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Post Voto: le elezioni del 4 marzo sono state un “fallimento” per la Chiesa?

NUN VOTE

A catholic nun prepares to vote on March 4, 2018 at a polling station in Rome. Italians vote today in one of the country's most uncertain elections, with far-right and populist parties expected to make major gains / AFP PHOTO / Tiziana FABI

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Lucandrea Massaro - Aleteia Italia - pubblicato il 22/03/18
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La risposta breve è sì, ma poiché è un problema da quasi vent’anni bisogna cercare di capire qualcosa di più. Il nostro contributo…Alla vigilia dell’inizio ufficiale della nuova Legislatura, la 18esima (le camere infatti si insedieranno venerdì 23 marzo) possiamo permetterci di fare un ragionamento più ampio sugli esiti del voto dello scorso 4 marzo, un voto che ha segnato per il momento una cesura tra il prima e il dopo. Se già nel 2013 l’irruzione dei grillini alla pari con il PD di Bersani aveva rotto tutti gli schemi in campo e tutte le consuetudini tra centrodestra e centrosinistra (il bipolarismo della Seconda Repubblica), il quasi raddoppio sul partito di Renzi cinque anni dopo e il sorpasso dell’eterno “junior partner” del centrodestra, la Lega, su Forza Italia aprono a nuovi scenari e a nuove riflessioni per il prossimo futuro. Un futuro incerto quanto questo avvio di legislatura però, dove i due giovani leoni, Salvini e Di Maio, cercano di mangiare la stessa preda, entrambi puntano ad un Governo. Non sarà facile.



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Ma c’è un’altra novità che è all’interno dei vari partiti dove, più o meno, sono spariti i cattolici provenienti dall’associazionismo, sono spariti cioè quei cattolici impegnati che erano rappresentativi di alcuni mondi e di alcune esigenze, vicini ad esperienze come CL o l’Azione Cattolica, magari che hanno passato una vita a cavallo tra le Acli e il sindacato. Le cause sono molteplici e sicuramente sono collegate al fatto che ormai i cattolici votano su per giù come l’italiano medio, di conseguenza gli appelli dell’episcopato contano sempre meno, di conseguenza, accreditarsi presso la CEI come interlocutore ha meno peso di prima, più “qualitativo” che non “quantitativo”. Per questo le forze politiche attuali sono meno propense a mettere in lista (qui parliamo dello scenario nazionale naturalmente) esponenti terzi, specie quando ci sono mondi anche economicamente più forti che vogliono essere rappresentati. I cattolici oggi sono al massimo un gruppo tra i tanti, devono imparare a fare “lobbismo”? Forse non è la strada giusta…

 Il voto, espresso nell’urna, ha poi certificato un netto scollamento tra la linea della chiesa su questioni di primaria rilevanza quali l’immigrazione e il lavoro – accoglienza e rifiuto del reddito di cittadinanza sono punti fermi per la Cei – e le scelte dell’elettorato cattolico, che in misura non irrilevante ha premiato proprio le ali estreme, il Movimento 5 stelle da una parte e la Lega dall’altra (Il Foglio)

Una lettura analoga la fa Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio

«Non dico che abbiano votato contro la Chiesa, ma hanno dimostrato una diversità evidente e sentimenti di autodifesa, diversi dai messaggi ecclesiali. Nel popolo cattolico è mancata una cultura popolare: pensieri lunghi, prospettive, riferimenti che tengono insieme la gente. Non ci sono più mediazioni. Francesco dice: “accogliere i migranti”. Ma questo come diventa pratica, proposta? Wojtyla disse: se la fede non diventa cultura, è vissuta a metà. Oggi tutto è fluttuante nel Paese, è emotivo. In questo senso c’è una lettura profonda da fare su come si comunica con la gente. Per la Chiesa e per i cattolici, perché il Paese va in un altro senso» (L’Espresso).

Ma cosa bisogna fare allora? Intanto rendersi conto definitivamente che una certa visione del mondo politico è finita

Dentro il panorama elettorale che si è prodotto, il «voto cattolico» non ha più un’identità riconoscibile ma ha piuttosto aderito agli orientamenti, alle tensioni e alle paure del paese. Tutto questo dice come il voto, anche quello dei cattolici, sia oggi determinato da valutazioni politiche, forse a volte non troppo elaborate, ma certamente non determinate da un metro di giudizio di ordine dottrinale. Ma dice anche che nella crisi finale di un sistema di partiti che, dopo il 1992-1993, si era articolato nella dialettica fra centrodestra e centrosinistra, non vi è spazio alcuno per un «partito cattolico» e nemmeno per una presenza identitaria all’insegna dei valori «non negoziabili». Significativo al riguardo il profilo discreto tenuto dalla presidenza della Cei, che nei mesi scorsi ha cercato di ricondurre la politica alle proprie responsabilità e alla necessità di ricercare il bene comune, piuttosto che definire carte d’identità ad uso delle coscienze degli elettori (Toscana Oggi).



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Ed è interessante in questo senso quello che ha detto monsignor Galantino proprio ieri nella prima riunione post voto del Consiglio permanente della CEI:

“Non è una cosa di oggi – ha risposto il segretario della Cei –. Abbiamo soltanto raccolto i frutti di un trend che esisteva già. Le osservazioni dei vescovi sono andate al di là di una semplice riorganizzazione, anche perché non spetta a noi riorganizzare i laici rispetto a un impegno in un partito piuttosto che in un altro. Questo è grazie a Dio assodato, condiviso non lo so, ma non è il ruolo dei vescovi né definire ruoli dei partiti, né simboli, né andare ad inserirvi dentro altra gente. I vescovi hanno dovuto prendere atto di una insufficiente preparazione e sensibilità anche politica che si è rivelata nei nostri ambienti. E ciò non si deduce soltanto dal fatto che non siano stati eletti dei cattolici in Parlamento”. Il problema secondo Galantino “è molto più ampio”. È importante lavorare ancora di più perché il Vangelo diventi mentalità di Vangelo. Torna dunque il tema della formazione e bisogna investire di più in questo senso” (Avvenire, 21 marzo).

Tornano alla mente le parole del cardinal Camillo Ruini del 18 febbraio, più di un mese fa quindi, che al Corriere della Sera diceva:

Quale Chiesa sta prevalendo? Quella che resiste alla modernità o quella che la asseconda? 
«Fatico a riconoscermi in questa alternativa anche se la comprendo. Secondo me non basta né resistere alla modernità, né assecondarla. Il primo atteggiamento porta il cristianesimo fuori dalla storia, il secondo lo svuota della sua sostanza. Non è facile, ma occorre stare dentro alla modernità per orientarla in senso cristiano, senza subirla passivamente. È la lezione del Concilio Vaticano II».
Le leggi che critica sono passate con un governo che aveva esponenti cattolici in prima fila. Non deve farvi riflettere? 
«Sicuramente. E la principale conclusione da ricavare è che la fede stenta a tradursi in cultura, in capacità di valutazione e di giudizio. Questo è probabilmente uno dei limiti maggiori della formazione che diamo nelle parrocchie e nelle associazioni».
[…]
Il modo in cui la Chiesa tratta l’immigrazione è compreso e condiviso, secondo lei? Non teme che per paradosso possa alimentare la xenofobia? 
«Mi rendo conto che il comportamento della Chiesa incontra critiche e opposizioni. Purtroppo si interpretano come pericoloso buonismo le esigenze della carità cristiana. Così diventa possibile perfino il paradosso che la Chiesa alimenti la xenofobia, alla quale invece la Chiesa è forse il maggior freno. Questo non esclude che uomini di Chiesa sottovalutino i gravami che un’immigrazione troppo massiccia e poco regolata impone alle fasce più umili della popolazione».



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Risulta evidente dalle parole tanto di Ruini che di Galantino (ma anche del laico ed ex ministro Riccardi) che il problema non è tanto nella questione dell’unità dei cattolici in unico partito, o di avere un partito unico dei valori cattolici, quanto di essere capace di tradurre in cultura e dunque in azione quella proposta radicale che è il Vangelo. Se c’è un fallimento nella chiesa italiana, un fallimento che non arriva oggi e che è figlio di un cambio di paradigma che non è stato né capito né metabolizzato, è quello di aver pensato che la continuità tra la DC e i suoi eredi a destra (famiglia e bioetica) e a sinistra (accoglienza e solidarietà) fosse un elemento sufficiente e permanente mentre era – nei fatti – la coda lunga della fine della Prima Repubblica, morta con Aldo Moro e con l’incapacità proprio dei democristiani di rinnovare il partito e la politica italiana. Si è creduto che il dato biografico di Matteo Renzi (scout, giovane popolare) fosse sufficiente a garantire quella continuità, addirittura poteva sembrare un passo in avanti: il maggior partito della sinistra egemonizzato dai cattolici. Ma così non è stato e anzi è stato fatto il vuoto nel Partito Democratico di ogni corrente ideologicamente organizzata: la fedeltà è ai capi corrente non a questa o quella idea. Ora che al centro dell’arena sono arrivati i partiti “nuovi” e non gli scampoli di quelli vecchi riassemblati, quel legame, quel cordone ombelicale tra la Chiesa-madre e il laicato-figlio si è interrotto. Sta alla Chiesa (tutta insieme: popolo e vescovi) trovare un modo nuovo di far appassionare i giovani e gli adulti all’impegno sociale e politico, stimolando una nuova generazione di laici a trovare autonomamente la propria via di rappresentazione di quel Vangelo, provando – nuovamente – a fecondare le forze politiche di tutti gli schieramenti, non sarà facile ma è l’unica strada, sarà dura, lunga e difficoltosa, ma è senza alternative…

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