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Un figlio, quando nasce, costa. E non è quello del nido il prezzo più alto da pagare

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Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 09/01/18
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Secondo l’Istat sono circa 29 mila le donne che hanno rassegnato le dimissioni dal lavoro a causa della nascita di un figlio. Soprattutto al Nord (dove il lavoro c’è). Ma qual è la vera conciliazione famiglia-lavoro che vogliamo trovare?Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro tra le donne che si sono licenziate 24.618 hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino e di conciliare la vita da mamma con il lavoro. Questo e altri dati sul rapporto maternità- occupazione riportati in un articolo de La Stampa (8 gennaio 2018).

E di lì in avanti il discorso beccheggia tra l’isola che non c’è della conciliazione famiglia-lavoro e le secche della disoccupazione.

La maggior parte delle donne che si sono dimesse dopo il parto risiede al Nord.

“Considerando i dati aggregati, il numero più alto di dimissioni è stato registrato al Nord, 23.117”,

spiega la giornalista della testata torinese. Dietro questi numeri ci sono le donne della depredata classe media ridotta a generazione “mille euro”.

E che ci fai con mille euro al mese? Cinquecento vanno al nido. Il resto per la sopravvivenza. E i costi maggiori non sono questi. Il costo vero, il più alto non è questo, che pure pesa eccome. Diciamo la verità, ma tutta e senza paura.

Sono le minimo sette, otto, nove ore lontani. Chi? Noi mamme e il nostro figlio piccolo o piccolissimo. E anche noi siamo piccole, ancora. Siamo appena diventate mamme e già dobbiamo tornare a pensare all’ufficio, a cosa mi metto, alle scarpe comode, al meeting poi però preferiscono i tacchi (legge non scritta); ai picchi di lavoro, alle tensioni, alle responsabilità o ai grandi carichi di pratiche da smaltire, all’isolamento da rientro e ai turni e alle ferie da dividere con altri, secondo un concetto di equità infantile da asilo nido, quello sì. Io faccio tot ore, tu fai tot ore. Tante mattine tu, tante mattine io, anche se le esigenze personali sono diverse. Eccetera. Oltre a tutte le cose belle e interessanti di molte professioni, certo.

Ma nulla vale nostro figlio e la nostra relazione con lui. Irrimandabile, non delegabile, non trasferibile mai davvero su altri.

Il prezzo vero è questa menzogna che ripetiamo in coro, con miriadi di eccezioni, con grandi schiarite di lucidità, con moti di ribellione e coraggio, con scelte personali coraggiose e sostenute dalla provvidenza. E che è questa: potere (che è diventato dovere) lavorare come gli uomini è la nostra libertà. La maternità? Sì bella per carità, ma non c’entra molto con la mia realizzazione personale. Perché ho studiato, ho dei talenti. Devo riuscire nel lavoro (inteso nella forma ormai divenuta classica). E stare a casa coi figli non mi gratificherà, (credo).



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Ma poi questi piccoli ce li troviamo in braccio. Anzi, prima in pancia. E già qualcosa si sgretola.

Ce li troviamo al collo e ci ritroviamo un corpo che si impone maestosamente alla nostra mente perché lui sa essere spirituale, il corpo, e noi siamo invece troppo allenate ad essere cerebrali, forse; e abbiamo così voglia di lasciarci andare ed obbedire. Abbiamo voglia di dire sì. Il mio posto è qui. Questo non significa alienazione, non significa assolutizzazione e nemmeno tutte le esasperazioni patologiche stile “mamme pancine” nelle quali ci siamo magari imbattute dentro e fuori la rete.



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Soprattutto il figlio una volta nato, vive, Dio lo benedica! Fino a quando Dio vorrà.

Con o senza lacrima, con o senza afflato romantico, con o senza richiamo al religioso resta la realtà. Il figlio c’è, la madre c’è. Figlio e madre ci sono; sono persone che vivono della loro relazione. Che hanno bisogno fisico, emotivo, cognitivo, psichico di stare vicini. All’inizio è così in modo prepotente. Ed è un inizio lungo. E tutto il sistema di aiuti, la rete di nidi, il bonus baby sitter (che, ci ricorda il pezzo su La Stampa, decade in caso di dimissioni), gli straordinari chiesti ai nonni – che, altro problema, spesso lavorano ancora –  ignora questa verità.

Ma lei, la verità, del tutto refrattaria alle sirene progressiste, continua ad imporsi. Con un’evidenza schiacciante e brutale. Eppure benefica. Il sistema della conciliazione famiglia lavoro, se non tiene conto di questo dato (dato da chi? Altra storia…) sarà sempre inefficace. Peggio: apparirà sempre più come un’azione irresponsabile, come un furgone scassato, con pessimi freni, lanciato contromano in tangenziale all’ora di punta.


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Stando a questo e ad altri dati, il numero totale di nuove nascite e quello dei morti ( meno 134 mila il saldo della popolazione italiana secondo i dati Istat riferiti al 2016) ad esempio, la fisionomia che la nostra povera società ha assunto appare sempre più inequivocabile. Colorito pallido, respiro affannoso, riflessi scarsi..un indice di Apgar da moribondi. Senza parlare di tutto il corredo di leggi e costumi che stornano ulteriormente le nostre energie dalla vita (derive eutanasiche, aborti, divorzi sempre più rapidi).

A questo punto ho un dilemma che vorrei condividere con voi: conviene, è più efficace cercare di erodere una a una le frange più acuminate di questo sistema, facendo piccoli passi per cambiarlo, o rinnegarlo radicalmente e totalmente? Provo ad esporre la mia opinione, in merito.

In linea di principio, soprattutto per chi ha responsabilità sociali, di influenza dell’opinione pubblica, di governo e ha capito questa priorità credo sia doveroso dire con coraggio che così non va, non è giusto. Che la maternità va rimessa al centro e non costretta a rincorrere, senza poter mai riuscire davvero ad adeguarvisi, un sistema produttivo contro i bambini, contro le madri, contro la famiglia. La Chiesa già lo fa, da sempre. Con la voce dei suoi Papi e quella di tanti pastori e semplici laici.



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Sul fronte esistenziale (che è pur sempre sociale e anche politico, intendiamoci!), personale e familiare, credo sia giusto valutare i margini di ogni condizione. Credo sia necessario osare, chiedere, cercare spazio. Affidarsi, per i più audaci, alla Provvidenza. La quale ci ha dotati di molta intelligenza, creatività, idee, relazioni. E della libertà di pregare.

 

 

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