Una questione importante per orientarsi nella fede cristianaIl grande storico francese André Vauchez conclude il suo recente lavoro su San Francesco[1] dichiarando in maniera provocatoria che il santo di Assisi «non è stato l’unico autentico cristiano che la storia ha conosciuto, forse neppure il più perfetto»[2].
Con grande acutezza egli nota come il titolo che Francesco ha ricevuto di alter Christus non implica che egli abbia ripresentato totalmente sine glossa l’intera vita del Maestro[3]:
«La difficoltà che incontriamo nel cogliere la figura del Povero d’Assisi nella sua realtà storica dipende in larga misura dal fatto che la sua esperienza religiosa è stata presentata spesso come la riproduzione pura e semplice di quella di Gesù: lo indica il titolo di alter Christus (secondo Cristo) a lui attribuito da diversi autori a partire dalla fine del Duecento.
Ora, pure la figura stessa del Cristo, quale si ricava dai vangeli, è tutt’altro che univoca e varia in modo sensibile secondo che si assuma, per esempio, il punto di vista di Matteo o quello di Giovanni. Sicuramente Francesco d’Assisi ha cercato di «seguire le orme» di Gesù di Nazareth, secondo quanto riusciva a scoprire nelle sacre Scritture (i Vangeli ma anche i Salmi!) e tra gli esseri umani incontrati; ma ha effettuato delle scelte fra le diverse immagini di quel Cristo che egli aveva collocato al centro della sua esistenza. In sintesi, diciamo che ha dato della vita del Cristo una interpretazione molto radicale, poiché egli era un laico la cui intelligenza non era ingombra da formulazioni dottrinali né da influenze delle correnti filosofiche e teologiche.
Realizzando il vangelo alla luce della sua esperienza personale e della sua cultura cittadina e cavalleresca, Francesco ha scelto di seguire un Cristo povero e mendicante, sempre in cammino, che condivideva con i marginali la precarietà delle loro condizioni di vita, e di adorare un Dio pieno di cortesia che fa brillare il sole e cadere la pioggia sia sui giusti sia sui malvagi.
Ciò facendo, non riproduceva un modello: inventava, in funzione della sua assai viva sensibilità personale, ciò che ha fatto la sua originalità. Nel corso dei decenni successivi alla sua morte, i Minori hanno offuscato il messaggio lasciato dal loro “fondatore”, sostenendo che il loro genere di vita era paragonabile alla perfezione evangelica, poiché essi non possedevano alcunché in proprio né in comune.
Questa definizione, che doveva costituire un tratto distintivo della loro identità, provoca violenti conflitti con i maestri secolari dell’università di Parigi e il clero secolare e, nel contempo, diviene un segno di contrasto tra i frati stessi; ma essa era molto lontana dall’idea che il Poverello si era fatto della povertà e ancor più con il modo in cui l’aveva vissuta[4].
Queste ultime riflessioni evidenziano la necessità, non sempre percepita con chiarezza sino a epoca recente, di distinguere Francesco d’Assisi dal francescanesimo istituzionale e culturale. Tale affermazione non significa che i frati Minori, nel loro insieme e dopo il periodo delle origini, abbandonassero o tradissero il suo messaggio. Dire ciò sarebbe un assurdo: nel corso dei secoli nessun ordine religioso ha intrattenuto con il suo fondatore un rapporto affettivo tanto forte né ha tentato così spesso di rimettersi al suo ascolto.
Ma occorre riconoscere che le famiglie spirituali, che si sono richiamate a lui, talvolta si sono accontentate di ripetere formule prive oramai di ogni significato concreto, mentre l’autentica fedeltà consiste «nell’inventare un presente». Il Povero d’Assisi era stato il protagonista di un’altra storia, diversa da quella dei suoi discepoli: storia che, con ogni probabilità, di per sé non poteva affermarsi e perpetuarsi nel contesto della Chiesa e della società del tempo.
Questo relativo fallimento non toglie nulla alla significatività del suo messaggio. Al contrario, poiché contiene numerose virtualità che non hanno potuto svilupparsi nel passato, quel messaggio conserva una reale «forza di contemporaneità», suscitando ancora il nostro interesse[5]. Francesco non è stato l’unico autentico cristiano che la storia ha conosciuto, forse neppure il più perfetto. Ma non ha cessato, dal secolo XIII, di esercitare un effettivo fascino sugli spiriti e costituisce ancora oggi una figura a cui gli individui e le società si rapportano in modo giovevole per trovarvi, secondo la parola evangelica, nova et vetera, verità antiche e idee nuove».
Vauchez, da storico, asserisce insomma che Francesco ha interpretato a suo modo, privilegiando taluni aspetti, trascurandone altri ed adattandoli al suo tempo, la “forma” del Cristo. E proprio questo, nella sua prospettiva che è da condividere, non implica assolutamente una diminuzione della statura del santo di Assisi, bensì permette alla grandezza ed alla semplicità della sua personale rilettura di Cristo di emergere.
Nelle parole di Vauchez sembra riecheggiare la riflessione che G.K. Chesterton mise per iscritto in un volumetto sul santo di Assisi, che, pur non avendo le accortezze del lavoro di uno storico di professione, coglie ugualmente nel segno[6].
Chesterton infatti, come Vauchez al termine del suo scritto[7], pone una questione straordinariamente semplice, domandandosi se con Francesco era nata una nuova religione e se egli doveva essere considerato letteralmente un altro Cristo, cioè qualcuno che poteva pretendere di essere seguito esattamente come il Cristo aveva preteso di essere seguito. Se questa fosse stata l’interpretazione corretta del messaggio di Francesco, da quel momento in poi non avrebbero potuto esserci nella chiesa altro che francescani e tutti avrebbero dovuto o seguire il santo di Assisi o rinunciare al titolo di “cristiani”[8]:
«Riuscirà molto difficile, al candido osservatore benpensante, negare che il papa aveva ragione quando insisteva nel dire che il mondo non era fatto per soli francescani. In questo consisteva il problema della disputa. Ma c’era qualcosa di più ampio e importante che andava al di là di questo aspetto particolare e pratico. Mi riferisco a quell’agitazione di cui ci accorgiamo leggendo la controversia.
Penso di essere nel vero, riassumendo così la questione. San Francesco era un uomo così grande e originale che aveva in sé qualche cosa della sostanza che forma il Fondatore di una religione. Parecchi dei suoi seguaci erano più o meno pronti, nei loro animi, a trattarlo come tale. Essi desideravano far sì che lo spirito francescano si sottraesse al cristianesimo, come un tempo lo spirito cristiano aveva eclissato quello di Israele. Francesco, quel fuoco che correva attraverso le contrade d’Italia, doveva essere l’iniziatore di una conflagrazione nella quale si sarebbe consumata l’antica civiltà cristiana».
Se tutti avessero dovuto, per essere cristiani, vivere come Francesco non sarebbero potute sorgere successivamente figure come quella di Dante o comunque queste non avrebbero potuto meritare il titolo di “cristiane”[9]:
«Ho già notato che nel primo poeta italiano [Francesco d’Assisi] non c’è traccia di tutta quella mitologia pagana che seguì a lungo, anche dopo il paganesimo. Il primo poeta italiano sembra non aver mai udito Virgilio. È in questo senso speciale che egli è poeta. È perfettamente giusto che chiamasse usignolo un usignolo, il cui canto non era corrotto o rattristato come nei terribili racconti di Itilo o Procne. In breve, è perfettamente giusto e quasi desiderabile che San Francesco non conosca Virgilio.
Ma vorremmo davvero che Dante non conoscesse Virgilio? O che Dante non avesse mai letto una mitologia pagana? È stato detto che l’uso di queste favole, fatto da Dante, è parte di una più profonda ortodossia; che le gigantesche figure di Minosse e Caronte sono allegorie di un’enorme religione naturale, che serpeggia in tutta la storia e simboleggia la fede.
Va bene citare Sibilla, come Davide nel Dies irae, ma è pur vero che San Francesco avrebbe bruciato tutti i fogli di tutti i libri della Sibilla, in cambio di una foglia fresca dell’albero più vicino. E questo è tipico di San Francesco. Ma è bene avere tanto il Dies irae quanto il Cantico di frate sole».
Chesterton ritiene a ragione che la sapienza della chiesa, allora come oggi, seppe mostrare che esistevano diversi modi di vivere il cristianesimo – come , ad esempio, quello di Francesco e quello di Dante – in una relazione tale da non escludersi a vicenda[10]:
«Nella Chiesa del Signore ci sono diverse magioni. Ogni eresia è stato uno sforzo per rimpicciolire la Chiesa. Se il movimento francescano si fosse risolto in una nuova religione, questa sarebbe stata, dopo tutto, una religione meschina. E se degenerò, qua e là, in una quasi eresia, fu certamente una meschina eresia. Produsse ciò che l’eresia poteva produrre: oppose gli eccessi del sentimento francescano al vero spirito di Dio. ù
Quel sentimento, in origine, era quello buono e glorioso di San Francesco, ma quando non si ispirò più al vero spirito di Dio, degenerò in monomania. Sorse così la setta dei Fraticelli. Costoro si dichiararono i veri figli di San Francesco e si sottrassero alla condizioni imposte da Roma, in omaggio a quello che chiamavano «il programma completo di Assisi».
In pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali, minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli: alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco.
Quella gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini. E deviarono dalla giusta via, perché non vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola.
Per quanto San Francesco possa sembrare impetuoso e romantico nella sua evoluzione, c’è comunque sempre un legame invisibile e indistruttibile che lo tiene avvinto alla ragione. Il grande Santo era sano e lo stesso suono della parola «sanità», simile al vibrare profondo di una corda dell’arpa, ci riporta a qualcosa di molto profondo in lui che sembrò quasi eccentrico.
Ma non fu un eccentrico, perché si girava sempre al centro e al cuore di ogni labirinto; attraversava con i più bizzarri zigzag i sentieri più brevi del bosco, ma dirigendosi sempre verso casa. Era non solo troppo umile per essere un eresiarca, ma troppo umano per essere un estremista nel senso di poter fuggire ai confini della terra. Quelsense of humour che si rivela nei racconti delle sue impetuose avventure, non permise l’irrigidirsi nella solennità dell’auto-giustizia del settario».
Chesterton ricorda anche come ogni esistenza cristiana si caratterizza non per una sopravvalutazione di se stessa, bensì per quello spirito di lode e di ringraziamento che permette di cogliere l’ampiezza dell’opera di Dio[11]:
«[Francesco] fu soprattutto un grande donatore, che ideò il miglior modo di donare, detto «ringraziamento». Se un altro grande uomo[12] scrisse una grammatica del consenso, di Francesco si può dire che scrisse una grammatica della gratitudine, perché comprese, in tutta la sua profondità, la teoria del ringraziare; e quella profondità è un abisso senza fondo.
Egli seppe che la gloria di Dio è posata sul suolo più forte quando appoggia sul nulla. E seppe anche che noi possiamo valutare meglio il grande miracolo della nostra semplice esistenza, se riusciamo a comprendere che è solo una straordinaria grazia, che ci ha fatto esistere. E qualche cosa di quella più grande verità è ripetuta, in forma più piccola, nei nostri rapporti con un così potente costruttore di storia.
Anch’egli ci ha donato dei premi che non avremmo neppure immaginato di potere avere, ed è stato così grande che non possiamo dargli nient’altro che la nostra gratitudine. […] E chiunque riconosca il valore della sua ispirazione e ricordi, della sua storia, anche solo qualche aneddoto incompleto, sentirà dentro di sé almeno un poco di quel senso di impotenza che costituì gran parte del suo potere; e capirà, almeno in parte, ciò che San Francesco capì di quel debito, grande e buono, che non può essere mai pagato. Avvertirà il desiderio di voler fare infinitamente di più e, al tempo stesso, il vuoto di non aver fatto nulla.
Saprà cosa significa essere inondati da un tale diluvio di meraviglie e non avere nulla con cui ricambiarlo; nulla da appendere alle immense volte di un tempio così ampio, che è stato eretto nel tempo e nell’eternità, tranne questa piccola candela consumata tanto rapidamente al suo altare».
Dell’inopportunità di erigere la propria esistenza a norma della vita di ogni credente doveva essere consapevole lo stesso Francesco che non volle che gli sposati o i mercanti lo seguissero nella via della castità e della rinuncia ad ogni bene materiale. La stessa fondazione del Terz’ordine francescano – è di relativa importanza la questione se Francesco stesso ne sia stato l’iniziatore materiale o se esso sia nato immediatamente dopo su sua ispirazione – mostra la consapevolezza della prima generazione francescana che le beatitudini dovevano essere vissute con specificità diverse nel caso di laici sposati o di ecclesiastici con incarichi specifici o piuttosto nel caso di fratelli consacrati nell’ordine francescano stesso tramite i voti, come ha recentemente ricordato Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[13]:
«L’interpretazione della Scrittura non può essere una faccenda puramente accademica e non può essere relegata nell’ambito esclusivamente storico. La Scrittura porta in ogni suo passo un potenziale di futuro che si dischiude solo quando le sue parole vengono vissute e sofferte fino in fondo. Francesco d’Assisi ha colto la promessa di questa Beatitudine [beati i poveri in spirito] nella sua radicalità estrema – fino al punto di dare via anche il proprio vestito e farsene dare uno dal Vescovo, rappresentante della bontà paterna di Dio, che veste i gigli del campo meglio di come vestiva Salomone (cfr. Mt 6,28s). Per Francesco questa umiltà estrema significava soprattutto libertà di servire, libertà per la missione, estrema fiducia in Dio che non provvede solo ai fiori del campo, ma si prende cura proprio dei suoi figli; significava un correttivo alla Chiesa del suo tempo che con il sistema feudale aveva perso la libertà e la dinamica dello slancio missionario; significava un’intima apertura a Cristo a cui, mediante lo strazio delle stigmate, veniva totalmente conformato cosicché ora egli veramente non viveva più se stesso, ma, in quanto persona rinata, esisteva completamente da Cristo e in Cristo. Francesco non aveva intenzione di fondare un Ordine religioso, ma voleva semplicemente radunare di nuovo il popolo di Dio per un ascolto della Parola che non si sottraesse con dotti commenti alla serietà della chiamata. Tuttavia, con la fondazione del Terz’ordine ha poi accettato la distinzione tra l’impegno radicale e la necessità di vivere nel mondo. Terz’ordine significa accettare in umiltà proprio il compito della professione secolare e delle sue esigenze, laddove ci si trova, ma vivere nello stesso tempo protesi verso la profonda comunione interiore con Cristo, nella quale il santo di Assisi ci ha preceduti. «Avere come se non si avesse» (cfr. 1 Cor 7,29ss): apprendere questa tensione interiore come la sfida forse più difficile e poterla veramente vivere in modo sempre nuovo, sostenuti in ciò da coloro che hanno scelto di seguire Cristo in modo radicale – è questo il senso dei Terz’ordini e in ciò si rivela che cosa può significare la Beatitudine per tutti. Soprattutto diventa anche evidente in Francesco che cosa vuol dire «regno di Dio». Francesco era collocato totalmente dentro la Chiesa e, d’altra parte, in figure come lui la Chiesa si protende verso la sua meta futura, ma già presente: il regno di Dio si avvicina».
L’esperienza francescana illumina così e specifica anche il ruolo dei nuovi movimenti e delle nuove comunità dopo il Concilio Vaticano II: la santità di un fondatore di una determinata realtà ecclesiale ed anche i frutti manifesti che lo Spirito dona alla chiesa tramite quella stessa comunità non implica assolutamente che tutti i credenti debbano assoggettarsi a quella forma poiché nessuna forma concreta di vivere il Vangelo può pretendere lo stesso posto del Vangelo stesso.
Note al testo
[1] A. Vauchez, Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino, 2010 (originale francese del 2009).
[2] A. Vauchez, Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino, 2010, p. 361.
[3] A. Vauchez, Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino, 2010, pp. 360-361.
[4] Cfr. R. Lambertini, Apologia e crescita dell’identità francescana (1255-1279), Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 1990.
[5] Secondo la felice espressione di G. G. Merlo, Tra eremo e città cit., p. 506.
[6] In effetti, Vauchez cita tre volte nella sua opera Chesterton, ma non nelle pagine finali che sono state presentate più sopra.
[7] G.K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia, Milano, 2007.
[8] G.K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia, Milano, 2007, pp. 151-152.
[9] G.K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia, Milano, 2007, pp. 153-154.
[10] G.K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia, Milano, 2007, pp. 155-156.
[11] G.K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia, Milano, 2007, pp. 157-159.
[12] Il cardinal Newman.
[13] J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, p. 102.