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«E mi tocca il Purgatorio anche se mi confesso per bene?»

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 29/01/18
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La dottrina della duplice pena del peccato è una delle meno studiate e più fraintese dell’escatologia cristiana, eppure di per sé avrebbe da dire una parola importante sulla vita concreta di ciascuno: per non ridurre la giustificazione a una sorta di lavanderia dal candeggio più o meno efficace bisogna capire in che senso e in che modo si può (e si deve) collaborare alla propria redenzione.

In Redazione ci è pervenuta una domanda che merita una risposta, se non altro perché mostra come tante cose normalmente date per assodate siano ben lungi dall’esserlo:

Un peccato mortale già confessato non deve essere scontato anche in Purgatorio, vero?

La risposta per chi ha fretta sarebbe “sì, certo che deve”, ma i grandi del pensiero teologico ci hanno insegnato che quando si spiega come stanno le cose di Dio bisogna anche dire perché esse stiano in un certo modo piuttosto che in un altro. Quindi chi non ha fretta e desidera capire perché un peccato mortale già confessato debba essere scontato anche in Purgatorio (se non lo si sconta in vita), ovvero cosa questo significhi e comporti, prosegua pure la lettura.



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E per procedere con un punto di sintesi prendiamo subito il Catechismo della Chiesa Cattolica, che illustra:

Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio comportano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’“uomo vecchio” e a rivestire “l’uomo nuovo” [Ef 4, 24]

CCC 1473

Al numero appena sopra, però, premetteva sapientemente:

Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la “pena eterna” del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensì come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, così che non sussista più alcuna pena.

CCC 1472

Occorrerà ora cercare di capire meglio anzitutto cosa sia questa dottrina della “duplice pena” del peccato, e come si colleghi alla distinzione scolastica tra peccato veniale e peccato mortale. Voliamo quindi senza indugio nel XIII secolo per sfogliare la Summa Theologiæ di san Tommaso, là dove l’Angelico si domanda se ogni peccato invochi per sé una pena eterna. E comincia dicendo che sembrerebbe di sì:

Infatti la pena, come è stato detto, è proporzionata alla colpa. Ma la pena eterna differisce da quella temporale rispetto all’infinito, e nessun peccato sembra differire da un altro all’infinito, dal momento che ogni peccato è un atto umano – che non può essere infinito. Dunque siccome a qualche peccato è riservata una pena eterna se ne deve inferire che a nessun peccato è riservata una pena solo temporale.

Th., S.Th. I-II, 87, 5 arg

L’argomento è semplice: per quanto un peccato sia un atto umano e quindi radicalmente finito, esso comporta un’offesa al “valore infinito” che è Dio – in tal senso, proiettato sull’infinito, invoca su di sé una pena infinita, ossia una pena eterna.

Ancora Tommaso adduce le autorità della Scrittura e di sant’Agostino per sostenere l’argomento. D’altro canto obietta, sulla scorta di Gregorio Magno, che «alcune colpe più lievi vengono rimesse dopo questa vita» (Gregorio Magno morì nel 604: ditelo a quanti ancora vanno dicendo che il Purgatorio sia un’invenzione medievale). E così risponde l’Aquinate:

Come abbiamo detto sopra, il peccato è reo di pena eterna, in quanto ripugna irreparabilmente all’ordine della giustizia divina per il fatto che contrasta allo stesso principio dell’ordine, che è il fine ultimo. È chiaro tuttavia che in alcuni peccati c’è sì un certo disordine, che però non esprime un’avversione al fine ultimo, ma solo quanto alle cose che a quel fine sono ordinate, in quanto esse vengono intese più o meno debitamente – ma è fatto salvo l’ordinamento al fine ultimo. Metti per esempio quando uno, anche se sia particolarmente soggiogato da una passione temporale, tuttavia non intenda offendere Dio mediante quella, cioè facendo in quel campo qualcosa contro i comandamenti. E quindi a siffatti peccati non si deve una pena eterna, bensì temporale.

Th., S.Th. I-II, 87, 5 res

Questo dovrebbero rileggerselo per bene quanti pensano di poter definire il peccato mortale more geometrico, a partire semplicemente dalla materia grave (ovviamente definita tale dai manuali), dalla piena avvertenza e dal deliberato consenso. Come a dire: se sai che una cosa è peccato (e un peccato grave) e tuttavia la fai, evidentemente stai commettendo un peccato mortale. Tommaso non sembra affatto di questa opinione, a quanto si legge nella Summa: egli sapeva bene (ché non era pelagiano, l’Angelico!) come gli uomini possano «volere il bene che vedono e commettere il male che non vogliono» (cf. Rom 7, 19). Dunque il peccato diventa più o meno irremissibile, e dunque reo di pena più o meno temporale, a seconda di quanto voglia offendere Dio. Su questo punto devono parimenti fare attenzione quanti tendono al lassismo: la coscienza si ottunde precisamente nell’esercizio dei vizi, e ciò comporta che l’intenzione di offendere Dio – in linea di principio inaudita, per una retta ragione – diventa tanto meno remota e impraticabile quanto più cresce il vizio. Insomma, in breve: ai peccati veramente mortali non è facile arrivare, ma ci si piomba inavvertitamente quando si va di peccato (anche veniale) in peccato (anche veniale) – è proprio vero che «la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni».

Il Catechismus ad parochos, frutto del Concilio di Trento, individua efficacemente la differenza tra i due stati – cioè quello di chi pecca per debolezza e quello di chi pecca per vizio («Peccatori sì – dice spesso Papa Francesco –: corrotti no»):

Altra categoria è di quelli che, oppressi da mortali peccati, si sforzano, tuttavia, con quella fede che si dice morta, di innalzarsi e salire a Dio; ma per le forze stremate e la gran debolezza della fede, non possono risollevarsi da terra. Tuttavia, riconoscendo i loro peccati e tormentati da rimorso e dolore per averli commessi, umilmente e dimessamente, facendo penitenza, dall’abisso della loro abiezione implorano da Dio perdono delle colpe e pace. La preghiera di costoro non è rigettata da Dio, ma ascoltata e accolta, perché Dio misericordioso invita tali uomini con la massima liberalità: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi – egli dice – e io vi ristorerò» (Mt 11,28).

[…]

Ultima categoria è quella di coloro che non solo non si pentono dei loro delitti e delle loro colpe, ma accumulano colpa su colpa; eppure non si vergognano di chiedere spesso a Dio perdono dei peccati nei quali vogliono perseverare. Quelli che si trovano in tale condizione non dovrebbero chiedere neppure agli uomini di essere perdonati. La loro orazione non è ascoltata da Dio, come sta scritto di Antioco: «Pregava, questo malvagio, il Signore da cui non avrebbe ottenuto misericordia» (2 Mac 9,13). Perciò bisogna esortare grandemente chi si trova in questa misera condizione a rivolgersi veramente e sinceramente a Dio, deponendo la volontà di peccare.

Catechismus ad Parochos 362

Come si vede (lo stesso CaP afferma al punto 249 che «la perfetta contrizione è un atto di carità», di cui tuttavia sono reputati capaci quanti commettono “mortali peccati”), l’uso del sintagma “peccato mortale” è tutt’altro che univoco, nei testi del Magistero e della Tradizione. In tal senso trovo molto efficace la sintesi che il Catechismo Maggiore (di san Pio X) fa dell’azione peccato mortale:

Qualunque peccato mortale estingue la virtù teologale della carità.

E quest’ultima si riacquista solo

[…] facendo atti di amor di Dio, pentendosi e confessandosi come si deve.

Catechismo Maggiore 909-910

E m’incanta sempre, del resto, come san Pio X non abbia insegnato che il peccato mortale estingua la virtù teologale della fede: la sua luce, infatti, può essere persa solo

col negare o dubitare volontariamente anche di un solo articolo propostoci a credere.

Ivi, 867

Si può davvero, in un certo senso, «peccare fortemente e credere ancora più fortemente» – lo disse Lutero ma il Concilio di Trento non lo negò, non in toto – purché non si pretenda con ciò di negare che Dio voglia e intenda renderci veramente giusti, e non solo dichiararci tali (uno degli errori di Lutero).

Proprio per questo motivo la Chiesa ha lungamente raffinato la dottrina della duplice pena, di modo che sempre Papa Sarto poteva scrivere:

Il sacramento della Penitenza conferisce la grazia santificante con la quale sono rimessi i peccati mortali e anche i veniali che si sono confessati e dei quali si ha dolore; commuta la pena eterna nella temporale, della quale pure vien rimesso più o meno secondo le disposizioni; restituisce i meriti delle buone opere fatte prima di commettere il peccato mortale; dà all’anima aiuti opportuni per non ricadere nella colpa, e ridona la pace alla coscienza.

Ivi, 690

L’offesa al valore infinito di Dio, dunque, viene riportata a una “dimensione umana” dalla bontà di Dio – comunicata per via sacramentale –, laddove di per sé sarebbe schiacciante nel suo peso sovrumano. A quel punto è proprio l’istanza della giustificazione a esigere che con quella “pena ricondizionata” noi uomini facciamo i conti. Per capire proviamo a immaginare che un nostro figlio produca un danno per lui irreparabile – diciamo che, più o meno inavvertitamente, graffi la fiancata dell’automobile con la bicicletta. Che poi venga da noi a dirci che è pentito di aver fatto una simile sciocchezza, e che noi volentieri lo perdoniamo pur sapendo che in nessun modo potrà riparare al danno. Che infine noi gli chiediamo allora di prendersi l’impegno di curare il giardino per tutta l’estate. Per educarlo alla custodia delle cose belle e delicate, ma anche per farlo crescere nella consapevolezza di essere capace di cose veramente buone.



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Fuor di metafora, una simile riparazione – anche se commensurata alla nostra intenzione e non al danno che abbiamo commesso – ci è richiesta dalla bontà e dalla giustizia di Dio. L’indulgenza plenaria va compresa in questo quadro, quindi, come una straordinaria effusione di grazia che per il mistero della comunione dei santi estingue completamente ogni pena per il peccato confessato, comunicando misticamente al penitente la santità della Chiesa già gloriosa – e non serve oggi dedicare alla questione più di questo accenno. Mi piace a tal proposito chiudere riportando un passo della bolla Lætentur cæli, del Concilio di Firenze (1439):

[…] le anime dei veri penitenti, morti nell’amore di Dio prima di aver soddisfatto con degni frutti di penitenza ciò che hanno commesso o omesso, sono purificate dopo la morte con le pene del purgatorio […].

Quanto alle anime di coloro che, dopo il battesimo, non si sono macchiati di alcuna colpa, e anche riguardo a quelle che, dopo aver commesso il peccato, sono state purificate o in questa vita o dopo la morte […], esse vengono subito accolte in cielo e vedono chiaramente Dio, uno e trino, come egli è, ma alcune in modo più perfetto di altre, a seconda della diversità dei meriti.

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