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Perché l’impotenza impedisce il matrimonio?

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Toscana Oggi - pubblicato il 29/12/17
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La dimensione fisica è una componente imprescindibile?

Diversi anni fa ho letto sui giornali che il vescovo di Viterbo avrebbe negato a una coppia di fidanzati la possibilità di sposarsi in chiesa, dopo che lui è rimasto invalido per un incidente. Come si spiega una decisione di questo tipo? L’amore e la volontà delle due persone non dovrebbe essere superiore a qualsiasi questione fisica? La vicenda mi lascia molto perplessa, ma prima di esprimere qualsiasi giudizio vorrei che qualcuno mi aiutasse a capire di più.
Laura – Firenze

Risponde padre Francesco Romano, docente di Diritto Canonico

La notizia che il Vescovo di Viterbo non ha ammesso alla celebrazione del sacramento del matrimonio una coppia di fidanzati, essendo l’uomo divenuto impotente a seguito di un incidente stradale che lo ha reso paraplegico, ha provocato una reazione sdegnata che si è levata da diversi ambiti dell’opinione pubblica, stimando fredda e disumana questa decisione presa dall’autorità ecclesiastica. Comprendiamo, pertanto, la perplessità che la nostra lettrice ci ha manifestato. La nostra chiarificazione, richiesta dalla lettrice, prende come punto di partenza proprio la motivazione che lei ha addotto per obiettare sull’operato del Vescovo di Viterbo: «l’amore e la volontà delle due persone non dovrebbero essere superiori a qualsiasi questione fisica?».

Il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes (GS), definisce il matrimonio come «intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniugale vale a dire dall’irrevocabile consenso personale» (GS 48, 1).

L’amore naturale che attrae e suscita sentimenti di affetto è una realtà psicologica molto importante, potremmo dire previa, ma indeterminata, non qualificabile né quantificabile. Il matrimonio, infatti, nasce e si fonda non su un generico sentimento mutevole, ma sul consenso come atto di volontà che due persone si manifestano. Si tratta di un patto irrevocabile che ha per oggetto la reciproca accettazione e donazione dei coniugi per costituire il matrimonio (can. 1057). In altre parole, il matrimonio non può dipendere soltanto da un sentimento naturale come l’amore, assai mutevole e imprevedibile per sua natura. La volontà coniugale, invece, da cui promana il consenso, è il punto limite in cui l’amore naturale si specifica in amore coniugale. Per questo il matrimonio sopravvive nella buona e nella cattiva sorte, anche se l’amore naturale dovesse dissolversi del tutto.

Per i cristiani, inoltre, questo patto è un sacramento che rende gli sposi segno e partecipazione «al mistero di unità e di amore fecondo tra Cristo e la Chiesa» (can. 1063). La reciproca donazione degli sposi diviene, così, un atto di rendimento di culto perfetto. Attraverso il patto coniugale, gli sposi manifestano il loro consenso, cioè la volontà di «instaurare il consorzio di tutta la vita, ordinato per sua natura al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole» (can. 1055). Questo «consorzio» come atto volontario, che lo distingue dall’unione di fatto, non ha soltanto un’estensione temporale, ma esprime il totale coinvolgimento dei due coniugi in tutte le loro dimensioni comunicabili, sia sul piano psicologico che fisico, fino a diventare «una sola carne» in modo irreversibile fino alla morte.

A proposito della dimensione fisica del matrimonio, l’impotenza copulativa (coeundi) è una circostanza che investe la persona nella sua capacità di realizzare l’unione sessuale coniugale.

Essa è detta anche legge inabilitante perché dichiara non abile a contrarre il matrimonio la persona di entrambi i sessi che si trova in tale situazione, essendo un impedimento dirimente che, appunto, rende nullo l’eventuale matrimonio. Così recita il can. 1084: «L’impotenza antecedente e perpetua a compiere la copula, sia da parte dell’uomo che della donna, tanto assoluta che relativa, rende nullo il matrimonio per sua stessa natura». Cosa sia, poi, la copula coniugale, lo definisce il can. 1061: «[…] se i coniugi hanno compiuto tra loro, in modo umano, l’atto coniugale idoneo per sé alla generazione della prole, al quale il matrimonio è ordinato per sua natura, e per il quale i coniugi diventano una sola carne».

Da quanto si è detto, gli sposi non possono modificare i termini del contratto, né l’autorità ecclesiastica dispensare da ciò che è costitutivo del matrimonio per diritto naturale. La copula coniugale, infatti, è richiesta dalla natura stessa del matrimonio, quale istituzione naturale connessa alla natura sessuata dell’uomo, «fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie» (GS 48, 1). Il significato della consumazione emerge anche dagli effetti che essa produce nei confronti del matrimonio rato. È a tutti noto, infatti, che solo dopo la consumazione il sacramento del matrimonio diventa indissolubile da non poter essere sciolto da alcuna potestà umana né per alcuna causa, eccetto la morte (can. 1141).

La reciproca accettazione e donazione, che è l’oggetto del consenso coniugale, coinvolge l’intera persona degli sposi in ogni loro dimensione, inclusa quella sessuale, specificando in tal modo la differenza da qualsiasi altro tipo di unione che non sia il matrimonio, quale consorzio di tutta la vita e per il quale non sono più due, ma «una sola carne». L’incapacità ad effettuare la copula coniugale impedisce, inoltre, di assumere gli atti idonei alla generazione della prole alla quale per sua natura il matrimonio è ordinato.

La capacità dei coniugi di porre atti veramente coniugali, cioè di per sé idonei alla procreazione, rientra nell’oggetto essenziale del consenso, non può ricevere dispensa, né il coniuge ha facoltà di rinunciarvi spontaneamente. Un volta che l’azione umana ha posto la copula coniugale in modo conforme alla natura del matrimonio, il suo eventuale esito infruttuoso dipende soltanto dall’azione della natura e non incide sull’idoneità degli sposi a vivere tutte le dimensioni della vita coniugale.

Riguardo alla procreazione, i coniugi hanno diritto soltanto a quegli atti dai quali normalmente deriva il concepimento anche se a volte esso non si verifica per circostanze indipendenti dalla loro volontà. Pertanto, a differenza dell’impotenza copulativa, la sterilità (impotentia generandi) non rende nullo il matrimonio (can. 1084), a meno che non sia stata nascosta al futuro coniuge in modo doloso (can. 1098). Così si esprime, infatti, il Concilio Vaticano II: «Il matrimonio, tuttavia, non è stato istituito soltanto per la procreazione, ma il carattere stesso di patto indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come consuetudine e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità» (GS 50, 7).

Qualcuno potrebbe obiettare circa il matrimonio degli anziani. Ovviamente, su questo punto si presume che, nonostante l’età, ancora si sia conservata la capacità copulativa. È solo quando l’impotentia coeundi risulti certa che il matrimonio non può essere autorizzato (can. 1084), come nel caso della decisione presa dal Vescovo di Viterbo. Stante il dubbio, invece, non può essere preclusa la strada alla celebrazione del matrimonio, che prevale come diritto naturale di cui gode ogni persona, ma se il dubbio si trasforma in certezza, quel matrimonio è nullo in forza della legge inabilitante che ha per oggetto l‘impotentia coeundi (can. 1084), mai dispensabile da alcuna autorità umana essendo legge di diritto naturale.

Pertanto, la dimensione fisica è una componente imprescindibile perché rientra nella struttura naturale del matrimonio e ne permette la realizzazione secondo il disegno divino, principalmente per quanto attiene al divenire «una sola carne» attraverso la reciproca e totale donazione e accettazione dei coniugi. Tutto questo in sintonia con il significato dell’amore coniugale che abbraccia l’intera persona del coniuge al quale si indirizza.

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