Ritorna in libreria “Il problema della sofferenza” di Clive S. Lewis in cui il celebre autore anglicano affronta il problema del dolore dopo la scomparsa della moglie Non l’aveva certo immaginato, Clive S. Lewis, allorché pubblicò nel 1940 il saggio Il problema della sofferenza, che vent’anni dopo avrebbe toccato sulla propria pelle la violenza del dolore per la perdita della moglie amatissima. L’urto della morte l’avrebbe raccontato in un libretto, Diario di un dolore, pubblicato nel 1961 (in Italia da Adelphi nel 1990), in cui il grande scrittore cristiano si mette a nudo e con durezza descrive la propria reazione dinanzi a un evento per lui lancinante come non mai, tale da scuotere la sua fede.
L’autore delle famose Lettere di Berlicche, docente di letteratura inglese e medievista, scrittore anche di fantascienza (a lui si devono le Cronache di Narnia), convertito dall’ateismo al cristianesimo anglicano e da allora fervido apologeta, si rivela davvero inconsolabile giungendo come Giobbe a sfidare Dio.
Capace di scrivere frasi come: «Persone di buon cuore mi hanno detto: “È con Dio”. Almeno in un certo senso, questo è certissimo. Essa è, come Dio, incomprensibile e inimmaginabile»; oppure di porsi domande ardite, quasi blasfeme, quali: «È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo?»; e ancora: «Abbiamo Cristo, ma se si fosse sbagliato?». La sua fede è insomma messa a dura prova e si rivela tutt’altra cosa che una consolazione a buon mercato.
Di Lewis, che fu molto legato a Tolkien, l’editrice Morcelliana ripropone ora il volume Il problema della sofferenza (Brescia, 2017, pagine 170, euro 14) e giustamente Andrea Aguti nella prefazione constata che «per il credente l’esperienza del dolore è ancora più temibile che per il non credente, perché significa anche l’esperienza del silenzio di Dio». È singolare fra l’altro che negli ultimi anni siano stati pubblicati diversi volumi in cui scrittori di varia estrazione, dall’americana Joyce Carol Oates (Storia di una vedova, Bompiani 2013) all’inglese Julian Barnes (Livelli di vita, Einaudi 2013, da cui è stato tratto un recente buon film, L’altra metà della storia) e all’ungherese Sandro Marai (L’ultimo dono, Adelphi 2009), si confrontano con la morte del proprio coniuge, dovuta a malattia o a morte improvvisa. E per tutti, credenti e non, il tormento pare non finire mai. Tanto che l’autore delle Braci, rimasto solo a Los Angeles, preferirà togliersi la vita piuttosto che continuare a soffrire.
La questione della teodicea, che pure in The Problem of Pain era un caso serio da dirimere (la possibilità di conciliare l’esistenza di un Dio onnipotente e buono con il male del mondo, i tanti mali fisici e morali che ci affliggono), quando la morte ci colpisce sembra solo un gioco intellettuale e non ci aiuta più di tanto.
Se ci sembra rilevante ancor oggi il saggio di C.S. Lewis, più che per le pagine sul dolore, è per quelle dedicate all’aldilà. Egli giunge quasi a non accettare la possibilità della dannazione eterna: «Al proposito divino di redimere il mondo — scrive — non è certo segua un buon risultato nelle anime singole: alcuni non saranno redenti. Questa è la dottrina cristiana che io vorrei abolire dal cristianesimo, se potessi!». Una dottrina che mal si concilia con un Dio così misericordioso da farsi uomo e morire per noi, eppure Lewis arriva ad ammettere che è proprio la bontà di Dio, l’aver creato esseri liberi e non schiavi a far sì che Lui stesso si sottometta alla possibilità della sconfitta, cioè il rifiuto dell’uomo e perciò la sua condanna: «Essi non vogliono essere perdonati».
Bellissimo il capitolo sul paradiso, un luogo in cui non esiste la proprietà ma permane l’individualità: «Se tutti avessero esperienza di Dio alla stessa maniera, il canto della Chiesa trionfante non sarebbe una sinfonia, sarebbe come un’orchestra in cui tutti gli strumenti suonassero la stessa nota». Le persone sono eternamente diverse, unite solo dalla disponibilità a donarsi all’altro: «Ogni anima sarà eternamente impegnata a dare a tutte le creature sue simili ciò che riceve». È la logica della solidarietà realizzata che domina il paradiso. Temi che Lewis affronta anche nell’epistolario con don Luigi Calabria, appena ripubblicato da Jaca Book (Una gioia insolita) e recensito in queste pagine.
Curioso infine quanto dice Lewis sugli animali: a suo parere saranno presenti nell’aldilà come compagni dell’uomo, mentre Jacques Maritain negava recisamente questa possibilità. Per il filosofo francese il paradiso che tutti desideriamo come meta è ben diverso dall’immagine che ci siamo fatti pensando al paradiso terrestre, con Adamo ed Eva in compagnia di animali e piante.
A suo parere però — scrive in un libretto intitolato Le cose del cielo in Italia edito da Massimo nel 1996 — «la creazione non subirà alcuna perdita perché tutto ciò, i nostri cari paesaggi verdeggianti, il diletto campionario di bestie piccole e grandi, continuerà a vivere in eterno nella memoria dei beati». Qualcuno, animalisti in primis, rimarrà deluso per la prospettiva dell’assenza di questa natura meravigliosa, idea che Maritain riprende da Tommaso d’Aquino. Per Lewis al contrario «l’uomo conoscerà il suo cane e il cane conoscerà il suo padrone e, conoscendolo, sarà se stesso».