Il muro della mia incapacità mi blocca. Ripongo la forza nelle mie azioniIl lavoro del buon pastore ha a che vedere col prendersi cura della vita che gli viene affidata. La vita è un dono sacro, di fronte al quale il pastore si inginocchia commosso. Una vita che è di Dio. Una vita che non è sua.
Il pastore amministra e basta. Non voglio rendermi proprietario di quello che faccio. Padrone della mia esistenza.
A volte sento di avere diritti che nessuno mi ha concesso, e credo di essere imprescindibile per far sì che il mondo segua il suo giusto corso. Mi vedo come quel buon pastore, profeta, che compie miracoli. Consigliere invidiabile. Creatore di sogni. Instancabile.
Arrivo quasi a pensare che senza di me Dio perderebbe un gran talento, e do troppa importanza a quello che faccio e a quello che dico. A quello che scrivo e che sogno. Come se tutto dipendesse dalla mia mano salda sul timone della mia barca. Come se la mia parola forte guidasse lo scorrere dei giorni.
Un buon pastore che fa tutto con forza e volontà, sempre d’accordo con ciò che vuole Dio. Suona troppo perfetto. Troppo completo.
Guardo la mia vita e verifico che non è così. Le mie opere non sono perfette, e neanche la mia vita. È Dio che compie in me la sua opera perfetta. Non sono io.
Ricordo le parole del cardinale Van Thuan quando venne arrestato. Nella sua angoscia perse la gioia. Pensava di abbandonare le sue pecore, che sarebbero rimaste senza pastore. Disorientate e perdute. Il buon pastore incarcerato.
Forse si dava troppa importanza. Forse si sentiva imprescindibile, come capita tante volte a me. E all’improvviso ha sentito nel cuore la voce del Signore:
“Durante la mia lunga tribolazione di nove anni di isolamento in una cella senza finestre, ero sull’orlo della pazzia. Ero ancora un giovane vescovo con otto anni di esperienza pastorale. Non riuscivo a dormire. Mi tormentava il pensiero di dover abbandonare la diocesi, di permettere che affondassero tutte le opere che avevo eretto per Dio. Sperimentavo una specie di rivolta in tutto il mio essere. Una notte, nel profondo del mio cuore, ho sentito una voce che mi diceva: ‘Perché ti tormenti in questo modo? Devi distinguere tra Dio e le opere di Dio. Tutto ciò che hai fatto e che vorresti continuare a fare è un’opera eccellente, ma sono opere di Dio, non sono Dio’” [1].
E allora ha scelto semplicemente di vivere nel presente accanto al Signore.
Papa Francesco ha affermato che quando il cardinal Van Thuan era in carcere ha rinunciato a esaurirsi aspettando la liberazione, scegliendo di vivere il momento presente colmandolo di amore. Come? “Approfittando delle occasioni che si presentano ogni giorno per compiere azioni ordinarie in modo straordinario”, come disse il presule.
Vorrei saper distinguere tra le opere di Dio e Dio stesso, ma non è sempre facile.
Sono diventato pastore per stare con Lui, per essere il buon pastore alla maniera di Gesù, ma do più importanza alle pecore che a Lui. Forse perché le vedo disorientate.
Arrivo a pensare che grazie a me si salvino. Non grazie a Lui. E credo di essere io con le mie opere a cambiare il mondo, a riempirlo d’amore, a renderlo migliore. Mi vedo potente. Forte. Invincibile.
Mi succede quello che accadeva a Sant’Ignazio: “Finché continuerà a pretendere che raggiungere Dio dipenda dai propri sforzi continuerà a schiacciarsi contro il muro della sua incapacità” [2].
Il muro della mia incapacità mi blocca. Ripongo le forze nelle mie azioni, come se queste mi salvassero. Come se quelle opere senza di me fossero niente.
Tremo. Il potere dei risultati, dei miracoli che osservo e mi attribuisco. Il potere della mia mano e della mia parola. La genialità delle mie opere.
Cosa seguono i miei passi? Gesù senza opere. Seguo Gesù che non fa nulla. Che semplicemente mi ama e muore in silenzio. E la sua grande opera è il suo amore senza misura.
La sua misericordia mi supera, mi trascende. Non sono le sue opere. Solo tre anni di opere. Non sono nemmeno le mie opere a vincere il mondo. Non è l’opera di un uomo. Di un fondatore. Di un santo. Di un Papa.
Le sue opere sono importanti, ma non tanto. Ciò che conta è l’azione di Dio in loro. Quello che gli uomini non vedono. Quello che non vende. Quello che non convince perché resta vivo nel nascondimento.
Ciò che conta è quella vicinanza con il Dio che guida i miei passi e un giorno mi ha chiamato ad addentrarmi nella ferita del suo cuore. Per stare con Lui. Per vivere al suo fianco. Non per fare molte cose e tutte bene, ma per stare al suo fianco. Nei suoi pascoli.
Il salmo del buon pastore mi commuove, perché voglio essere una pecora nel suo grembo. Lì dove i pascoli sono abbondanti. E posso riposare.
È Dio che seguo. È Dio per il quale sono sacerdote ormai da molti anni. Voglio lasciare tutto per seguire Gesù in altri prati più verdi dei miei. E prendermi cura delle sue pecore.
Non devo soddisfare continuamente le aspettative del mondo. Mi piace pensare così nella mia vocazione. Sono pastore nel pastore. Pastore che è pascolo. Pastore che diventa luogo di riposo. Perché ho toccato la pace di Gesù e qualcosa mi si è attaccato alla pelle.
E penso che la mia vita abbia senso solo se lascio da parte tante ombre che mi ossessionano e vivo soltanto per Lui. E da lì potrò dare la vita a molti.
Ci sono tante pecore senza pastore. Lo so. Ma non posso arrivare a tutte. Non riesco a far sì che tutte riposino in me.
Ogni pastore ha il suo cammino, la sua missione, la sua vocazione. Gesù mi mostra la mia ogni mattina. Cammina con me. Nella mia voce, nelle mie mani, nel mio petto.
[1] Cardinale Van Thuan, Cinque pani e due pesci.
[2] José María Rodríguez Olaizola, Ignacio de Loyola, nunca solo.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]