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«I rapporti prematrimoniali?» «Un vero peccato!» «Ma “mortale”?» «Eh… vediamo…»

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 13/03/18
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«Sareste disposti a perdonare un eventuale tradimento del coniuge?» No? E allora perché sposarsi? E se non vi sposate, perché non vi sapete fidare, perché convivere? L’amore che non sboccia avvizzisce senza essere mai colto. Domande e considerazioni proprie di ogni generazione: la lezione della Teologia del Corpo di Giovanni Paolo II, forgiata al fuoco dell’enciclica Humanæ vitæ, ha ancora innumerevoli coppie da salvare.

Domenica sera mi sono trovato a parlare a parecchie coppie di fidanzati per l’incontro finale di un corso prematrimoniale: lo so, si parla tanto male di questi corsi e mi dico che questa dev’essere tanto la causa quanto l’effetto degli inviti a certi relatori. A maggior ragione considerando che il tema affidatomi era “il perdono”. Già l’anno scorso (sì, il parroco ha l’aggravante della recidiva) ne parlavo amichevolmente con Thérèse Hargot, tra una tappa e l’altra del suo tour di presentazione in Italia, che terminava proprio in questi giorni: «Ma scusa – mi chiese lei bruscamente –, da quanti anni siete sposati, tu e tua moglie?». «Eh, appunto – fu la mia risposta –: due (quasi)». E lei con uno sbuffo tra il divertito e il pensieroso: «E che ne puoi sapere allora del perdono…». Aveva ragione, e le ho voluto bene per quel confronto perché (forse a leggerlo non si capisce) nasceva da una condivisione e non da un luogo comune.



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Per tale ragione domenica sera ho preso la parola proprio raccontando questo aneddoto, e ho concluso chiedendo scusa alle (non poche) coppie già conviventi, le quali potevano rivendicare con ogni ragione un’esperienza più vasta della mia: naturalmente mi sono premurato di precisare che un sacramento non è una formalità, e che vivere in coppia non è lo stesso che essere marito e moglie, ma lì davanti a me c’erano persone con bambini già grandicelli, alcuni portavano nello sguardo le cicatrici di un matrimonio fallito e forse addirittura nullo… alla fine dell’incontro qualcuno mi ha detto che certe cose avrebbe preferito saperle quando aveva la metà degli anni che ha ora.



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Il che non significa che l’incontro sia stato un grande successo, chiariamoci: la proposta cristiana ha una sua radicalità che inevitabilmente respinge, da un lato, mentre dall’altro invita e appassiona. Dopo l’aneddoto ho raccontato che don Fabio Rosini i corsi prematrimoniali ce li comincia, sul perdono, non ce li conclude: «Sareste disposti a perdonare un eventuale tradimento del vostro coniuge?», chiede il prete romano alle “sue” coppie di fidanzati. «Perché se non lo siete – conclude apodittico – il matrimonio non è la via per voi». Una provocazione di effetto sicuro con qualunque uditorio, proprio perché non c’è bisogno di alcuna istruzione pregressa per sapere questo, dell’amore: che nulla ci tormenta, quando lo viviamo, come il pensiero che esso possa finire, ovvero che l’oggetto del nostro amore possa cessare di ricambiarci e, per colmo di disgrazia, possa rivolgere ad altri quel fascio di grazia che ora stende su di noi.



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Questa fenomenologia, assai elementare e declinata distintamente al maschile e al femminile, trova nel rapporto coniugale – la “liturgia dei corpi” di cui parlava Giovanni Paolo II – un momento di massima evidenza: proprio perché di per sé quella grammatica gestuale esprime donazione totale e irreversibile ci è particolarmente odioso anche solo il pensiero di dover spartire quell’esperienza con una figura appartenente al passato dell’altra persona. Stanno freschi, i teorici del poliamore, a dire che questo atteggiamento si deve «alla propaganda culturale della Chiesa» (ah! di cosa non le fareste chiedere perdono!): la Sara della Genesi non era cristiana e mandò spontaneamente la schiava Agar a letto col marito Abramo per ricavarne un figlio (pensava: «Il figlio di una mia cosa è mio figlio se non una mia cosa» – il primo utero in affitto della storia), e quando il bambino fu nato la padrona prese a odiare la schiava, che le aveva solo obbedito, e il bambino, che di sicuro non aveva responsabilità alcuna; la Didone dell’Eneide non era neanche una semita, e si suicidò per la vergogna di aver tradito la memoria del marito morto (!), oltre che per punire masochisticamente il seduttore troiano (Virgilio, che psicologia!). Da qualche parte della Summa Theologiæ, invece, il grande Tommaso d’Aquino arriva a illustrare come la memoria sensitiva dell’uomo resti fortemente impressionata da grandi piaceri e da grandi dolori, e che facilmente le sensazioni dell’amplesso richiamano alla memoria i fantasmi sensibili di altri amplessi consumati con altre persone (i dottori della Chiesa, altro che sessuologi!).

Così la questione del perdono – che già non si limita al solo tradimento, fisico e sessuale, ovviamente – si allarga a tutta una gamma di sfumature che sottendono proprio il tradimento (fisico e sessuale)… anche se nessuno se ne accorge. Il caso più evidente è quello del marito che torna a casa e regala alla moglie il completo intimo sexy reclamizzato su tutte le pareti della città. La moglie pensa “che carino, lo vedi come ci pensa a me!”; il marito si dice “ho pure speso soldi per farla sentire apprezzata!”, ma la verità è che l’uno e l’altra stanno collaborando a un sottile adulterio ordito da chi ha speso milioni per portare la bella modella russa sotto gli occhi di tutti. La bralette, infatti, è stata trasformata da oggetto bruto (per la precisione: il reggiseno delle nostre bisnonne) in oggetto di culto, in feticcio, e il messaggio pubblicitario parla all’uomo dicendogli: «Compra questo a tua moglie, a letto ti ricorderà Irina Shayk». Alla donna parla dicendole: «Se somiglierai, anche poco, a Irina Shayk, tuo marito ti desidererà di più». Così l’uno e l’altra spendono tempo, soldi ed energie vitali nel desiderare ciò che non hanno e nel tentativo impossibile di diventare ciò che non sono, per di più con l’aggravante data dal fatto che su quel manifesto, a voler essere pignoli, la bella russa era poco più del punto di partenza di un sapiente fotoritocco. Quella donna non esiste, eppure le donne desiderano essere lei e gli uomini possederla, e per questo s’innesca un circolo da centinaia e centinaia di milioni che, solo, rende ragione dell’imponente investimento fatto per trasformare un poco di pizzo in un feticcio che operi incantesimi.



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Questo cosa dimostra? Molte cose, ma nella fattispecie ci limitiamo a sottolineare due aspetti:

  1. l’unica via per chi voglia praticare una vita sessuale che contribuisca a costruire la propria identità è la castità;
  2. ogni divagazione rispetto a questa condotta è già in sé stessa pericolosa (anche se i danni si evidenziano solo a medio-lungo termine).

Certo, «un simile discorso è duro: chi potrà accoglierlo?» (Gv 6, 60). È sempre la stessa cosa, quando la proposta cristiana mostra i suoi scorci più esigenti, ma si tratta sempre dei più pieni di senso. Ogni credente infatti sa che

il perfetto amore coniugale deve essere contrassegnato da quella fedeltà e da quella donazione all’unico Sposo (ed anche dalla fedeltà e dalla donazione dello Sposo all’unica Sposa), su cui sono fondati la professione religiosa ed il celibato sacerdotale.

Lo diceva Giovanni Paolo II il 14 aprile 1982, ma lo faceva proponendo una sintesi autorevole della viva Tradizione della Chiesa. Sempre nel “quarto ciclo” di quella che sarebbe diventata universalmente nota come “teologia del corpo”, il Papa polacco esprimeva un raffinato passaggio di antropologia teologica personalistica:

Sebbene la continenza «per il Regno dei cieli» si identifichi con la rinuncia al matrimonio – che nella vita di un uomo e di una donna dà inizio alla famiglia —, non si può in alcun modo vedere in essa una negazione del valore essenziale del matrimonio; anzi, al contrario, la continenza serve indirettamente a porre in rilievo ciò che nella vocazione coniugale è perenne e più profondamente personale, ciò che nelle dimensioni della temporalità (ed insieme nella prospettiva dell’«altro mondo») corrisponde alla dignità del dono personale, collegato al significato sponsale del corpo nella sua mascolinità o femminilità.

Lo so, Giovanni Paolo II scriveva molto complicato, quando ci si metteva, ma suggerisco di rileggere questo passaggio tutte le volte che sia necessario a comprendere: tra le altre cose, Papa Wojtyła vi spiegava proprio la storia della bralette, ovvero che solo un’attenta custodia e una vera promozione della virtù della castità può tutelare la godibilità della vita sessuale.

E mi tornano in mente le coppie dell’altra sera, alcune delle quali vedevo ancora lontane dalle condizioni per cui un simile discorso diventa comprensibile: «Ma il preservativo dobbiamo ammetterlo, sennò a un quindicenne che diciamo?». Una domanda che mi ha riportato bruscamente indietro di un anno, quando traducevo la Hargot che dedicava i primi capitoli del suo saggio a lamentare l’incredibile aridità di una civiltà che davanti all’esplosione di vita di un adolescente non ha altra consegna da espletare se non quella di un palloncino (anche lì parliamo di un feticcio). Ma per dirla in sintesi (è ovvio che il preservativo non vada suggerito né a una coppia sposata né – tanto meno! – a dei ragazzini), il problema dei rapporti prematrimoniali è semplicemente che sono rapporti extramatrimoniali.



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Ho un amico prete che a una giovane, la quale si sentiva rimproverata da lui (ma non lo era) per il suo stato di concubinato, ha replicato: «Guarda che non ho mai pensato che tu e il tuo compagno facciate troppo sesso: secondo me, anzi, il problema è che ne fate drammaticamente poco». La ragazza trasecolò e lui proseguì: «Sposatevi, fate l’amore tutti i giorni senza più pensare “speriamo che duri”, rimandate al diavolo i preservativi e le pillole, non rinunciate né al piacere né al brivido, mettetevi a costruire la vostra vita».

Forte… qualcosa del genere l’aveva detta anche Fabrice Hadjadj mesi fa, rispondendo a una nostra intervista:

la pienezza dell’atto sessuale consiste nell’avere una suocera, e finisce nel diventare a propria volta un suocero e un nonno o magari un bisnonno (il patriarca, non Casanova, è l’icona di una sessualità liberata e compiuta)…

«E quindi fanno peccato, quelli che hanno rapporti prematrimoniali?». Ma certo, si capisce! Fanno una cosa intelligente quelli che vanno a comprare la torta per il loro compleanno e se la mangiano per strada quando a casa li stanno aspettando tutti per la festa? Ogni peccato è, ancora prima che un’ingiustizia, una sciocchezza.

Poi capita che proprio quelli che faticano a seguire questo livello della discussione si spingano oltre, chiedendo se sia «peccato mortale o no». Come si fa a spiegare le disequazioni a chi non ha capito i binomi? A dire il vero, sulla questione del peccato mortale c’è molta confusione in giro, ma la verità è che “alla fine del campionato” il pareggio non sarà contemplato. Non esisteranno mezze misure, perché ogni vita sarà riuscita o fallita, semplicemente.


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C’è chi pensa che i peccati e gli atti virtuosi debbano comporsi in una sorta di somma algebrica, ove dato un valore a ogni atto si spera (o si scommette) che il risultato sia maggiore di 0. Questa è quella che è stata efficacemente chiamata “la fede dei demoni”, attestata fin dai Vangeli e dalle Lettere apostoliche: una indigeribile mistura di verità e di odio che acceca il cuore (i cattolici “duri e puri” fanno bene a scrutarsi a fondo, in tal proposito, durante l’esame di coscienza). In Purgatorio V Dante illustra drammaticamente con la storia di Bonconte quanto “una lagrimetta” versata col cuore («nel nome di Maria», scrive delicatamente il Poeta!) possa lavare una vita di peccati che già permetteva all’inferno di accampare diritti.



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«Quindi – penserà chi mi ha chiesto se sia peccato mortale o no – conviene sperare di avere tempo per dire un’Ave Maria?». Io per me spero di averlo, quel tempo, nella mia ultima ora, ma una simile domanda “sulla disequazione” rivela che non si sono capiti “i binomi”: Bonconte si morde le mani, “nel nome di Maria”, perché gli passa davanti tutta la vita e ha la grazia di vedere e riconoscere lo spreco che ne ha fatto. Come la sua vita sia stata brutta. Così chi oggi pensa di “vivere a mille” accontentandosi del “buffet del sesso” senza mai mettersi a tavola come si deve… a molti anni da oggi potrà capire (se ne avrà la grazia) quanto tempo, quante energie ha sottratto a cose veramente belle e grandi e piene di senso e soddisfazione. Però la gioia di poter avere una famiglia, di diventare genitori (responsabili di sé e di altri), di viaggiare con i figli e di introdurli al mondo con una dote di conoscenza e di amore, e magari vederli a loro volta crescere e diventare bravi genitori… quella gioia l’avrà persa per sempre. Chi vuole farvi credere che si possano avere orgasmi più lunghi di questo è sicuramente uno della Durex, cioè uno che vuole i vostri soldi – e li vuole a patto di tenervi depotenziati.



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A 50 anni da Humanæ Vitæ molti sono quelli che vorrebbero “aggiornare” il documento, ovvero di fatto neutralizzarlo. Forse invece si farebbe bene a rileggerlo, magari a partire dalle storie delle vite ricostruite grazie a quella coraggiosa enciclica (in tal senso dobbiamo della gratitudine a Costanza Miriano che ha avviato una simile iniziativa): e poi sì, certamente, si potrà pure aggiornarlo. Anzi, si dovrà, perché nel ’68 non si avevano i dati di oggi sulla ripresa delle malattie a trasmissione sessuale, sul combinato disposto di aborto alle stelle, inverno demografico e crollo del desiderio nella popolazione (nel ’68 il Viagra l’avrebbero venduto ai novantenni, oggi lo vendono ai quarantenni).


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L’importante studio di Paweł Stanisław Gałuszka, recentemente e meritoriamente edito da Cantagalli, rivela appunto al grande pubblico che il giovane cardinal Wojtyła

organizzò, insieme all’Istituto della Famiglia presso la Pontificia Facoltà Teologica di Cracovia, tre sessioni interdisciplinari di teologi e medici: 8-9 febbraio 1975, sul tema Aspetti specialistici dell’aborto, 7-8 febbraio 1976 dal titolo Aspetti specialistici del problema della contraccezione, 5-6 febbraio 1977 sulla questione Castità prematrimoniale.

P.S Gałuszka, Karol Wojtyła e Humanae vitae, 353

Aborto, contraccezione, castità: tout se tient, e il perno è proprio la pienezza (o la desolazione) dell’intimità coniugale: quel giovane cardinale ci aveva visto lungo – più lungo degli episcopati “progressisti”, che già allora volevano accodarsi (in ritardo come sempre) alle mode del mondo – e la Provvidenza lo aspettava poco più di un anno dopo per farne il Vescovo di Roma.



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Oggi il mondo è cambiato, certo: negli anni in cui Giovanni Paolo II faceva le sue memorabili catechesi i giovani non-cattolici guardavano ai giovani cattolici come a degli alieni (e spesso questi ultimi vivevano solo a sprazzi, e spesso senza comprendere le ragioni ultime del loro stile di vita); oggi quella lezione è maturata in una consapevolezza nuova, e innumerevoli giovani vecchi di ogni età brancolano in tondo, qualcuno dirigendosi a tastoni verso quei pochi che sembrano avere un’idea del senso della vita.

Si vede – fra le altre cose – dalla voglia che hanno di fare l’amore. Come Dio comanda.

Karol Wojtyla e Humanae vitae_front cover

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