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Litigare sulla data di Pasqua: uno sport antico e molto istruttivo

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 16/03/18
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Come la Chiesa sia giunta a elaborare il sofisticato computo della sua festa principale – che tiene conto dell’equinozio di primavera come memoria della creazione, del plenilunio come memoria della Pasqua ebraica e della domenica come memoria delle risurrezione – è questione lunga e appassionante, cui presero parte imperatori angosciati. Non ci credete? Forse perché non v’immaginate come diventa difficile da reggere un mondo in cui alcuni digiunano e altri banchettano. O forse è una terribile icona del nostro mondo?

Mentre lo scorso 6 gennaio ascoltavo in chiesa l’annuncio del giorno di Pasqua (una bella prassi che riproduce in tutto il mondo la consuetudine delle lettere festali alessandrine) realizzavo che quest’anno si potrà dire di come Gesù abbia fatto ai suoi crocifissori, giudei e romani, un gran bel pesce d’aprile, anzi – e sorridevo pensando al noto anagramma paleocristiano ΙΧΘΥΣ [“ichthys”, alla lettera “pesce”, ma le cui iniziali indicano la professione di fede “Gesù Cristo [è] Figlio di Dio [e] Salvatore”] – bisognerà approntare qualche meme adeguato, tipo un post-it col segno stilizzato del pesce, antico simbolo esoterico cristiano, che il Risorto avrebbe lasciato sulla mensola del loculo… E invece, proprio pochi giorni fa ho visto che Corrado Guzzanti aveva rovesciato sarcasticamente lo spunto, facendo dire al suo irriverente Padre Pizarro (per molte altre cose lucidissimo): «E pe’ ’na vorta casca ggiusta… er primo aprile» – intendendo con ciò che la Pasqua sarebbe poco più di una grande burla. Poverini: «Costoro bestemmiano ciò che ignorano», direbbe la Scrittura per bocca di Giuda (Gd 10) e di Paolo, perché «vivono senza speranza» (1Tess 4, 13). Toccherà pregare (ma veramente, come raccomanda il Papa!) che possano incontrarlo, un giorno o l’altro, il Signore Risorto…


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Frattanto ci siamo consolati con un bellissimo articolo del professor Enrico Cattaneo, gesuita e docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma, che nelle pagine de La Civiltà Cattolica ci ha regalato un’avvincente rassegna su «La data della Pasqua nella Chiesa antica». Tema complesso e affascinante quanto pochi altri, data la relativa scarsità delle fonti rispetto a una prassi che doveva essere, al contempo, molto più vasta e molto più variegata di quanto i pochi cenni che abbiamo rendano l’idea.

Ma procediamo con ordine, e prendiamo anzitutto il tema: come mai la data della Pasqua è mobile mentre altre date, a cominciare da quella del Natale, sono fisse? La domanda è più che legittima, se si pensa che appunto nel cuore del tempo di Natale (cioè il 6 gennaio, che in alcune tradizioni liturgiche era – ed è – Natale stesso!) viene dato l’annuncio del giorno di Pasqua, e questo già dall’antica prassi alessandrina ma fino alle disposizioni romane tuttora valide nel mondo intero.

La difficoltà del tema è poi ampliata da tre fattori, a loro volta connessi tra loro:

  1. in antico non esisteva alcunché di simile alla Congregazione per il Culto Divino;
  2. le fonti che abbiamo ci testimoniano una forchetta di divergenze piuttosto apprezzabile, nei riti (e proprio per questo diventano, relativamente, “poche”);
  3. abbiamo ragione di ritenere, estrapolando i dati che abbiamo sulle vaste zone lasciate in ombra dalla documentazione, che all’interno di una sostanziale conformità sussistesse una varietà formale importante.

L’articolo di padre Cattaneo rende opportuna ragione di questa complessità e riporta cose utili e importanti: c’è di che nutrire l’erudizione e la pietà, nonché quel “bonsensus fidelium” in cui sussiste buona parte del più celebrato “sensus fidelium. Ma perché con tutti questi elogi non si pensi che io stia facendo pubblicità alla Rivista, mi permetto di avanzare anzitutto un paio di punti di critica all’articolo.

Anzitutto, mi pare che padre Cattaneo passi troppo in sordina l’assoluta priorità cronologica della domenica su tutte le feste cristiane: dice bene, il Professore, che

Gesù non stabilisce né il luogo, né la data, né la frequenza di questo “memoriale”, ma lo dà come un ordine da eseguire («Fate questo!»), legato alla sua persona. Toccherà agli apostoli interpretarlo e applicarlo.

E. Cattaneo, La data della Pasqua nella Chiesa antica, in La Civiltà Cattolica 4026, 531

È tutto vero, però non bisogna trascurare né che “il giorno dopo il sabato” viene indicato come giorno di sinassi fin dagli scritti canonici del Nuovo Testamento (1Cor 16, 1-2, ma anche Lc 24, 13, Gv 20, 1.19.26 e At 20, 7) – e difatti questo Cattaneo lo dice, benché solo in nota – né che gli stessi scritti canonici diano proprio a quel giorno il nome di “del Signore” (Ap 1, 10). Va bene, si potrà obiettare che l’Apocalisse non è un testo antichissimo, all’interno del Canone, che fu recepito con parecchie resistenze e che non sappiamo di quante e quali comunità, precisamente, fosse l’espressione storica originaria; però la Didaché – sicuramente più antica dell’Apocalisse e molto diffusa, benché poi non confluita nel Canone – comincia il quattordicesimo capitolo proprio con la scarna e chiara istruzione:

Nel giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro.

Didaché, 14, 1

Forse qualcuno si chiederà perché io insista sul punto: il fatto è che proprio dall’elezione del “giorno dopo il sabato” come il “giorno del Signore”, in cui praticamente tutte le comunità si riuniscono per “frazionare il pane”, proprio da ciò si capisce il nesso teologico tra l’eucaristia e la Pasqua. Quando dunque Paolo dice “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1Cor 5, 7) non mi pare tanto che intenda distinguere liturgicamente una Pasqua cristiana da una Pasqua giudaica, come sembra intendersi dall’articolo, quanto piuttosto che identifichi il Crocifisso con “il vero agnello”, e quindi – giudaicamente – il pasto eucaristico con il pasto pasquale. Insomma, poiché Cristo è la vittima immolata (e Cattaneo indica puntualmente che il verbo usato – in tutto l’epistolario paolino torna solo qui – è specificamente cultuale e sacrificale), Cristo stesso può essere chiamato “Pasqua” così come veniva correntemente chiamato l’agnello stesso – «È la Pasqua del Signore» (Es 12, 11) – e dunque il pane spezzato è la Pasqua come l’agnello. Anzi, il riferimento esplicito agli azzimi sembra sostenere una lettura allegorica della Pasqua giudaica (Corinto è città grande ed ellenistica, nel I secolo d.C., ma la comunità cristiana è caratterizzata da un forte sostrato giudaico).

Insomma, non mi sembra che i dati in nostro possesso sostengano la lettura di Cattaneo, che quanto all’origine della festa pasquale afferma:

[…] essa non è vincolata alla data storica della morte di Cristo, e quindi neppure alla data precisa della Pasqua ebraica. […] Questo legame, non cronologico ma contenutistico, tra la Pasqua e la Cena del Signore, fa sì che la Pasqua cristiana risulti indipendente da una precisa cronologia […].

E. Cattaneo, La data della Pasqua nella Chiesa antica, 531

Lo stesso Vangelo di Giovanni, proprio col suo preciso riferirsi a Gesù, dall’inizio alla fine, come «l’Agnello di Dio» (1, 29) «a cui non sarà spezzato alcun osso» (19, 36), cambia addirittura calendario per far cadere agli occhi del lettore l’immolazione di Cristo (e la Pentecoste stessa! – 19, 30) in perfetta coincidenza con «la festa dei giudei» (2, 13; 6, 4; 11, 55).

Il dato storico incontrovertibile, invece, è che la prima festa cristiana di cui abbiamo notizia certa sia la domenica, e la domenica venne chiamata così proprio perché è “il giorno dopo il sabato”, quel giorno che è memoria della risurrezione in cui viene celebrato il memoriale della Pasqua – che è insieme passione, morte e risurrezione.



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L’ipotesi più semplice è che forse fin da subito le comunità apostoliche, ancora prevalentemente giudaiche, abbiano continuato a celebrare la Pasqua giudaica (gli Atti attestano più volte le visite cultuali degli apostoli al Tempio, dopo la risurrezione di Gesù), ma sviluppando parallelamente la cadenza settimanale della domenica. Questo deve aver portato (abbastanza presto, ma sicuramente con una fase decisiva tra il sacco di Gerusalemme del 70 d.C. e la distruzione della città e del Tempio nel 130 d.C.) alla celebrazione di una Pasqua non templare e – lentamente – sempre meno giudaica.

Una conferma in tal senso si trova nel fatto che proprio dopo questo termine, cioè verso la metà del II secolo, cominciano le fisiologiche frizioni per la distinzione delle due festività. Giustino stesso (Cattaneo dice che il filosofo non parla della Pasqua… ma non ne parla nelle Apologie…) compie nel Dialogo una importante identificazione tipologica in forma di proporzione: come l’agnello giudaico sta alla Pasqua ebraica, così Cristo sta all’eucaristia cristiana – ma Cristo è l’agnello, e dunque l’eucaristia è la vera Pasqua.

Coloro che si salvarono in Egitto quando perirono i primogeniti degli egizi dovettero la loro salvezza al sangue dell’agnello pasquale con cui erano stati bagnati gli stipiti e l’architrave delle porte. L’agnello pasquale era Cristo, colui che poi fu sacrificato, secondo quanto disse Isaia: «Fu condotto come una pecora al macello» [Is 53, 7]. E sta scritto anche che lo prendeste [il Dialogo è con un ebreo, per questo l’autore parla alla seconda persona plurale, N.d.R.] il giorno di Pasqua e sempre il giorno di Pasqua lo crocifiggeste. Orbene, così come quelli che erano in Egitto furono salvati dal sangue dell’agnello pasquale, così anche i credenti saranno liberati dalla morte dal sangue di Cristo. Si sarebbe sbagliato Dio se non avesse trovato il segno sulla porta? No di certo. Annunciava invece la salvezza che sarebbe venuta al genere umano dal sangue di Cristo.

Giustino, Dialogo 111, 3-4

Da questo punto in poi (a mio avviso) l’articolo di Cattaneo torna pienamente condivisibile, e le sue ricchezze vanno ben al di là di qualche (pur non trascurabile) dettaglio di disputa accademica: anzi penso che forse già in Melitone di Sardi (morto prima del 189 d.C.), che Cattaneo ricorda in una nota, si trovi una profonda convergenza. La sua Omelia sulla Pasqua è infatti principalmente una lettura tipologica della Pasqua giudaica:

Al posto dell’agnello è venuto il Figlio

e al posto della pecora l’uomo

e nell’uomo Cristo, che tutto contiene.

L’uccisione dunque della pecora

e il sacrificio dell’agnello

e la scrittura della Legge

hanno trovato compimento in Gesù Cristo;

in vista di lui tutto accadde nell’antica legge,

e a maggior ragione nel nuovo Verbo.

La legge infatti è divenuta Verbo,

e l’antico nuovo

– poiché entrambi vengono da Sion e da Gerusalemme –

e il comandamento grazia

e la figura realtà,

e l’agnello Figlio

e la pecora uomo

e l’uomo Dio.

Come Figlio infatti fu generato

e come agnello portato al sacrificio

e come pecora immolato

e come uomo seppellito,

ma risorse dai morti come Dio,

essendo per natura Dio e uomo.

Melitone di Sardi, Omelia, 5, 1-24

Cose meravigliose… pare incredibile che tale lucidità (anche dogmatica) si avesse in pieno II secolo, ancora prima di Ireneo, Tertulliano e Origene.

E in questo meraviglioso II secolo – Cattaneo lo ricorda puntualmente – aveva già preso a consumarsi la frizione tra le comunità più visceralmente legate alla primitiva prassi giudaico-cristiana e quelle che gradatamente ma decisamente se ne stavano affrancando. Che succedeva? Alcune comunità, in particolare quelle orientali legate alla tradizione giovannea, celebravano una pasqua già schiettamente cristiana (legata alla presidenza del Vescovo locale), e la celebravano il 14 di Nisan, in concomitanza con quella giudaica. Intervennero fondamentalmente due ordini di ragioni:

  1. il primo è che, al pari di ogni data fissa, anche il 14 Nisan può cadere in qualunque giorno della settimana, e dunque raramente di domenica;
  2. il secondo è che in taluni ambienti montavano forti sentimenti antigiudaici che chiedevano distinzione su tutti i fronti della fede e del culto divino.

Due precisazioni s’impongono, a mo’ di corollario, data la natura delicata del tema “antigiudaismo”:

  1. la prima è che spesso le comunità più anti-giudaizzanti erano geopoliticamente assai prossime a quelle più giudaizzanti (così l’Apocalisse e alcuni passaggi della lettera ai Galati, ad esempio, offrono modo di apprezzare lo scontro tra i giudaizzanti d’ascendenza giovannea e gli ellenisti di conio paolino);
  2. la seconda è che tale repulsione dovette essere senza dubbio reciproca, tra cristiani e giudei, essendo i due gruppi percepiti già dall’editto di Claudio come un amalgama confuso dilaniato da piccole eresie (tra cui il cristianesimo nascente): personaggi come Ignazio d’Antiochia arrivavano già precocemente a dichiarare di poter francamente fare a meno perfino delle scritture giudaiche, dato che il cristianesimo era un’altra cosa (e se il lemma “cristiani” nacque proprio ad Antiochia – At 11, 26 – il nome “cristianesimo” è forse un neologismo dello stesso Ignazio – Magnesii 10, 3; Romani 3, 9; Filippesi 6, 3).

Roma si trovava, come anche in altri casi, a metà tra sensibilità opposte, e questo le ha permesso (spesso, non sempre) di tenere un certo equilibrio di giudizio: lo si vede nel caso di Policarpo di Smirne, che verso il 160 venne a Roma e conferì con papa Aniceto riguardo alla condotta da tenere per la data di Pasqua. I due esposero le loro ragioni (a Roma s’era adottata da un po’ la consuetudine di celebrarla la domenica dopo il 14 Nisan, per restare aderenti al dato cronologico e non perdere il nesso con l’eucaristia domenicale) e nessuno dei due convinse l’altro: diciamo che si convinsero entrambi del fatto che ciascuno aveva le sue ragioni e che si poteva soprassedere sulla questione. Eusebio annota che Aniceto lasciò a Policarpo l’onore di presiedere le celebrazioni in sua vece, in segno di comunione e amicizia.



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La frizione fu parecchio più ruvida qualche decennio dopo, quando era Papa l’africano Vittore, che si trovava a dover gestire una noia di quelle complicate: era infatti spuntato il solito tradizionalista – quello si chiamava Blasto – che vuole spiegare al Papa come si fa il Papa accusandolo di star pervertendo «la messa di sempre». Blasto dunque faceva vigorosa campagna per l’uso quartodecimano (la cui antichità era percepita come autorevole in sé, a fronte delle “arbitrarie innovazioni” della “Chiesa modernista”), e Vittore – il primo che dalle reazioni muscolari definiremmo già “Papa Re” – si stava decidendo a scomunicare il piantagrane e, insieme con lui, tutti i partigiani dell’uso quartodecimano. A guardarla da oggi, la disputa poteva sembrare irrisoria, eppure a parlarci di Blasto non è solo il solito Eusebio, ma anche contemporanei africani come Tertulliano: insomma, non c’era la blogosfera ma sulla questione dovettero animarsi “bei flame. Vittore aveva consultato i Vescovi italiani e quelli delle regioni limitrofe, e quasi tutti erano d’accordo con lui: la scomunica era questione di formalità. A scongiurarla (e ad evitare una frattura ben peggiore della perdita del solo Blasto) fu il buon Ireneo, che stava a Lione e – da bravo “francese” – praticava i costumi liturgici occidentali, ma che era pur sempre asiano, d’origine, e dunque ben capiva l’attaccamento dei quartodecimani alle loro usanze. Sembra che Vittore si sia lasciato persuadere a soprassedere.

Comunque, più o meno antigiudaici che fossero, i cristiani cominciarono a rendersi conto del fatto che il calendario giudaico (a base lunare) risultava spesso troppo approssimativo. Furono quindi elaborati diversi computi, e ci resta memoria in particolare del computo alessandrino, basato su un ciclo di 19 anni; e di quello romano, basato su un ciclo di 84 anni. Roma stessa, tuttavia, lasciava che fosse il Vescovo di Alessandria a dare notizia della data pasquale (nelle già ricordate “lettere festali” diramate il 6 gennaio, cioè a Natale), e quindi di fatto si adeguava al computo alessandrino. Il risultato è che i quartodecimani, in senso stretto, diventarono un’esigua minoranza di “conservatori”, perché le istanze di molti “conservatori moderati” furono soddisfatte dai nuovi computi.

Ora, non possiamo soffermarci su molti altri aspetti (che puntualmente l’articolo di Cattaneo traccia), però dobbiamo senz’altro rispondere a una domanda che i lettori – almeno gli arditi che sono arrivati fino a questo punto – si saranno fatti: ma che c’entra tutta questa astronomia con la vita cristiana? Eh, forse c’entra poco con noi, che a colazione abbiamo sostituito le frappe con la colomba e per cui “Pasqua” significa due o tre giorni rossi sul calendario invece di uno… ma per un cristiano del IV secolo (e anche per un cristiano dei nostri giorni, mi verrebbe da dire) la quaresima era (ed è) un periodo socialmente caratterizzato dal digiuno e dall’elemosina, oltre che da preghiera e penitenza. Tra gli ortodossi la quaresima ha ancora un senso ascetico così spiccato (così “monastico”, direi) che tra le persone comuni e devote essa viene ridotta a una settimana o dieci giorni, perché sono davvero pochi quelli che riescono a reggere un simile regime per quaranta giorni veri. Ecco, allora immaginatevi che mentre voi state sforzandovi di tenere un regime alimentare praticamente vegano (anzi, peggio: neanche gli olii vegetali sono ammessi!) il vostro vicino di casa stia festeggiando con un lauto banchetto, e che anzi magari si sia messo a suonare l’organetto da quanto è alticcio… Come si vede, tutta quest’attenzione matematica ai corsi del sole e della luna è per rispondere a un problema eminentemente pastorale.



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Forse così si capirà meglio perché della questione volle occuparsi anche il Concilio di Nicea del 325… anzi, come lo stesso Costantino si preoccupi di emanare per proprio conto, oltre a quella dei Vescovi, una circolare imperiale per dare notizia dell’accordo sul computo per la data di Pasqua. Lo trovate esagerato? Si vede che non sapete quanto possano diventare pericolosi gli uomini affamati… magari siamo tutti troppo sazi, chissà.

Cattaneo riporta poi un caso emblematico in cui, ancora dopo Nicea, si mostra come le disposizioni canoniche potevano procurare inquietudini sociopolitiche:

L’anno 387 fu segnato da un riaccendersi della discussione sulla data della Pasqua. In effetti, in quell’anno la luna piena cadeva venerdì 19 marzo, e quindi domenica 21 marzo, inizio dell’equinozio di primavera, avrebbe potuto essere celebrata la Pasqua. Poiché tuttavia quella luna piena era anteriore all’equinozio, la Pasqua andava spostata alla luna piena del mese successivo. Così essa sarebbe dovuta cadere il 18 aprile, che era domenica, e poiché non si potevano iniziare le celebrazioni pasquali di domenica, ecco che la Pasqua venne spostata alla domenica successiva, cioè il 25 aprile. Tale fu il calendario della Chiesa alessandrina.

Per alcuni tuttavia questa data parve troppo tarda, al di fuori del primo mese in cui solo era consentita la Pasqua. Si mosse pure l’imperatore Teodosio, che chiese delucidazioni a Teofilo, vescovo di Alessandria. Anche i vescovi dell’Emilia domandarono spiegazioni ad Ambrogio, il quale rispose con una lunga lettera, nella quale si rifaceva alla decisione di Nicea e difendeva la data alessandrina. Così in quell’anno la Pasqua fu celebrata a Milano il 25 aprile, e in quella veglia pasquale Ambrogio ebbe un neofita d’eccezione, colui che poi sarà sant’Agostino.

E. Cattaneo, La data della Pasqua nella Chiesa antica, 537-538

Tornate con la mente alla questione del digiunatore solitario nel condominio in festa: con la data al 25 aprile la differenza tra quelli che festeggiavano Pasqua il 14 Nisan o poco dopo diventava davvero enorme. Mentre a Milano Ambrogio battezzava Agostino in Oriente un altro gigante si trovava a fronteggiare le sommosse dei “tradizionalisti”: era Giovanni Crisostomo (che all’epoca non era ancora Vescovo di Costantinopoli, ma stava ad Antiochia da semplice presbitero). Il dibattito andò più o meno così:

– Bisogna adeguarsi alla decisione che la Chiesa ha preso nella sua grande maggioranza

– Ah, quindi adesso è la maggioranza a stabilire la verità!?

– No, è che dobbiamo evitare ogni elemento di discordia e di divisione.

– Fino ad oggi abbiamo sempre fatto in un altro modo! Forse che i nostri padri sbagliavano?

– Non è peccato cambiare, se si cambia in meglio, e il meglio è seguire i trecento padri del Concilio di Nicea, che hanno dato una data comune proprio per amore di tutti i cristiani.

– Allora, se non dobbiamo fare come i nostri padri, almeno facciamo come fece Gesù: torniamo tutti al 14 Nisan e non se ne parla più!

– Cristo ha portato a compimento la Pasqua antica, e così facendo non solo non ci ha ordinato di osservare una data, ma ci ha anche liberati dalla necessità di osservarne una.

E in particolare Cattaneo riporta questo bel passaggio:

Ascolta ciò che dice Paolo – e dicendo “Paolo” io dico “Cristo”, perché era lui a muovere l’anima di Paolo. Che cosa dice, dunque? «Voi osservate scrupolosamente giorni, mesi, stagioni e anni! Temo per voi di essermi affaticato invano a vostro riguardo» (Gal 4, 10). E ancora: «Ogni volta che voi mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore» (1Cor 11, 26). Dicendo “ogni volta”, egli ha reso ciascuno libero di accostarsi e lo ha liberato da ogni osservanza dei giorni. […] Infatti la Pasqua e la quaresima non sono la stessa cosa. […] Infatti la quaresima capita una sola volta all’anno, ma la Pasqua tre volte alla settimana [si celebrava prevalentemente di domenica, di mercoledì e di venerdì, N.d.R.], a volte quattro, o piuttosto tutte le volte che lo vogliamo. La Pasqua infatti non è il digiuno, ma l’offerta e il sacrificio che si fa in ogni sinassi.

Ma quelli niente, riprendevano:

– Io è tanti anni che digiuno così. Mi ci trovo tanto bene. Perché dovrei cambiare?

Niente vale più della pace e della concordia. Perciò quando il Vescovo entra in chiesa non sale a questa sede se prima non ha invocato la pace per tutti voi […]. Senza questa pace non si può fare nulla. Anche se la Chiesa si sbagliasse, il vantaggio che venisse dall’osservanza esatta dei tempi non compenserebbe l’accusa di divisione e di scisma. […] Digiunare in questo o in quel tempo non è un crimine; ma dividere la Chiesa, mettersi a fare contese, provocare discordie, astenersi continuamente dal partecipare all’assemblea, questo sì che è peccato da accusare, meritevole di un grande castigo.

E così le parole del Crisostomo tornano ancora utilissime a tutti noi. Non solo e non tanto per la datazione della Pasqua (siamo riusciti a dividerci di nuovo anche dopo l’imposizione delle norme nicene, quando alcune Chiese rifiutarono la riforma gregoriana del calendario), quanto per il complesso delle dinamiche ecclesiali: ogni giorno c’è qualcuno che vuole brandire una presunta tradizione contro la vita della Chiesa… e così facendo la tradisce, la Tradizione.

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.

1Cor 11, 23-26

Questo è l’eucaristia, questa è “la vera Pasqua”: «Idem facere quod fecit Dominus» [«Fare la stessa cosa che fece il Signore»] (T.C. Cipriano, Lettera 63, 18).

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