A Modena, don Giorgio Govoni morì di crepacuore dopo il fango ricevuto. Vent’anni dopo il primo sfogo pubblico delle famiglie che videro portarsi via almeno sedici figli. E che ora chiedono la revisione del processo
Sono passati quasi 20 anni dalla scomparsa di don Giorgio Govoni, il parroco molto amato in tutta la Bassa Modenese che si ritrovò ingiustamente accusato di orribili crimini, e ne morì di crepacuore.
Era il 19 maggio del 2000 quando don Giorgio, che allora aveva 59 anni, ebbe un infarto nell’ufficio del suo avvocato e morì, ucciso prima moralmente, poi fisicamente dal vento della calunnia. Si era nel pieno della tempesta giudiziaria del processo sui pedofili della Bassa, quando don Giorgio venne ingiustamente accusato di essere a capo di un gruppo di satanisti pedofili che avrebbero praticato riti satanici nei cimiteri, stuprando e uccidendo bambini. Molti di essi, almeno 16, furono allontanati per sempre dalle loro famiglie, accusate di collusione con il presunto orco.
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Il rinvio a giudizio in quel processo spezzò il cuore al parroco, che mai vide la sentenza di corte d’Appello. Quella sentenza, nel 2001, dichiarò che nella Bassa Modenese non è mai esistito un gruppo di satanisti pedofili, sentenza confermata anche nel 2002 dalla Corte di Cassazione (www.sulpanaro.net, maggio 2017).
Cercare la verità
Il 4 gennaio 2018 a Finale Emilia in un’assemblea affollatissima, dopo due decenni di silenzi dettati dal terrore («Chi aveva figli piccoli temeva che il giorno dopo avrebbero suonato alla sua porta e per questo tacevamo», dice la gente), per oltre tre ore, si sono susseguiti fatti e testimonianze.
Il silenzio è stato rotto e, per la prima volta, i protagonisti di quella vicenda hanno parlato pubblicamente, chiedendo che gli assurdi processi nei loro confronti venissero istruiti nuovamente per scovare i veri colpevoli che scatenarono quella finta, drammatica e assurda vicenda.
Il primo presunto abuso
Tutto inizia nel maggio 1997, scrive (Avvenire, 7 gennaio). All’interno di una famiglia disagiata di Finale Emilia si sospetta che siano avvenuti abusi su un bambino. Il padre e il fratello maggiore sono arrestati. Alla psicologa del servizio sociale, Valeria Donati, il piccolo inizia a raccontare alcune accuse, che con il passare del tempo diventano ricche di macabri particolari. Via via, attraverso i colloqui condotti con la tecnica del “disvelamento progressivo” (il terapeuta racconta al paziente episodi di vita personali simili a quelli presunti vissuti dal paziente), il piccolo coinvolge sempre più persone tra cui il parroco Don Giorgio.
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Legati a croci e gettati nel fiume
I bambini raccontano di altri bambini sgozzati in pieno giorno e di notte nei cimiteri della Bassa Modenese, legati a croci e accoltellati, abusati e decapitati, infine – da cadaveri – caricati sul Fiorino del parroco don Giorgio e da lui gettati nel fiume Panaro. E a compiere i riti satanici erano altri bambini, portati lì dai loro stessi genitori, che li violentavano, li inducevano a squartare, a bere il sangue delle vittime, a trovare nuovi bambini da irretire e uccidere.
Tra ghigliottine e condanne
Il tutto senza uno straccio di prova, se non i racconti dei bambini agli psicologi dei servizi sociali. Sedici verranno allontanati per sempre dalle loro famiglie.
Dal gennaio all’aprile del 1998 si svolge il primo dei processi, con sei condannati (tra questi i genitori del primo bambino coinvolto). Poi è il turno del rinvio a giudizio di don Govoni, nello sconcerto generale. Al processo si parla addirittura di una ghigliottina da lui usata nei cimiteri per decapitare i bambini. Non esiste la ghigliottina, non esistono corpi nel fiume Panaro (dove lui li avrebbe gettati), non mancano nemmeno bambini all’appello… eppure nel 2000 verrà condannato a 14 anni.
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Mai tornati alle rispettive famiglie
Negli anni successivi varie sentenze hanno corretto i macroscopici errori della giustizia, ma nessuno dei 16 figli allontanati tornerà mai in famiglia.
Durante l’assemblea a Finale è esplosa, così, tutta la rabbia dei genitori di quei bambini spariti per sempre. Federico Scotta, ad esempio, ricorda la sua vicenda personale: «A me nel 1997 hanno preso tre figli, l’ultima in sala parto, appena nata. Quello che mi tormenta è che hanno impedito ai nostri bambini di rivedersi tra loro, li hanno separati di colpo e per sempre, perché? Questo mi brucia anche più degli 11 anni di galera da innocente». Perché Scotta è tra quelli che hanno pure già scontato la pena e ora attende la revisione del processo, «per riavere indietro l’onore. I miei figli sanno ancora di avere un padre criminale».
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Disattesa la Carta di Noto
All’epoca esisteva già la Carta di Noto, che indica le modalità con cui psicologi e giudici devono raccogliere i racconti dei bambini, evitando domande suggestive (cioè che stimolano la risposta voluta), ma i consulenti della Asl di Mirandola e del Tribunale dei Minori di Modena optarono per il ‘disvelamento progressivo’.
Lo denunciò già 20 anni fa l’inviato di Avvenire a Finale Emilia, Giorgio Ferrari, biasimando questa «tecnica rozzamente induttiva (ma molto fascinosa in quanto americana) che partiva da frammenti di sogni o sensazioni per approdare gradualmente a un quadro accusatorio… Questo lo strumento che la Asl di Mirandola mise in campo per ricavare da quei bambini quella che si decise a priori essere la verità…».
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“L’abuso non lascia segni…”
I periti diagnosticarono sui bambini gravissime lesioni da violenza sessuale, ma quando i medici legali del Gip appurarono che tutti i minori erano invece illibati, l’accusa non fece una piega: ‘La verginità si ricompone’, scrisse, ‘l’abuso non lascia segni’, se non ci sono lesioni non significa che non sia avvenuto.
Un’ inchiesta podcast in sette puntate intitolata ‘Veleno‘, realizzata in tre anni di lavoro dall’inviato de “Le Iene” Paolo Trincia ha ricostruito quanto accaduto nella Bassa Modenese e a Don Govoni, il percorso giudiziario, le sentenze di primo grado rovesciate dalla Cassazione e ha raccolto gli incubi che ancora sconvolgono le menti di quei figli.