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Il culto gradito a Dio è il servizio al prossimo: non lo ha inventato Papa Francesco!

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/04/18
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L’esortazione apostolica sulla chiamata universale alla santità offre spunti che a prima vista possono apparire “strani”, perché forse contrastanti con alcuni stilemi agiografici nebulizzati nella “cultura generale” dei nostri contesti. In realtà, è proprio a un avvincente confronto con tutta intera la storia del cristianesimo (che è storia di santità!) che il Pontefice ci invita.

Sembrava impossibile che gli immancabili malpancisti del pontificato presente (buona parte dei quali hanno il mal di pancia da nove pontificati in qua, per dirla tutta) trovassero da ridire anche sulla bella esortazione apostolica Gaudete et exsultate. E invece…

Mi ha fatto piacere la risposta di un dotto sacerdote che, da me sollecitato a condividere un parere in merito, mi ha risposto: «L’ho letta ma sto ancora riflettendo, ho bisogno di silenzio». E io di rimando: «Ah, beato te che non lavori su questa giostra circense che troppe volte sembra il mondo dell’informazione!». In effetti Gaudete et exsultate assomiglia molto più a un “testo di spiritualità” che a un “documento magisteriale” (e in realtà dovremmo riflettere proprio sul fatto che questi generi letterari ci sembrino disomogenei…): cosa si potrà mai rimproverare a un testo di spiritualità?, mi chiedevo. La risposta mi sarebbe stata di lì a breve: di essere poco spirituale, per esempio. Era, sì, avvenuto che un giornalista chiedesse in conferenza stampa se il testo di Papa Francesco non proponesse una “santità orizzontale”, ma quel collega poteva ben essere stato ingannato da un’impressione superficiale, avendo ricevuto il documento praticamente pochi minuti prima. Desta invece meno stupore che sconcerto leggere in certi editoriali scritti con tutto il tempo necessario che addirittura si dovrebbero contrapporre al Santo Padre questo o quel santo… Ci sarebbero molte cose da dire, a proposito, ma le riassumiamo tutte in una domanda (forse destinata a cadere nel vuoto): com’è possibile che persone tanto appassionatamente dedite alla preghiera riescano a produrre una tale quantità di bile? «Forse la sorgente – direbbe Giacomo – può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara?» (Gc 3, 11).

Perfino Emmanuel Macron, formulando il suo inquietante intervento davanti alla Conferenza Episcopale Francese, ha voluto citare il passaggio dell’Esortazione in cui si afferma che la santità è «il volto più bello della Chiesa» (GE 9), per chiosare poco oltre:

«La vita attiva – diceva Gregorio – è servizio, la vita contemplativa è libertà»: mentre ricordo l’importanza di questa parte intempestiva e del punto fisso che voi potete rappresentare, stasera vorrei avere un pensiero per tutte quelle e tutti quelli che si sono impegnati in una vita reclusa, o una vita comunitaria, una vita di preghiera e di lavoro. Anche se ad alcuni essa sembra fuori tempo, questo tipo di vita è pure l’esercizio di una libertà. Essa dimostra che il tempo della Chiesa non è quello del mondo, e certamente non è quello della politica così come va oggi – anche questo è un bene.

Come si possa riuscire, da credenti, a equivocare l’incessante tensione che permette lo stesso incedere storico della Chiesa attraverso i secoli – quella tra il moto di Marta e la stasi di Maria – è cosa davvero fuori dalla mia portata. Preferisco piuttosto andare a recuperare alcune radici della bella Tradizione che zampilla dalle pagine di Gaudete et exsultate. Ci si è potuti stupire un poco, forse, dei paragrafi del documento dedicati al “culto gradito a Dio”:

104. Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche – è vero che il primato spetta alla relazione con Dio –, e dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli.

105. Per la stessa ragione, il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia. Perché «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli».[88] Essa è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa».[89] Desidero sottolineare ancora una volta che, benché la misericordia non escluda la giustizia e la verità, «anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio».[90] Essa «è la chiave del cielo».[91]

106. Non posso tralasciare di ricordare quell’interrogativo che si poneva san Tommaso d’Aquino quando si domandava quali sono le nostre azioni più grandi, quali sono le opere esterne che meglio manifestano il nostro amore per Dio. Egli rispose senza dubitare che sono le opere di misericordia verso il prossimo,[92] più che gli atti di culto: «Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo: Egli infatti non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo. Perciò la misericordia con la quale si soccorre la miseria altrui è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo».[93]

Eppure si potevano addurre anche molte altre autorità, prima e dopo il Dottore Angelico, per evidenziare la sempreverde attualità di questa dottrina: uno per tutti, ricordiamo Giovanni Crisostomo, che paragonava letteralmente i barboni puzzolenti per strada al Santissimo Sacramento custodito nelle chiese.

Ma leggiamo pure, nella Vita della Beata Emilia Bicchieri, vercellese domenicana di poco posteriore al domenicano di Roccasecca (1238-1314) la cui memoria liturgica cade il 3 maggio:

Pure un giorno gl’occorse di rimanerne priva [della Santa Comunione, N.d.R.]; ma chi altro potea privarla di sì grato contento, che la carità del suo prossimo? Il servire ad una inferma pericolosa, mentre si dice la Messa, fe’ sì che non si potesse trovare a tempo alla sacra communione. Ma perché chi lascia Dio per Dio non lascia mai Dio, ella finiti gl’affari dell’inferma trasferissi al coro, e mentre ivi, alla presenza del suo sacramentato Signore, insieme si duole di non essere stata degna di riceverlo quella mattina, e gli offrisse sì gran mortificazione, che era la maggiore che potesse avere in questa vita mortale, come sopportata per la carità usata a quella povera inferma, e conseguentemente per amor suo; vede frettoloso venir un Angelo dal Cielo che, avendo preso dall’Altare la sacra Hostia, alla presenza e con stupore di molte Monache, che stavano con essa nel coro, visibilmente la communica, restando ella, per sì segnalato favore, estatica e fuor di se stessa; ma alla fine, venuta in sé, invitò quelle Suore ad aiutarla a ringraziar il Signore, cantando insieme con loro il cantico Te Deum laudamus.

L’espressione “non lascia Dio per Dio” è solita essere attribuita a san Vincenzo de’ Paoli, il quale usa parole effettivamente assai simili, ma questa pagina del Sagro Diario Domenicano è stata «cavata dalla relazione della sua vita, e miracoli, stampata in Vercelli l’anno 1562, da Suor Anna Maria Emilia Fuaza». Il santo prete francese non sarebbe nato che 19 anni dopo la comparsa di quella relazione. E alcune tra le parole più note e ricordate (addirittura si trovano nella seconda lettura dell’Ufficio del 27 settembre) di questo grande mistico si ricavano da una sua conferenza:

Il servizio dei poveri dev’essere preferito a ogni cosa, e non bisogna ammettere ritardi in ciò che riguarda il servizio dei poveri. Se nell’ora della vostra orazione dovete andare a portare una medicina o qualche soccorso… beh, andate tranquilli, offrite a Dio la vostra azione come se steste proseguendo la vostra orazione. Non bisogna che il vostro spirito sia turbato o che reputiate la vostra coscienza carica di un peccato, perché è per il servizio dei poveri che avete dovuto lasciare l’orazione, e non è trascurare Dio, l’allontanarsene a sua causa: infatti, s’interrompe un’opera di Dio per compierne un’altra.

Vincenzo De’ Paoli, Lettere e conferenze

E naturalmente ci sarebbero altri giganti della carità, da interpellare, come Camillo De’ Lellis e la stessa Madre Teresa (ma pure il luterano Albert Schweitzer ha scritto meditazioni sublimi, su questo punto), ma poi ci allontaneremmo troppo dal testo del Papa, rischiando così di non cogliere la sintesi che l’esortazione apostolica cerca di offrire. Quando lo sviluppo è ormai oltre il proprio apice, leggiamo infatti:

147. Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi.

148. San Giovanni della Croce raccomandava di «procurare di stare sempre alla presenza di Dio, sia essa reale o immaginaria o unitiva, per quanto lo comporti l’attività».[109] In fondo è il desiderio di Dio che non può fare a meno di manifestarsi in qualche modo attraverso la nostra vita quotidiana: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore».[110]

149. Ciò nonostante, perché questo sia possibile, sono necessari anche alcuni momenti dedicati solo a Dio, in solitudine con Lui. Per santa Teresa d’Avila la preghiera è «un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo d’essere amati».[111] Vorrei insistere sul fatto che questo non è solo per pochi privilegiati, ma per tutti, perché «abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata».[112] La preghiera fiduciosa è una risposta del cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio.

Mi fa piacere che il Santo Padre abbia citato così accuratamente i grandi mistici del XVI secolo, el siglo d’oro della scolastica spagnola (che poi è lo stesso di Camillo De’ Lellis, Filippo Neri, Ignazio di Loyola e tanti altri campioni): saranno le loro semenze a fruttificare nelle grandi opere di moralisti e guide d’anime come Francesco di Sales e Alfonso Maria de’ Liguori. Tuttavia, avevo già confessato due giorni fa di essere andato a sfogliare Gaudete et exsultate nella segreta speranza di trovare belle citazioni del De imitatione Christi, che di questa dottrina è un passaggio fondamentale e splendido (ed ero rimasto un pelino deluso nel non trovarne…) Infatti sebbene il quarto e ultimo libro dell’opera sia tutto dedicato all’Eucaristia e alla preparazione per una buona Comunione, nel primo libro si leggeva, tra l’altro:

Per nessuna ragione al mondo,

né per amore di chicchessia,

bisogna fare qualcosa di male.

Ma per utilità di chi è nel bisogno

si deve interrompere talvolta una buona opera

o sostituirla con una migliore.

In tal mondo non si perde un’opera buona,

ma la si muta in una migliore.

Senza la carità

l’opera esteriore non giova a nulla.

Qualunque cosa fatta per amore,

per quanto piccola e disprezzabile possa essere,

porta molto frutto.

Poiché Dio non giudica l’azione umana in sé,

ma le sue motivazioni.

Molto fa chi molto ama.

Molto fa chi agisce bene.

Agisce bene chi si pone al servizio della comunità,

più che del suo volere.

Spesso sembra essere carità,

ed è piuttosto carnalità,

perché è raro che siano assenti

l’inclinazione naturale, la volontà propria,

la speranza della ricompensa

e le simpatie personali.

Imitazione di Cristo, I, 15, 1-2

Questa che ho qui riportato è una bella traduzione ritmica di Enrico Lally, che si trova nell’ultima ristampa del testo per i tipi di Àncora. Introducendo la più famosa traduzione italiana tra le moderne, quella di Antonio Cesari, padre Semeria scriveva che l’Imitazione «non è più il manuale della virtù monastica, bensì della perfetta vita cristiana».

E proprio ora che l’ultimo libro della mia amica Costanza riscuote grande (e meritato) successo con il conio del “monastero wi-fi” – a proposito, non se ne abbia a male il Santo Padre ma un’amica comune mi ha detto: «Gaudete et exsultate sembra una recensione a Si salvi chi può!» – mi pare giusto cercare i semi dell’esortazione apostolica di Francesco anche nella devotio moderna. Difatti anche Antonio Gentili, nella sua preziosa introduzione all’edizione che citavo sopra, chiosava:

Se è vero che il nostro testo è stato scritto da un monaco per dei monaci, è altrettanto vero – e lo dimostra la sua diffusione in ogni categoria di persone – che il suo messaggio riveste una portata universale. Se poi ci rifacciamo a quel “monachesimo interiore”, che viene rivendicato come pedaggio di ogni serio itinerario spirituale, ci rendiamo conto che l’essere restituiti a noi stessi è la vera posta in gioco di un’esistenza umana intesa a sviluppare il germe divino da cui è segnata per la vita presente e quella futura.

Antonio Gentili, Introduzione in Imitazione di Cristo, 12-13

L’utilità, me ne convinco sempre di più, è il punto di forza di Gaudete et exsultate, perché distinguere la caritas dalla carnalitas – che può ben assumere fattezze di spiritualità, così come la seconda delle due parole somiglia alla prima abbastanza da poter confondere il lettore frettoloso – è proprio ciò che differenzia un’esistenza riuscita da una fallita. Giustamente il Papa spiega:

Se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo [Mt 25, N.d.R.] troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (25,35-36).

Gaudete et exsultate 95

Infatti ci si può ben dedicare al culto “divino” per soddisfare nevrosi estetiche che si atteggiano a “estatiche” (anche Dorian Gray ci passa, e Wilde fu spietato nel descrivere quella mistificazione che voleva passare per mistica), ma davvero non si persiste nel logorante, umiliante, poco gratificante servizio dei fratelli se non si dispone di uno sguardo realmente contemplativo, che realmente – come insegna il santo padre Ignazio – s’esercita a «cercare e trovare Dio in tutte le cose».

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