.-C. H.: Anzitutto dobbiamo restringere lo sguardo al quadro delle competenze dell’UE, in accordo con le singole conferenze episcopali. Una gran parte dei dibattiti in bioetica si sviluppano al livello nazionale. Noi non possiamo che intervenire a livello europeo e ricordare all’Europa i limiti della sua competenza quando essa si arroga competenze che non sono le sue. Dobbiamo ugualmente proporre riflessioni etiche agli uomini politici per orientare le loro decisioni, che non sono solamente tecniche o economiche, ma che trattano anche dell’avvenire dell’umanità.
A.: Il suo ruolo di rappresentanza della Chiesa presso l’Unione Europea non assomiglia un poco a quello delle lobbies, che del resto a Bruxelles sono numerose? La Chiesa è una lobby tra le altre?
+ J.-C. H.: No, la Chiesa non è una lobby tra le altre, non ci collochiamo su quel livello. Noi non abbiamo prodotti da vendere: la fede è ben al di là. Tuttavia vogliamo condurre un dialogo e far riflettere. Non spetta a me prendere decisioni politiche, ma come religioso devo porre buone domande in vista del bene comune.
A.: Nella recente attualità un fatto ha toccato gli europei: la storia di Alfie Evans, di cui il Papa è stato uno dei più ferventi difensori. Sembra che ci sia stato un silenzio delle nazioni europee riguardo al piccolo inglese. Come se lo spiega?
+ J.-C. H.: Ci sono state prese di posizione pubbliche e molto nette da parte di un certo numero di parlamentari. La comunità europea è una comunità di Stati, di persone e di istituzioni. Se come struttura pubblica essa non ha reagito, c’è stata nondimeno una forte reazione da parte di deputati. Il caso del piccolo Alfie non è soltanto un problema particolare: è quello di tutta l’Europa. Sono molto contento che il Papa si sia pronunciato con tanta chiarezza.
A.: Un altro problema dell’Europa, sottolineato dal Papa al Parlamento di Strasburgo, è l’invecchiamento della popolazione. Il Pontefice aveva allora qualificato l’Europa di “nonna”. Per alcuni, uno dei mezzi per lottare contro l’invecchiamento dell’Europa consiste nell’aprire le frontiere. Qual è la reazione della Chiesa a tale riguardo?
+ J.-C. H.: L’insegnamento della Chiesa è ricco: dobbiamo per esempio parlare della coppia, valorizzare il matrimonio perché – in prospettiva – ci sia il desiderio di accogliere dei bambini. Siamo una Chiesa per la vita, un tema troppo dimenticato in Europa. Del resto, riguardo alle migrazioni, la storia ci ha mostrato che non si possono chiudere le porte ai migranti. Tuttavia, la perdita dell’identità diventa un vero cruccio per alcuni in Europa. L’identità culturale è minacciata da ben altro: una società postmoderna, il digitale che avanza e via dicendo. I flussi migratori fanno emergere tutte queste problematiche. Bisogna dunque vegliare sul rispetto delle identità, ma occorre che esse siano aperte, perché una società chiusa si isola e si cancella.
A.: Oggi in Europa quelli che parlano più volentieri di identità sono spesso dei partiti qualificati come “euroscettici”. L’anno prossimo si terranno nuove elezioni per scegliere i futuri eurodeputati. Ora, esiste un profondo disincanto dell’UE riguardo alla sua politica. Lei come se lo spiega?
+ J.-C. H.: Non bisogna lasciare l’esclusività dell’identità ai partiti euroscettici. Bisogna parlare di identità: io sono europeo perché sono anzitutto lussemburghese, per esempio. Nel nostro mondo in rapida mutazione le persone si sentono spaesate. Si parla di “progetto politico europeo”, ma i cittadini non sentono che la politica si interessi di fatto ai loro problemi e al loro avvenire. È un sentimento: la realtà, forse, è altra cosa. Bisogna allora spiegarlo, e occorre che i responsabili entrino in dialogo con i loro concittadini. Le condizioni della democrazia stanno cambiando profondamente. E allora, come possiamo conservare delle strutture democratiche? È una domanda che non spetta unicamente agli specialisti: dobbiamo impegnarci per il bene comune.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]