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Ratzinger eretico? Non diciamo assurdità!

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 03/01/18
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Il discepolo ed erede di Romano Amerio, Enrico Maria Radaelli, ha dedicato il suo ultimo libro alla contestazione sistematica di “Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger. Antonio Livi ha scritto una prefazione rilanciata online da Magister: di molto si può discutere ampiamente, mentre si fanno chiare parecchie cose – dall’adesione del teologo all’imbarazzante “correctio filialis” contro il Papa alla considerazione della generica avversione di certa “teologia” a tutta la viva tradizione della Chiesa (il magistero e la teologia del XX secolo sembrano piuttosto un pretesto)

Ieri è stato pubblicato su Settimo Cielo, il blog di Sandro Magister, il testo della prefazione di monsignor Antonio Livi al nuovo libro di Enrico Maria Radaelli: Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo. Il titolo scelto da Magister per la pubblicazione è quanto mai eloquente: L’eresia al potere. La tesi di Radaelli viene in estrema sintesi enunciata così da mons. Livi:

che l’egemonia (prima di fatto e poi di diritto) della teologia progressista nelle strutture di magistero e di governo della Chiesa cattolica si deve anche e forse soprattutto agli insegnamenti di Joseph Ratzinger professore, che mai sono stati negati e nemmeno superati da Joseph Ratzinger vescovo, cardinale e papa.

Immediatamente l’esimio teologo si è premurato di soggiungere, a chiarificare:

Questa tesi, che così enunciata potrebbe apparire a molti inaccettabile (mi riferisco a tutti coloro che finora avevano visto in Ratzinger come cardinale Prefetto della congregazione per la dottrina della fede e poi come papa Benedetto XVI un provvidenziale baluardo contro quella che lui stesso definiva “dittatura del relativismo”), ha una sua adeguata giustificazione scientifica nel libro di Radaelli, il quale analizza pagina per pagina il testo fondamentale di Ratzinger, quella “Einführung  in das Christentum: Vorlesungen über das apostolische Glaubensbekenntnis”, che fu pubblicata nel 1968 come rielaborazione delle lezioni di Teologia tenute nel semestre precedente dall’allora giovane professore nell’Università di Tubinga ed ha avuto nel testo originale ben ventidue edizioni, l’ultima nel 2017.

Un passaggio quanto mai utile a ricordare che la leggenda nera di Ratzinger “pastore tedesco” della fede è un surrettizio sistema di calunnia imbastito nei decenni scorsi contro un uomo la cui mitezza è pareggiata in lui solo dall’erudizione e dalla pietà. Officiali della Congregazione per la Dottrina della Fede mi hanno raccontato personalmente di processi ad alcuni autori che duravano molto di più di quanto ci si sarebbe aspettato perché “il Cardinale” rimandava di settimana in settimana la sentenza aggiornando le sedute e chiedendo nuove delucidazioni, riflessioni, preghiere… Un giorno qualcuno racconterà la storia di “Joseph Ratzinger, l’inquisitore dal cuore d’oro”. Quel giorno però non è oggi: ciò che si racconta oggi è la fandonia di “Ratzinger, eretico dissimulato”. A prima vista, dunque, sembrerebbe che il discorso infamante sostenga e comprovi quello encomiastico – un po’ come Ebeneezer Scrooge lodava Jacob Marley per il suo spregiudicato operare a discapito di orfani e vedove –: per non cadere fin da subito in tanto semplicistico manicheismo bisogna ricordare che conclamati modernisti come Hans Küng hanno sempre additato – e tuttora additano! – in Ratzinger/Benedetto XVI l’acme del conservatorismo. Non di rado nelle scienze ecclesiastiche il fuoco incrociato subito da una teoria o da una persona è un buon (benché rudimentale) criterio di discernimento della bontà delle stesse. L’occasione data dal libro di Redaelli, però, consiglia riflessioni più profonde ed estese. Una prima impressione possiamo ricavarla dalla reazione a caldo condivisa da Massimo Introvigne su Facebook:

Interessante intervento di don Antonio Livi, che è il vero maître à penser di chi gestisce la Bussola e altre pubblicazioni ostili a Papa Francesco, dove si accusa di eresia anche Benedetto XVI – e pure Giovanni Paolo II non se la passa troppo bene, soprattutto perché era troppo amico degli Ebrei. Un testo molto, molto importante per capire l’ideologia soggiacente alle campagne contro Papa Francesco, i cui teorici più influenti – che non sono necessariamente quelli che appaiono più spesso – non sono affatto nostalgici di Benedetto XVI ma accusano di eresia globalmente tutti i Papi post-conciliari (alcuni di loro, per la verità, non amano neppure Pio XI e Pio XII, per cui l’ultimo Papa “sicuro” sarebbe stato Pio X, che veniva peraltro dopo un altro Pontefice di cui diffidano, Leone XIII). Come mi è capitato di scrivere altre volte, questi sono i veri leder della rivolta contro Francesco e gli ingenui che rimpiangono Benedetto XVI sono solo carne da cannone per battaglie di cui non conoscono i generali.

Introvigne è un sociologo, è vero, ma è pure un sociologo delle religioni – e uno dei più accreditati al mondo –, nonché un uomo che per i propri trascorsi personali ha avuto modo di familiarizzarsi a fondo con le tematiche teologiche, e che dunque non è costretto a giudicarle da fuori (a differenza di quanto invece moltissimi altri devono fare). Senza entrare nel merito delle valutazioni sulle singole testate giornalistiche che Introvigne include nelle «campagne contro Papa Francesco», trovo senza dubbio condivisibile questo punto:

  1. i nemici di Papa Francesco storcevano il naso anche nei pontificati precedenti;
  2. per ogni Papa postconciliare hanno sempre richiamato le parole di Paolo VI sul “fumo di satana” entrato nella Chiesa (unica citazione montiniana a loro gradita, peraltro prontamente ritorta contro il suo autore);
  3. quando si gratta sotto al loro millantato apprezzamento per Pio XII (difficile sottrarsi al fascino magnetico di un uomo tanto ieratico e statuario) e se ne saggia la reale consistenza li si trova o impreparati o estremamente critici su documenti come Divino afflante Spiritu, Mystici corporis e altri;
  4. poiché quei documenti di Papa Pacelli furono solo gli ultimi e manifesti ritocchi preparatori al grande evento ecclesiale del Concilio Vaticano II, i suddetti critici storcono il naso ancora di più quando si risale a Pio XI, alla sua Quadragesimo anno e alla sua Casti connubii.

Dunque qual è il Papa che va bene, a costoro? Risponderei: nessuno. A parole, forse, Pio X (come suggerisce Introvigne), ma Papa Sarto è da costoro apprezzato soprattutto per alcune sue sofferte opposizioni dialettiche alle derive moderniste di certi teologi, quali l’enciclica Pascendi, e non posso trattenermi dal pensare che anche lui – uomo mite che da Patriarca di Venezia andava volentieri a visitare il manicomio in abito corale per rallegrare i pazzi con lo spettacolo della porpora («ghe piase el rosso»: spiegava ai suoi…) – attirerebbe rapidamente alti lai da parte di certi malpancisti di mestiere, il sacramento della cui religione sembrerebbe essere la bile.

Questo però non lo direi di mons. Antonio Livi, del cui erudito equilibrio ho sempre avuto un’alta stima: ciò non mi ha impedito di considerarlo, tempo fa, come la lussuosa foglia di fico che i 62 firmatari della c.d. “correctio filialis” erano riusciti a procacciarsi. Il libro di Redaelli non l’ho ancora letto, dunque non possiamo parlare qui dell’ultimo lavoro di questo figlio di Romano Amerio. Diremo invece alcune cose di ciò che scrive Livi. Quanto ad Amerio e in generale alla sua “scuola”, vale la pena di riportare un molto istruttivo passaggio di una rassegna bibliografica pubblicata su unavox.it. Vi si commentano le due introduzioni, pubblicate rispettivamente da Fede e Cultura e da Lindau, di mons. Luigi Negri e del card. Castrillon Hoyos:

Iota unum come strumento per «attuare il progetto del Papa di leggere una continuità sostanziale tra il magistero e la teologia prima del concilio, il concilio e il post-concilio» (come scrive Mons. Luigi Negri nella prefazione all’edizione dell’editrice “Fede e Cultura”), o Iota unum come strumento per «discernere e ammirare l’inalterabile identità della nostra Chiesa, il perdurare di ciò che la definisce. Conosciamo la sua identità e la sua unità nella sua diversità» (come scrive il Card Castrillon Hoyos nella prefazione all’edizione dell’editrice “Lindau”) ?

Per certi aspetti le due espressioni si assomigliano; entrambe pongono l’accento sulla possibilità che offrirebbe Iota unum di costruire un quadro complessivo in cui rientrerebbero coerentemente e organicamente gli insegnamenti di sempre e quelli nuovi sortiti dal Concilio, un quadro che descriverebbe così al meglio il multiforme volto della Chiesa.

La differenza sta nel fatto che Mons. Negri privilegia la lettura a posteriori del Concilio in chiave di sopraggiunta necessità della individuazione della continuità con la Tradizione, mentre il Card. Castrillon mette in primo piano la multiforme difformità detta a priori “ricchezza delle sue [della Chiesa] policrome manifestazioni”.

Non è nostra intenzione mancare di rispetto a nessuno, ma abbiamo l’impressione che i due prelati non abbiano mai letto Iota unum

È più probabile, in effetti, che lo abbiano letto e che abbiano cercato di salvare il salvabile, cioè di indirizzare il lettore verso uno sforzo ermeneutico che abbracci tutto il secolo XX (giusto nel 1918, cento anni fa, veniva pubblicato per la prima volta Lo spirito della liturgia di Romano Guardini!) e si sforzi di leggere ogni passaggio come snodo – sia pur non necessariamente positivo – di uno sviluppo organico. È più probabile, sì, ma nello specifico hanno ragione i redattori di unavox: quello di cui parlano Negri e Hoyos non è lo spirito di Iota unum, né quello di Romano Amerio e della sua scuola.

Ora, non si parla di Amerio ma di Radaelli, anzi neppure di costui bensì di Livi, però non è per presentare agli uni i conti degli altri che abbiamo citato quella istruttiva e franca rassegna di unavox, bensì per ricordare che la questione delle attuali diatribe ecclesiali non si estingue nel rapporto col presente pontificato, come alcuni divulgatori vorrebbero lasciar intendere – quella è propaganda, come suggerisce Introvigne, utile a mobilitare la “carne da cannone” (oggi surrogata perlopiù dai “leoni da tastiera”) –: la questione è proprio quella dell’unità ermeneutica della teologia cattolica nel corso del XX secolo, e stavolta viene svolta proprio a partire dagli scritti di un suo indiscusso protagonista. Appunto, Joseph Ratzinger.

Quell’Introduzione al Cristianesimo, che piacque tanto al Papa polacco da meritare all’arcivescovo di München la nomina al vertice della prima Congregazione della Curia Romana, porta in effetti in sé una prima lettura accademica dei documenti del Vaticano II (dove il giovane Ratzinger s’era distinto come consulente teologico del card. Joseph Frings), sostanziata al fuoco delle più antiche fonti patristiche e vagliata alla prova della critica moderna. Quel testo non ha avuto 22 edizioni (senza contare le traduzioni) perché era di Ratzinger: Ratzinger è stato riconosciuto il gigante che è proprio a partire da quel testo. Dunque varrà sicuramente la pena, per ogni appassionato di teologia, di cimentarsi con la serrata critica di Radaelli. Certo la tesi è ardua, a quanto sintetizza Livi:

è una teologia di stampa [sic!] immanentistico, nella quale tutti i termini tradizionali del dogma cattolico restano linguisticamente inalterati ma la loro comprensione è cambiata: messi da parte, perché ritenuti oggi incomprensibili, gli schemi concettuali propri della Scrittura, dei Padri e del Magistero (che presuppongono quella che Bergson chiamava “la metafisica spontanea dell’intelletto umano”), i dogmi della fede sono re-interpretati con gli schemi concettuali propri del soggettivismo moderno (dal trascendentale di Kant all’idealismo dialettico di Hegel). A farne le spese – osserva giustamente Radaelli – è soprattutto la nozione di base del cristianesimo, quella di fede nella rivelazione dei misteri soprannaturali da parte di Dio, ossia la “fides qua creditur”. Questa nozione risulta irrimediabilmente deformata, nella teologia di Ratzinger, dall’adozione dello schema kantiano dell’impossibilità di una conoscenza metafisica di Dio, con il conseguente ricorso ai “postulati della ragione pratica”, il che comporta la negazione delle premesse razionali della fede e la sostituzione delle “ragioni per credere”, che costituivano l’argomento classico dell’apologetica dopo il Vaticano I (Réginald Garrigou-Lagrange) con la sola “volontà di credere”, che fu teorizzata dalla filosofia della religione di stampo pragmatistico (William James).

Ora, mentre non riesco a rintracciare le vestigia di William James in Introduzione al cristianesimo, ricordo agevolmente che Ratzinger annoverò Kant tra i fautori di quel radicale mutamento di Weltanschauung, tipico della modernità, che non va respinto in toto – perché esprime «tratti essenziali della fede più o meno trascurati in altre costellazioni» (p. 60) – ma neppure abbracciato ingenuamente:

Per quanto occorra andare adagio con i giudizi perentori e sbrigativi, resta però d’obbligo il monito a guardarsi da cortocircuiti. Qualora i due tentativi citati [verum quia factum e verum quia facendum, N.d.R.] diventino esclusivi e situino la fede totalmente sul piano del factum o del faciendum, finiscono per nascondere il genuino significato di ciò che una persona intende quando dice «Credo».

Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 61

E cosa s’intende quando si dice “io credo”? Mons. Livi scrive:

Ratzinger ha sempre sostenuto, anche nei discorsi più recenti, che l’atto di fede del cristiano ha come suo specifico oggetto, non i misteri rivelati da Cristo ma la persona stessa di Cristo, conosciuto nella Scrittura e nella liturgia della Chiesa.

E davvero vorrei che Livi ci spiegasse meglio in cosa una simile impostazione – in cui si riverberano l’αὐτοβασιλεία di Origene, lo Iesu dulcis memoria da alcuni attribuito a San Bernardo di Chiaravalle e l’Adoro te devote comunemente ricondotto a San Tommaso – inclinerebbe al pensiero debole. L’insistenza sulla rilevanza personale di Cristo nell’atto salvifico e nella fede individuale non attenua, ma anzi fonda e sostanzia, la carica magistrale del Messia. Si resta poi a bocca aperta quando si vede la citazione dalla Prefazione alla prima edizione che Livi palesemente distorce fino a farle dire esattamente il contrario di ciò che espressamente Ratzinger afferma:

E il povero Gianni [ci si riferisce alla storiella nota come “la fortuna di Gianni”, N.d.R.] – nel nostro caso il cristiano – che fiduciosamente si era lasciato trascinare di scambio in scambio, d’interpretazione in interpretazione, non rischierà forse di finire davvero presto con l’avere in mano, al posto dell’oro con cui aveva incominciato, soltanto una inutile cote, che gli si può allegramente consigliare di gettar via?

J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 26

Ratzinger descriveva la parabola discendente di certa teologia contemporanea con quella del contadino che baratta un mucchio d’oro con oggetti per certi aspetti più vantaggiosi ma via via meno preziosi e sempre più inutili… come si fa a dire che «la teologia di oggi, secondo Ratzinger, non riesce a parlare della fede se non in termini ambigui e contraddittori» (Livi)?

Seguono argomenti ad personam che suonano tanto imbarazzanti in mons. Livi quanto desterebbero poco stupore in polemistica di bassa lega: un capo d’accusa per Ratzinger sarebbe l’uso di espressioni comuni anche a Carlo Maria Martini (questa è citata dal testo: il prefatore aggiunge che i due concordavano con Gianni Vattimo). Di surrealismo in surrealismo, Livi giunge a individuare tracce di pensiero debole nell’invito di Ratzinger agli intellettuali non credenti:

Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno.

Per il monsignore questo significherebbe appropriarsi dell’assunto kantiano del postulato pratico dell’esistenza di Dio, e non invece invitare gli interlocutori non credenti alla pratica di una vita buona, cioè a quella che può purificare la coscienza e, conseguentemente, l’intelletto e la volontà: a me sembra che proprio questo si trovi nelle definizioni del Vaticano I, da Livi più volte richiamato. Proprio il domenicano Réginald Garrigou-Lagrange, che il monsignore cita come autorità a sostegno della propria posizione, scriveva riguardo al Vaticano I:

Un Padre del Concilio chiese [si discuteva la stesura della costituzione dogmatica Dei Filius, N.d.R.] che al verbo “dimostrare, demonstret”, che suppone che la ragione parta da principî di cui percepisce la verità per sua propria luce, si sostituisse il verbo “provare, probet”, che non lo suppone.

Dopo aver riportato che «il suo emendamento fu respinto dal Concilio», il Domenicano proseguiva riportando la risposta di mons. Pie:

Se anche non si dimostra la verità intrinseca della fede, se ne possono senza alcun dubbio dimostrare, in un certo senso, i fondamenti […].

E correttamente, a pie’ di pagina, spiegava:

“In un certo senso” non significa che la dimostrazione non è rigorosa: vuol dire che i fondamenti della fede in un certo senso si dimostrano, mentre in un altro non si dimostrano, ma sono creduti per via soprannaturale. Il fatto della Rivelazione si dimostra in quanto è soprannaturale quoad modum (come un intervento miracoloso di Dio), ma non in quanto soprannaturale quoad substantiam: da questo punto di vista è motivo formale della fede soprannaturale quoad substantiam e oggetto di fede.

Réginald Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, 30 passim

E giù citazioni di san Tommaso e del Caetano come se piovesse… Del resto era stato proprio il Doctor Angelicus a illustrare nel primo articolo della Summa Theologiæ che la teologia non è una scienza teoretica, bensì pratica: se così non fosse neppure si spiegherebbe l’epica soprannaturale della Divina Commedia, di poco posteriore alla grande lezione di Tommaso, e come Dante si disponga alla visione beatifica, cui non l’aveva portato un’impareggiata erudizione, attraverso una lunghissima e dettagliata revisione etica – personale e universale.

Tuttavia si trova in Henri De Lubac il grande autore a cui si deve far riferimento per comprendere a fondo Ratzinger (qui Livi non fa onore a sé stesso, liquidando un simile colosso come “importante esponente della teologia progressista” – che Giovanni Paolo II avrebbe fatto male a creare cardinale, peraltro…): nella sua celebre Méditation sur l’Église, il gesuita patrologo spiegava come la fede vivesse sempre nella tensione di essere

ecclesiale nel suo modo (se così si può dire), ma teologale nel proprio oggetto come nel proprio principio.

Henri De Lubac, Méditation sur l’Église 25

Come sia possibile tacciare di “riduzione antropologica” e di soggettivismo idealistico autori tanto chiari e netti nel ribadire continuamente il primato di Dio – questa è cosa che sfugge alle mie facoltà. Mi pare anzi utile riportare il paragrafo appena superiore, per capire cosa Ratzinger ammiri in quello che ha sempre dichiarato essere il proprio maestro:

Attraverso esitazioni e ripensamenti di cui testi greci e traduzioni latine portano la traccia – raramente una nuova idea si libra in una formula subito ben fissa – «sempre più credere in diventa l’espressione abituale per designare l’atto di fede cristiano». Il fatto è che il senso che mano a mano prende suppone una rivelazione di Dio riguardo a Sé stesso, rivelazione che culmina in Cristo, e suggerisce un’attitudine dell’anima che risponde a questa rivelazione – l’una e l’altra sconosciute nel mondo antico. Sebbene le due parole di credenza e di fede, nella nostra lingua corrente, servano ugualmente da sostantivo al verbo “credere”, e quantunque possano essere impiegate come sinonimiche, la seconda è capace di evocare in alcuni casi un atto più profondo del primo. Più profondo e di un’altra natura. Il soggetto s’impegna più nella sua fede che in una semplice credenza. Perché si può credere a tante cose: ma non si dà, in senso proprio, la propria fede, se non a qualcuno. Si può anche credere a degli esseri personali, cioè credere alla loro esistenza: così si parlerà della credenza negli angeli; ma la fede, nel senso più forte del termine, non s’indirizza che a Dio, ed è questo tipo di fede che si traduce nell’espressione “credere in”.

Ibid.

Si fa fatica a tornare nell’acquitrino ristagnante di certi veleni, dopo aver assaporato gli insegnamenti di cotanti maestri… Davvero a leggere certa “teologia” fatico a riconoscere i tratti del cristianesimo (almeno per quanto lo conosco io). Ma perché non si dica che sto qui a difendere gli eretici (Ratzinger) con gli scritti degli eretici (De Lubac), mi piace chiudere con una delle ultime osservazioni del già ricordato padre Garrigou-Lagrange, contenuta proprio in una delle ultime pagine di Dieu, son existence et sa nature – opera che nel 1919 ricevette la benedizione di Papa Dalla Chiesa, quello di cui Papa Ratzinger volle riprendere il nome… –:

Vorremmo poterci collocare in un’atmosfera tutta soprannaturale, per meditare fuori dallo strepito delle dispute il senso profondo delle parole divine. Le dottrine teologiche più elevate non agiscono veramente sul nostro spirito che se il Maestro interiore apre la nostra intelligenza, rischiara e istruisce i nostri cuori. Egli solo può concederci di comprendere in tutta la loro profondità le parole che ha dettato: «Senza di me non potete fare niente». Noi non siamo capaci, da noi stessi, di formare – come se venisse da noi – neanche il più piccolo pensiero utile alla salvezza. È Dio solo che opera in noi il volere e l’operare, secondo il suo beneplacito.

Chi ti distingue dagli altri? Che cos’hai, tu, che tu non abbia ricevuto?

R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature 847

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