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Il “pronto intervento” in caso di prete con un (sospetto) disturbo psicologico e sessuale

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 05/03/18
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Fondamentale il ruolo del vescovo o del superiore (che non sempre agiscono)

Preti e disturbi della personalità: nella prima parte del nostro dossier abbiamo spiegato come si potrebbe prevenire l’abuso da parte di un sacerdote o un seminarista. Abbiamo anche evidenziato come il ruolo del terapeuta potrebbe essere un vero e proprio toccasana per sciogliere qualsiasi dubbio e supportare, insieme al direttore spirituale, il cammino di queste persone.

Bisogna sempre tener presente che le tendenze sessuali, anche se sono tra le più difficili da tenere sotto controllo in coloro che hanno un disturbo di personalità, tuttavia restano fra le tendenze più difficili da obiettivare. Infatti, chi vuole nascondere una proprio inclinazione o preferenza sessuale lo può fare agevolmente e le evidenze giuridiche sono molto difficili da obiettivare.

Abbiamo spiegato, ancora, come sia possibile individuare il disturbo attraverso prove e test che devono essere svolte prima di arrivare alla “sentenza”, cioè a stabilire se c’è o meno una patologia.

In questa seconda parte invece, cercheremo di capire come si gestisce un caso patologico. Quindi stiamo parlando, ad esempio, di un sacerdote con un probabile disturbo della personalità che gli può generare (o ha generato) pericolose turbe sessuali.



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Il “fumus”

In casi del genere, ha spiegato ad Aleteia lo psicoterapeuta e psicologo forense Aureliano Pacciolla, che ha seguito nella sua carriera numerosi casi legati a sacerdoti e seminaristi, la diocesi o la congregazione dovrebbero agire in presenza di un “fumus”: non per forza un evento con prove e testimonianze, ma anche per un fondato sospetto. Cioè quando si registrano atteggiamenti poco consoni o che non hanno una giustificazione adeguata rispetto al mandato sacerdotale.

Azioni rapide e precise

“Fumus”, dunque, significa che vi sono buone probabilità che quella persona o ha agito o avrebbe agito in forza delle sue predisposizioni. Una volta accertato l’esistenza di tale “fumus”, da quel preciso istante devono verificarsi più azioni che – se pur in direzioni diverse – devono essere rapide e precise muoversi in simultaneità. Rapide significa che vanno svolte nell’immediato, senza aspettare; precise significa che ogni azione deve avere un obiettivo chiaro con un monitoraggio fatto da esperti. È un’emergenza da affrontare come tale con un protocollo antecedentemente concordato con esperti di questo settore.

1) Sospensione cautelativa

Un procedimento immediato è quello di sospendere in modo cautelativo il presunto autore di reato dall’ufficio di cui è stato investito. Quindi un parroco smette di fare il parroco.


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2) Processo diocesano e iter giudiziario

Un’altra direzione da prendere, in contemporanea, è quella di avviare un processo per verificare se il fatto è accaduto oppure no e se è di rilevanza penale o no. Il processo è un percorso di un’indagine interna avviato dal vescovo o dal provinciale, oppure un iter giudiziario.

A questo punto, sottolinea Pacciolla, va fatta una distinzione importante: se il “fumus” non è su una predisposizione ma su un fatto probabilmente accaduto, l’autorità giudiziaria deve essere allertata immediatamente.

La “clausola di copertura”

Purtroppo, in tal senso, in Italia persiste un grosso limite. Ovvero l’obiezione che un confratello non può accusare all’autorità giudiziaria un altro confratello; oppure il vescovo o un superiore non può denunciare un suo sacerdote.

L’art. 200 (c.p.p. lett. a), riconosce a tutti i ministri di culto la facoltà di astenersi dal deporre su «quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero».

Prima che nell’Italia repubblicana si completasse l’opera di una nuova codificazione processuale penale, interveniva l’Accordo di Villa Madama (1984), nel quale risultava sì mantenuto, all’art. 4, il vincolo dello Stato italiano a una tutela del segreto, con riferimento alle “informazioni su persone o materie” delle quali «gli ecclesiastici [. . . ] siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero», ma veniva meno la parziale antinomia che anteriormente si poteva scorgere con la legislazione statale, giacché la fonte bilaterale si allineava alla previsione, anche per gli ecclesiastici, di un semplice “esonero dall’obbligo” di rendere informazioni del genere (“non sono tenuti”), venendo meno, così, il precedente “divieto” di fornirle.



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Gli ecclesiastici, pertanto, possono astenersi dal testimoniare e se chiamati a riferire all’autorità giudiziaria possono, senza incorrere nel reato di falsa testimonianza o di favoreggiamento, fornire notizie incomplete, al fine di non rivelare comportamenti o atti, che abbiano un particolare significato nell’ambito della fede religiosa, e dei quali siano venuti a conoscenza esclusivamente per l’esercizio del loro ministero (Cass. pen., sent. n. 27656/2001).

Resta ferma, tuttavia, la possibilità per il giudice che abbia motivo di dubitare circa la fondatezza del segreto opposto dal Ministro di culto di effettuare gli accertamenti necessari. Qualora dagli accertamenti disposti risulti che le dichiarazioni rese dal Ministro di culto per esimersi dal deporre siano infondate, il giudice ordina al medesimo di deporre (art. 200, comma 2, c.p.p.). (da “Personalità, pedofilia e DSM–5″, A. Pacciolla, M. Romiti, M. Pacciolla).



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Una sorta di “libertà di giurisdizione”

Si tratta in fondo di un’applicazione concreta della “libertà di giurisdizione” riconosciuta ed assicurata dalla Repubblica Italiana alla Santa Sede, che impedisce qualsiasi forma d’intervento dell’autorità giudiziaria italiana in merito alla condotta del Vescovo, che in quanto espressione di un ordinamento indipendente e sovrano (art. 7 Cost.), si sottrae per ciò stesso da ogni forma di sindacato giurisdizionale esterno (M. Cozzolino, Profili di responsabilità del Vescovo nei confronti di minori vittime di abusi sessuali, p. 359).

Avvalersi di questa facoltà, secondo Pacciolla, è un clamoroso silenzio omertoso, tutt’altro che etico. Il pronto intervento non è tacere a vantaggio del carnefice, ma realizzare interventi a vantaggio della vittima. In tal senso c’è una confusione piuttosto evidente tra legalità e moralità!

Il “perverso” senso di appartenenza

Questo, tanto più è negativo perché esiste un preciso meccanismo psicologico di autodifesa, il “senso di appartenenza“. Cioè la percezione di un elemento che è incluso nel proprio sistema sociale, di valori, giuridico, familiare, fa sì che automaticamente scatti la tutela e la difesa dello stesso, anche se carnefice. Un esempio: due bulli si proteggono tra loro perché hanno gli stessi obiettivi; nel caso ecclesiastico un vescovo che copre le azioni di un prete sospetto.



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Anomalia italiana

Ma questa, rammenta lo psicoterapeuta, è un’anomalia tutta italiana. In quasi tutti i Paesi al mondo non esiste questa sorta di “copertura legale”. In Australia [come in altri Paesi anglosassoni] – al centro di diversi scandali di pedofilia tra i preti – un vescovo sa che un suo sacerdote ha commesso un reato sessuale e non lo denuncia o non collabora con la polizia nelle indagini, è considerato un reo.

3) Tutela delle vittime

Un’ennesima proceduta da effettuare in contemporanea alle altre, è mettere in sicurezza le vittime o presunte tali. Quindi fare in modo che le vittime non restino in una condizione di vulnerabilità, come lo erano prima. La Chiesa deve subito rendersi disponibile ad offrire il suo sostegno perché è fondamentale. E’ un segnale importante che si dà alla vittima. Poi saranno gli organi preposti ad intervenire, ma la Chiesa è importante che faccia avvertire alla vittima la sua vicinanza.



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Tre possibilità per il presunto carnefice

Agire su questi tre fronti significa attivare un vero e proprio pronto soccorso che tutela le vittime. Nel momento in cui parte un’indagine diocesana, di solito il presunto carnefice: o viene spostato in un altro luogo lontano da quello dove svolgeva il ministero sacerdotale; oppure spostato in un altro posto e sospeso dall’esercizio sacerdotale; oppure trasferito in una comunità protetta.   

Un percorso a ritroso

Sempre in contemporanea, nell’indagine diocesana, bisogna elaborare un percorso a ritroso sul soggetto per ricostruire la sua storia: risalire, quindi, a prima dell’ordinazione, al seminario, e capire chi sono quelle persone che hanno avuto a che fare con il prete e non sono mai intervenute. A quel punto la diocesi/congregazione hanno il dovere di approfondire, con un’inchiesta parallela, eventuali responsabilità di queste persone. Una tipologia simile di inchiesta è ad oggi molto rara.



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Assoluzione e condanna

Se alla fine dell’iter diocesano e giudiziario il “fumus” risulta infondato, il sacerdote ha diritto al risarcimento per diffamazione, ed è giusto che venga riabilitato in tutto e per tutto. Se è necessario la Chiesa deve garantirgli anche un supporto terapeutico a livello psicologico.

Se il fatto-reato è certificato, allora deve scontare la pena con l’aggravante così come indicato nella normativa vigente. Dal punto di vista ecclesiastico la misura più adeguata è avviene la riduzione allo stato laicale.

Il disturbo pedofilico

Quando il fatto-reato è accertato e la diagnosi è di “disturbo pedofilico” (indica una qualunque interazione di tipo sessuale tra un maggiorenne e un prepubero, cioè un infra tredicenne, al di sotto dei 13 anni), si può essere curati ma non è guaribile. Quindi la misura più adeguata da prendere nei confronti del sacerdote è la riduzione allo stato laicale.



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Nei disturbi sessuali si inserisce qualsiasi disturbo parafilico: voyeurismo, esibizionismo, feticismo, travestitismo, masochismo, sadismo. Da questi, invece, si può guarire se non dipende dalla cronicità. Bisognerebbe accertare se è un caso isolato, sporadico, seriale o cronico. Questi accertamenti sono difficilissimi. La quasi totalità dei casi colti in flagranza di reato affermano e giurano che si tratta di un unico caso. In ogni caso si necessità di un lungo percorso terapeutico.

2 – CONTINUA

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