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Figlia tossicodipendente ai genitori: siete anche voi responsabili di tutto questo

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Paola Belletti - Aleteia - pubblicato il 15/02/18
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Una lettera coraggiosa e bruciante come spesso tocca essere alla verità: una giovane donna si rivolge tremante ai propri genitori perché anche dalla loro presa di coscienza dipende la sua guarigione

“Ho bisogno che accettiate che siete in parte responsabili per come è andata la mia vita”, esordisce Elisabeth Brico, scrittrice freelance del Nordovest pacifico. E prosegue implorando i propri genitori di ascoltarla davvero. Di credere che abbia qualcosa di decisivo da dire loro.

Si fidino, questa volta, anche se è difficile e lei lo sa.

“Perciò, la prima cosa che vi chiedo è di fidarvi. Non sto cercando di mettere in piedi scuse o bugie. Non sto cercando di manipolarvi, anche se farebbe meno male pensare a queste parole come a una manipolazione. Ma sto davvero cercando di dirvi una cosa importante. Per favore ascoltatemi.”

Si legge, nell’opera di mettere le parole una dietro l’altra, la fatica di scavare una terra dura, dentro di sè e nella propria vita famigliare, perché torni alla luce la bellezza originaria di quella figlia, della bambina che sente ancora viva e intanta e che, ancora, vuole renderli fieri. Si capisce come Elizabeth abbia imparato, prima dei suoi, a leggere la propria famiglia come un organismo complesso ma unico, intero. Dove non ci sono individui ma persone. Dove lei, quasi quasi, è il sintomo di una malattia che ha alzato la febbre a tutto il corpo.



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Il messaggio chiave di questa lettera non è una uscita secondaria, defilata, per non attraversare la grande sala della responsabilità personale, della libertà, anche di fare e di farsi del male. E’ un’altra cosa. Ascoltiamo le sue parole:

“(…)non ho mai dimenticato la bambina di belle speranze che ero. È sempre stata con me, anche quando viveva nel corpo di una persona malata, tremebonda. I miei sogni erano ancora tutti lì, intatti. Anche allora volevo fare grandi cose—per rendervi orgogliosi. Ma dovevo prima smettere di stare male.

Sapete di cosa parlavamo sempre io e i miei amici quando ci facevamo insieme? Di cosa avremmo fatto una volta che fossimo stati puliti. Non vedevamo l’ora. Sembrava vicinissimo—davvero a portata di mano—il momento in cui avremmo scritto quel bestseller, o vinto qualche riconoscimento come costumista, o aperto una casa-rifugio per giovani bisognosi. Ci attaccavamo a quei sogni come quando eravamo piccoli, quando voi ci credevate ancora.” (dalla Lettera pubblicata da Elizabeth Brico)

Che paradosso. Ha un che di tragico e di patetico insieme. Ciò che li faceva credere capaci di uscire dalla schiavitù della droga erano le manette che l’eroina stringeva loro ai polsi.

Quello che dice subito dopo mi ha colpito come un manrovescio: è così per ogni figlio, è così per me, figlia tuttora, è così per le mie ragazzine preadolescenti. Esattamente quando si presentano meno amabili, più respingenti, moleste, sgradevoli proprio in quel momento, con quelle facce, quelle espressioni, quei rifiuti urlati, sono massimamente bisognose di amore. Quando non sono affatto amabili, sono da amare. Dobbiamo comandarcelo.



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Quando ero nei miei momenti peggiori, più brutta che mai—le labbra molli, la testa ciondoloni, le palpebre semichiuse su pupille che giravano impazzite come un pinball nelle orbite—speravo che mi avreste abbracciato. E invece, voi ve ne siete andati. Non vi biasimo. È una visione orribile, lo so. Forse sarebbe stato più facile se avessi trovato il modo di dirvi che ero solo nascosta”.

Questa ragazza, che ha davvero vinto la sua battaglia contro la droga, ha imparato una cosa centrale e profonda ed è proprio quella che può ferire o allontanare i suoi genitori mentre invece aveva lo scopo di aiutarli a capire lei e loro stessi, per guarire. Perch in un certo senso sono anche loro, o meglio la loro relazione reciproca, a dover guarire.

Nella lunga lettera riporta anche i risultati di uno studio a firma di una nota scrittrice freelance portoghese-canadese:

Nella sua analisi del relativo successo che il Portogallo ha avuto nel contrastare le morti legate al consumo di oppiacei, Susana Ferriera scrive che «il progresso del paese può essere attribuito ad alcuni fattori di base, di cui uno è il riconoscere a livello sociale che la relazione malsana di un individuo con le droghe spesso nasconde rapporti fragili con le persone care, con il mondo che lo circonda, e con se stesso».”

E forse avendo preso coraggio e non potendo che andare fino in fondo ora che ha effettuato l’incisione si mette ad operare: bisturi!

“È vero che non posso controllarla. Una volta che ho sviluppato una dipendenza, che è un disturbo psicologico, ci voleva ben altro che la mia famiglia per tenerla sotto controllo. Ma è irresponsabile da parte vostra pensare di non aver in alcun modo contribuito alla dipendenza. Quando ho cercato di parlarvi di depressione, a 14 anni, avete preso in mano un libro e mi avete ignorato—avete contribuito alla mia dipendenza.

Quando vi siete incazzati nel vedere le bruciature che il mio ragazzo mi infliggeva a 17 anni, minacciandoci entrambi invece che dirmi che mi amavate e che mi meritavo di meglio—avete contribuito alla mia dipendenza. Quando vi ho detto che mi avevano quasi violentata e voi mi avete risposto che era una bugia—avete contribuito alla mia dipendenza. Quando ci sono ricaduta, e voi mi avete fatto vergognare per questo—avete contribuito alla mia dipendenza.

Cominciano a sembrare accuse. E so che alla gente non piace; è difficile ascoltarle.”


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E citando lo specialista di dipendenze Gabor Mate inizia a suturare le incisioni o almeno a controllare il rischio di emmoragia, perché deve essere di un dolore lancinante per una mamma ed un papà sapersi complici, sebbene ignari, della devastazione del figlio:

Il genitore non deve essere perfetto. Nella nostra società, non è [solo] questione di capire se i genitori stiano facendo del loro meglio, o amino i figli, perché sono spesso isolati o stressati o troppo preoccupati dal lato economico per essere presenti. Quello che dico è che la carenza emotiva in giovanissima età è la base universale di tutte le dipendenze.”

La distinzione che opera questa ragazza tra l’aiuto amoroso e la necessità di essere amata davvero è preziosa:

“Ma voglio anche che smettiate di pensare che mi state aiutando con il vostro amore. Io ho bisogno che voi mi amiate davvero. Ho bisogno che mi diate una quantità illimitata di possibilità. E questo significa prendere atto delle mie parti peggiori, e decidere che rimarrete lo stesso al mio fianco. Significa ascoltare quando dico, “È troppo, aiutatemi.”

Non significa darmi soldi, o acconsentire alle richieste che vengono chiaramente dalla bocca della dipendenza, ma significa abbandonare l’idea che ho bisogno di ‘tough love‘, un amore che faccia male. L’amore di questo tipo spesso conduce a nuovi traumi, che rendono la dipendenza ancora più difficile da scalzare. Mi chiedo se avrò mai il coraggio di chiedervi apertamente quello di cui ho bisogno. Per ora, non riesco a essere più coraggiosa di così. Per ora, mi fermo qui, e vediamo cosa succede.”

Forse si potrebbe pensare, temere che accordare amore e comprensione ad un ragazzo tossicodipendente sia la cosa peggiore e più deleteria da fare. Ma solo se si fa coincidere l’amore con l’assecondare, il blandire e togliere responsabilità, credo.

 

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