Le prigioni APAC, istituti a bassa vigilanza da cui i reclusi non si sognano neanche di fuggireRenato Da Silva Junior ha 28 anni e sogna di diventare avvocato. Sulla sua strada c’è un solo ostacolo: sta scontando una condanna a vent’anni per omicidio, e finora ne ha scontati appena cinque.
“I miei sogni sono più grandi dei miei errori”, ha dichiarato Renato, che trascorre tutto il suo tempo studiando e lavorando per ridurre la pena che gli è stata inflitta. “Sto facendo tutto ciò che è in mio potere per uscire di qui il prima possibile”.
Renato è recluso nella prigione maschile di Itaúna, nello Stato brasiliano di Minas Gerais, e ha già ottenuto una riduzione della pena di due anni grazie al suo lavoro e allo studio presso l’Associazione per la Protezione e l’Assistenza ai Condannati (Associação de Proteção aos Condenados, APAC), un’associazione della società civile che collabora strettamente con l’amministrazione penitenziaria. Quello in cui vive è un istituto a bassa vigilanza, in cui i condannati indossano i propri vestiti, si preparano i pasti e sono perfino incaricati della sicurezza. Nel carcere APAC non ci sono guardie o armi, e i reclusi hanno letteralmente le chiavi della struttura.
“Non penso affatto a fuggire. Sono vicino alla fine della mia condanna e ho quasi pagato per il crimine che ho commesso. Ripongono la propria fiducia in me ed è mia responsabilità controllare la porta”, ha affermato David Rodrigues de Oliveira, 32enne responsabile dell’apertura della porta principale del carcere maschile, come riporta The Guardian.
“Il mio prossimo passo è la libertà condizionata, grazie alla quale potrò uscire una volta a settimana. Ho una famiglia a cui pensare. Non la metterei mai a repentaglio”.
Il sistema dell’APAC
Nel carcere APAC ai condannati non è permesso di rimanere nella propria cella, a meno che non siano malati o siano stati puniti. Tutti si danno da fare e rispettano la rigida routine di studio e lavoro, sapendo che un tentativo di fuga li rispedirebbe nel sistema ordinario, che tutti hanno già sperimentato.
Fondato nel 1972 dai cristiani evangelici per offrire un’alternativa umana alle prigioni classiche, il sistema ha ora 49 strutture carcerarie in Brasile e “filiali” in Costa Rica, Cile ed Ecuador. I reclusi devono mostrare rimorso per quello che hanno fatto, ed è dimostrato che chi vive in questo tipo di istituti ha tassi più bassi di recidiva e più probabilità di portare beneficio alla propria comunità.
“Commettendo un crimine, i prigionieri spezzano il patto sociale”, ha affermato Ana Paula Pellegrino, del think tank dell’Istituto Igarape di Rio de Janeiro. “Una prigione APAC lo ripristina permettendo ai reclusi di lavorare per la comunità. Alcuni prigionieri possono andare ad esempio a pulire le strade, il che dà loro un senso di responsabilità e di appartenenza”.
Le prigioni APAC sono coordinate e supportate dalla fondazione italiana AVSI. Il vicepresidente di AVSI Brasile, Jacopo Sabatiello, ha spiegato cosa si fa ad esempio nella sala dedicata ai lavori in legno: “Quest’area è dedicata ai nuovi arrivati. Hanno rotto qualcosa con le loro mani e ora con quelle stesse mani devono fare qualcosa di buono. Quando arriveranno nell’area semi-aperta svolgeranno un lavoro che li farà uscire”. Nell’area chiusa, la filosofia dell’APAC è scritta sui muri, con slogan come: “Entra l’uomo, il crimine resta fuori”.
Secondo il giudice Paulo Antônio de Carvalho, le carceri APAC sono un modo efficace per rispettare i diritti umani nel sistema penitenziario brasiliano. “Un prigioniero dovrebbe perdere solo la libertà, non i suoi diritti umani”.
Se è così, ci si potrebbe chiedere perché non ci siano più istituti di questo tipo. “Ogni volta che c’è una rivolta carceraria in Brasile, qualcuno prende il telefono e dice di voler aprire un APAC in quella zona”, ha affermato Sabatiello, “ma per farlo servono varie cose, come il coinvolgimento dello Stato e volontà politica”. Ostacoli tipici sono i problemi finanziari, il sovraffollamento e la corruzione.
Esistono APAC anche per le donne. Tatiane Correia de Lima, 26enne madre di due bambini responsabile delle chiavi della sezione chiusa del carcere femminile di Itaúna, ha spiegato che l’APAC ha ripristinato la sua femminilità. “Le altre prigioni te la strappano via. Non potevamo avere degli specchi. Quando ho visto il mio riflesso una volta arrivata qui, all’inizio non sapevo chi fossi”.