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Fare la Comunione estingue i peccati veniali? Non solo quello…

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 28/03/18
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Recentemente in alcune interviste qualche prelato ha ricordato che uno degli effetti dell’eucaristia è di “estinguere i peccati veniali”. Visto che qualcuno ci ha chiesto di spiegare questa dottrina, e che la stessa si collega bene ad altri temi da noi trattati recentemente, proviamo a dare una risposta ampia e ambiziosa. Vorremmo infatti mostrare l’armonioso sviluppo di una dottrina che, sistematizzata in buona parte al Concilio di Trento, risale alla Scolastica, ai Padri e soprattutto a Gesù… e concorda con quella insegnata da grandi moralisti del XX secolo come Bernard Häring.

Ora che abbiamo forse offerto una delucidazione quanto alla distinzione tra peccati veniali e peccati mortali, possiamo provarci a rispondere a un’altra domanda pervenutaci in Redazione: «È vero che la partecipazione all’Eucaristia estingue i peccati veniali?». Certamente sì: è vero. Però dobbiamo aver chiaro anzitutto cosa sia un peccato veniale e cosa voglia dire “estinguere”.


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Claudia Cirami, che tra l’altro è un’assidua e attenta lettrice di Aleteia mi ha scritto che in mano a me perfino Bernard Häring sembrerebbe san Roberto Bellarmino. L’ho preso per un complimento, data la confidenza tra me e lei, anche se sono persuaso che molte volte basti leggere serenamente i testi stessi, invece di fidarsi di certe «copie di mille riassunti», sovente avvelenati.



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Comunque, proprio per stornare ancora di più il sospetto di “modernismo”, stavolta vorrei iniziare a rispondere citando due pagine tridentinissime: le prendo da due testi scritti a un solo anno di distanza, uno nel 1584 e uno nel 1585. Si era dunque attorno al quarantennale dell’apertura del Concilio di Trento (che si sarebbe concluso dopo diciotto anni, nel 1563). Il primo testo che leggiamo è del carmelitano Angelo Castiglione, che fu predicatore di fama chiarissima e collaboratore di san Carlo Borromeo nella riforma postconciliare: la sua storia sarebbe affatto interessante, ma per ora basti quanto abbiamo detto. L’altro libro è del reverendo Marco Scarsella da Tolentino, che negli anni ’80 del XVI secolo era titolato della Chiesa collegiata di san Tommaso Apostolo a Venezia.


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Il libro del padre Castiglione è una raccolta di omelie: i testi omiletici sono sempre importantissimi, per la storia del dogma, perché rivelano il grado di assorbimento della dottrina nei vari segmenti del popolo santo di Dio. Mi prendo appena la libertà di adattare la grafia e qualche espressione estremamente tipica dell’epoca al nostro italiano contemporaneo. Diceva dunque il padre Castiglione in un’omelia pasquale (casca a fagiolo):

La seconda penitenza è quella che far si deve per i peccati quotidiani, da noi nominati “veniali”. Non dobbiamo farci beffe de’ peccati veniali, come fanno alcuni che dicono “questo è peccato veniale, non importa”. Invece io ti dico che chi non schiva i veniali, facilmente inciampa e cade ne’ mortali. So che in questa vita non possiamo schivare tutti i peccati veniali, eppur bisogna essere avvertiti nello schivarli, per quanto a noi è possibile. I Dottori Santi assomigliano i peccati veniali alle gocciole della pioggia, ai granelli di sabbia e alla rogna. Le gocciole di pioggia sovente tanto crescono che empiono i fiumi. E i peccati veniali talora tanto abbondano che ti possono tirare ai mortali. I granelli di sabbia sono piccolissimi, ma se butti su di un campo una grande quantità di sabbia lo farai diventare sterile. Così i peccati veniali, raffreddando nell’anima la carità, la fanno divenir sterile nelle buone opere. La rogna non ammazza l’uomo, ma lo imbratta e lo fa parere brutto. Così i peccati veniali, quantunque non estinguono la carità, che è la vita dell’anima, nondimeno imbrattano l’anima di sorte che, se non purga tal bruttezza, non può entrare in Paradiso. I pidocchi non t’ammazzano, ma se fossi incarcerato in una prigione che fosse tutta piena di pidocchi t’ammazzerebbero. Parimenti, i peccati veniali non uccidono l’anima ma possono ben tanto crescere e moltiplicarsi che ti tireranno a peccato mortale, che uccide l’anima.

Ora, per conseguire la remissione de’ peccati veniali abbiamo l’orazione del Signore, che dobbiamo dire non solamente contro i peccati veniali, ma anche contro i mortali, e ripetendo devotamente “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” ci sono perdonati i peccati veniali. Così ancora, quando devotamente riceviamo l’aspersione dell’acqua santa, o la benedizione del Vescovo, oppure quando facciamo orazione in una chiesa consacrata, ci sono perdonati i peccati veniali – come dicono alcuni Dottori. È ben cosa certa che quando piamente andiamo a ricevere il Santissimo Sacramento ci sono perdonati tutti i peccati veniali. Così quando di cuore ci percuotiamo il petto, pregando Dio che ci perdoni, ci sono rimessi i peccati veniali. Ma molti dicendo il Confiteor [«Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli…», N.d.R.] si percuotono il petto per usanza e non perché si dolgano in verità de’ loro peccati: di quei tali dice sant’Agostino che percuotendosi il petto rassodano e confermano i peccati che hanno dentro nel cuore, poiché non se ne pentono, né intendono lasciarli.

Come si vede, non solo quella di Häring che vi ho esposto qualche giorno fa è purissima “dottrina tridentina” (come piace dire ad alcuni), ma la stessa vive nell’accordo bimillenario con le dottrine dei santi Padri. Come si spiega questo? In due modi, uno afferente alla stessa ragione teologica e uno allo sviluppo storico della prassi confessionale: anzitutto, la fede cattolica è semplicemente divina, quindi permane sostanzialmente immutata nel corso dei secoli; in secondo luogo, la distinzione tra peccati mortali e peccati veniali si deve a un’epoca alto-medievale, quando il sacramento della riconciliazione prese ad essere reiterato ad libitum. Questo è un passaggio importante: non è che i primi cristiani non peccassero, ma è che consideravano “peccati” in senso forte, cioè tali da vanificare l’effetto del battesimo, alcuni delicta graviora, quali l’apostasia, l’omicidio e l’adulterio (alcuni aggiungevano al novero anche il furto e poche altre cose). La questione dei lapsi, cioè di quanti sotto le persecuzioni imperiali rinnegavano la fede ma poi chiedevano di essere riammessi alla comunione ecclesiale, fu il rompighiaccio dello sviluppo storico del sacramento della Riconciliazione.



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Alle volte mi dicono: «Eh, una volta si dovevano confessare pubblicamente i peccati». Ma che sciocchezze sono queste? Una volta, semplicemente, i peccati da confessare erano solo quelli così grossi da essere ipso facto già noti in seno alla comunità. Non appena la sensibilità ecclesiale si sgrossò quanto bastava a capire che quel “nuovo” sacramento (che nuovo non era) faceva bene anche a chi non avesse fatto apostasia, omicidio o adulterio, le confessioni divennero “auricolari”, cioè private e segrete, e furono elaborati appositi sedili con braccioli tanto alti che chi vi si allocava per ascoltare i penitenti non vedesse neppure il loro volto (gli antenati dei confessionali lignei oggi tristemente in disuso). E il Concilio di Trento, nella sua 14esima sessione, giunse a stabilire:

Da tutto questo risulta la necessità che i penitenti enumerino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza, anche se si tratta dei peccati più nascosti e commessi soltanto contri i due ultimi comandamenti del Decalogo, perché spesso feriscono più gravemente l’anima e si rivelano più pericolosi di quelli chiaramente ammessi. Quanto ai peccati veniali, che non ci privano della grazia e nei quali cadiamo con più frequenza, benché sia opportuno e utile e al di fuori di ogni presunzione manifestarli in confessione (come mostra l’uso di persone pie), possono tuttavia essere taciuti senza colpa ed espiati con molti altri rimedi. Ma poiché tutti i peccati mortali, anche solo di pensiero, rendono gli uomini “figli dell’ira” [Ef 2,3] e nemici di Dio, così è necessario chiedere perdono di tutti a Dio con un’aperta e umile confessione.

Perciò, mentre i cristiani si sforzano di confessare tutti quelli che vengono loro in mente, senza dubbio mettono tutti i loro peccati davanti alla divina misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote. «Se infatti l’ammalato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il medico non può curare quello che non conosce».

Era il 25 novembre 1551, e quest’ultima citazione era di san Girolamo, vissuto tra il IV e il V secolo. Quest’armoniosa corrispondenza delle dottrine antiche e moderne riusciva inafferrabile ai Riformatori: già nell’omelia per la domenica delle Palme del 1524 Lutero affermava che questo modo d’intendere la confessione sarebbe «una tortura delle coscienze» (e il medesimo errore si ritrova nell’Apologia della Confessione Augustana di Melantone, del 1531, e nell’Institutio Christianæ religionis di Calvino, del 1536). In particolare, risultava per loro inaccettabile che la Tradizione cristiana richiedesse la precisazione delle circostanze di ogni peccato: nel De captivitate Babylonicæ Ecclesiæ, ad esempio, Lutero affermava che nella confessione basterebbe affermare di aver «peccato contro il fratello». Ma il confessore non è solo giudice, bensì anche medico e padre… e come fa uno a darti un buon consiglio se tu non gli dici con semplicità e umiltà qual è il vizio che ti affligge? Oltre alla questione oggettiva, ad esempio, c’è anche quella soggettiva: un peccato in cui si cade regolarmente è spia di un vizio che è in corso di radicamento, e che va quindi reciso con decisione.



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Facciamo un esempio dalla cronaca, visto che qualcuno in Italia parla di legalizzare la prostituzione, visto che «se è pulita è perfino piacevole». Dal punto di vista strettamente materiale chi va con una prostituta sta semplicemente compiendo un atto di fornicazione. Peccato molto grave, certo, ma perché Papa Francesco ha qualificato queste persone di “criminali”? Cosa cambia – chiedo – tra l’andare a letto prima del matrimonio con la propria fidanzata (peccato grave: ne abbiamo parlato) e l’andare con una prostituta? Forse solo il fatto che la seconda sia sovente costretta? Qualcuno mi ha detto di recente: «Ma se la prostituta fosse una “libera professionista”, che male ci sarebbe?». Anzitutto il meretricio non è un lavoro (ma non possiamo parlarne ora, la cosa ci porterebbe troppo lontano), ma dal punto di vista morale la gravità della prostituzione risulterebbe perfino accentuata, relativamente al soggetto che si prostituisce, e non attenuata. E soprattutto, il peccato materiale di fornicazione risulterebbe fortemente aggravato dalla circostanza del turpe commercio: chi va a letto con la fidanzata sbaglia, certo, però chi pensa di comprare un atto che non ha prezzo fa un errore materialmente identico ma formalmente aggravato dalla mancanza di qualunque progettualità (che invece i fidanzati di norma hanno) e dalla costruzione ipso facto di una terribile struttura di peccato. Ecco perché Lutero sbagliava: sono i peccati, specialmente alcuni molto gravi, ad essere una tortura – certo non la confessione.



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Il Concilio si riferisce genericamente a “molti altri rimedi” con i quali si può espirare un peccato veniale, e trentatré anni dopo padre Castiglione, un uomo che all’applicazione del Tridentino s’era impiegato anima e corpo, enunciava così – come abbiamo visto – questi “altri rimedi”:

  • la recita del Pater, non particolare attenzione sulla domanda di remissione dei peccati;
  • l’aspersione con l’acqua santa;
  • la benedizione episcopale;
  • la preghiera personale in chiesa;
  • la comunione eucaristica.

Ora, nell’elenco del predicatore due punti sono dedicati alla preghiera, due ai sacramentali e uno a un sacramento. Per tutte queste circostanze il carmelitano ribadisce l’aggettivo “devotamente”, raccogliendo con ciò la dottrina tomistica del “frutto spirituale”, che non si coglie in mancanza delle adeguate disposizioni. Alle volte distinguiamo i sacramenti dai sacramentali sulla base della loro efficacia: mentre i sacramenti sussistono ex opere operato, perché Cristo ha voluto porli al di sopra di ogni fragilità umana, i sacramentali (come le benedizioni o gli esorcismi) sono atti liturgici o paraliturgici che sussistono ex opere operantis, cioè in modo proporzionato alle virtù teologali di chi le compie. Confessarsi da un sacerdote pedofilo non inficia la validità e l’efficacia dell’assoluzione, mentre tutti sanno quale grande differenza corra tra la benedizione di un santo frate come padre Pio e quella di un ministro dell’altare che viva in doppiezza e corruzione: vedete se esista un esorcista che non viva santamente – «questa specie di demonî non si può scacciare se non con la preghiera e con il digiuno» (Mt 17, 21). Tutto questo è vero e sacrosanto, però non può capovolgersi in una concezione magica dei sacramenti: anche una mucca potrebbe mangiare il corpo di Cristo, se una particola consacrata volasse sul pascolo, ma di certo non farebbe la comunione; così anche un uomo che ne mangiasse senza le opportune disposizioni «mangerebbe e berrebbe la propria condanna» (cf. 1Cor 11, 29). E quali sono queste disposizioni? Risponde padre Castiglione:

  1. la devozione
  2. la contrizione (che comprende il proposito di emendarsi)

Altrimenti – il Carmelitano riprende l’immagine di sant’Agostino – quando ci si batte il petto soprappensiero in realtà si rassodano i peccati dentro al cuore, cioè si sclerotizza la cattiva volontà di continuare a peccare. Contro questa cattiva volontà non c’è acqua santa che tenga, se neanche la Comunione sacramentale è più rimedio di salvezza che giudizio di condanna.



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Ma vediamo cosa racchiude il Tesoro del reverendo Scarsella, che il prelato indirizzava «a tutti i reverendi parroci, ma anche a ogni sacerdote e cristiano che piamente desidera di regolare la sua e l’altrui vita». Vi troviamo un paragrafo ad hoc:

Essendo che il peccato veniale non estingua la grazia e il fervore della carità, ancorché la attenui un poco e comunque meriti una pena temporale, comunque è degno di indulgenza e di perdono, e si cancella facilmente. Si cancella con la benedizione del Vescovo, del sacerdote, con l’acqua santa, con la contrizione del cuore, con genuflessioni, col battersi il petto e la bocca con la pratica dell’orazione (orale e silenziosa), e in particolare con la recita del Pater, con le elemosine, con la confessione generale, col digiuno, ma soprattutto con l’invocazione del santissimo nome di Gesù e con il sacrificio della Messa e con altre sorte d’opere di Carità, purché appresso a ciascuna di queste buone opere gli concorra [al peccatore penitente, N.d.R.] il dispiacere del peccato e l’intenso dolore, con ferma volontà di astenersene e guardarsene […]. E questo voi parroci dovete sapere e insegnare: che dalla nostra volontà e dal consenso nascono tutti i peccati attuali, [e queste facoltà personali] ci vengono donate libere dal sommo Creatore Dio per nostro puro e semplice beneficio. Onde il profeta diceva: «La mia anima è sempre nelle mie mani» [Sal 118, 109].

Come si vede, il reverendo Scarsella è perfino più specifico e più facondo del padre Castiglione, nell’elencare i modi di emendarsi dal peccato veniale, ma ancora più netto del Religioso è stato nel ribadire che tutti gli strumenti di cui ci possiamo valere sono semplicemente mezzi coi quali deve eccitarsi ed esercitarsi la contrizione del cuore. In effetti anche il Concilio di Trento aveva sentito l’opportunità di ribadire alcuni di questi concetti, nei Canoni su penitenza ed estrema unzione. In particolare nel settimo leggiamo l’anatematismo contro chi dicesse

[…] che nel sacramento della penitenza per ottenere la remissione dei peccati non è necessario per diritto divino confessare tutti e singoli i peccati mortali che si ricordano dopo debito e diligente esame, anche quelli segreti e commessi contro i due ultimi precetti del decalogo, o che non è necessario confessare le circostanze che cambiano la specie del peccato; o dirà che una tale confessione è utile soltanto a istruire e consolare il penitente, e che un tempo fu osservata solo per imporre la penitenza canonica; o affermerà che quelli che si sforzano di confessare tutti i peccati non vogliono lasciare nulla al perdono della divina misericordia; o, infine, che non è lecito confessare i peccati veniali.

In realtà, gli effetti delle dottrine tridentine nella lunga durata comportarono, tra l’altro, lo sviluppo della cosiddetta “confessione di devozione”, cioè quella reiterata (spesso a scadenze fisse e ravvicinate) da persone che vivevano in pieno stato di grazia, talvolta con carichi di peccati tanto leggeri da non essere definiti neppure “peccati veniali”, dai moralisti, bensì semplicemente “imperfezioni”.



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E a cosa si deve, ultimamente, questo sviluppo della pratica della confessione, passata nell’arco dei secoli dall’essere concessa come seconda chance a chi commetteva gravissimi peccati all’essere incoraggiata come prassi frequente per chi i peccati quasi non li commette?


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Secondo me una pista si trova proprio nell’insistenza del Tridentino sui “due ultimi comandamenti del decalogo”, cioè quelli che sanzionano il desiderio, «perché spesso feriscono più gravemente l’anima e si rivelano più pericolosi di quelli chiaramente ammessi». Parole severe e giuste, che mostrano a chiunque abbia mai fatto un vero esame di coscienza quanto fossero vere le parole di Gesù verso la fine del “discorso della montagna” (che ai superficiali parvero esagerate e massimaliste):

Avete inteso che fu detto: «Non commetterai adulterio». Ma io vi dicochiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.

Mt 5, 27-28

È nel cuore che nasce ogni peccato, è il cuore a dover essere purificato, dal dolore e dalla penitenza:

A te conviene la giustizia, o Signore, a noi la vergogna sul volto, come avviene ancora oggi per gli uomini di Giuda, per gli abitanti di Gerusalemme e per tutto Israele, vicini e lontani, in tutti i paesi dove tu li hai dispersi per i delitti che hanno commesso contro di te. Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri prìncipi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te; al Signore, nostro Dio, la misericordia e il perdono, perché ci siamo ribellati contro di lui, non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, né seguito quelle leggi che egli ci aveva dato per mezzo dei suoi servi, i profeti.

Dan 7b-10

E mentre ci battiamo il petto o facciamo la comunione possiamo fruttuosamente ripetere, per l’estinzione dei nostri peccati veniali, queste parole del Santo Padre:

Abbi pietà di me, Signore, aiutami a vergognarmi e dammi misericordia, così io potrò essere misericordioso con gli altri.

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