E la Chiesa cosa pensa della questione “Gerusalemme capitale”?A Giungo di questo stesso anno, quindi circa sei mesi fa, il SIR, chiedeva all’amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, quale sarebbe stato – a suo giudizio – l’impatto di una possibile scelta di Trump di muovere l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. La risposta è stata netta “Sarebbe come mettere un cerino dentro una tanica di benzina”.
Quali sono invece i rapporti tra la Chiesa e Israele?
Pizzaballa diceva, circa il secondo punto della questione, che “ci sono due aspetti da considerare: quello del negoziato tra Stato di Israele e Santa Sede e quello della vita ordinaria della Chiesa locale”. “Circa il concordato che definirà dal punto di vista legale il futuro della Chiesa in Israele, esso è in dirittura d’arrivo. La firma potrebbe arrivare entro quest’anno. Poi bisognerà interpretare l’accordo”. Attualmente la situazione è che:
Per quel che riguarda la vita ordinaria della Chiesa locale non c’è alcun atteggiamento di Israele. Praticamente non esistiamo. Guardiamo alle scuole: si concedono contributi agli istituti privati meno che a quelli cristiani e, comunque sia, sempre in misura minore che in passato. Come cristiani dobbiamo essere più presenti nel territorio, non possiamo solo lamentarci.
Compito della Chiesa è costruire relazioni sempre più positive con Israele per far capire che siamo una realtà del territorio con cui devono fare i conti. Purtroppo molto spesso le scelte che vengono fatte non ci tengono in nessuna considerazione.
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Circa la questione “Gerusalemme capitale”, la Santa Sede non ha competenza per trattare tali questioni, che devono essere oggetto di negoziati bilaterali tra Israeliani e Palestinesi e che dovrebbero essere risolte equamente e sulla base di Risoluzioni delle Nazioni Unite.
In particolare, la Santa Sede appoggia pienamente la posizione della Comunità Internazionale circa la situazione “de facto” dopo il 1967 (es: Risoluzione 478m del 28 agosto 1980, che dichiarò la “basic law” israeliana circa Gerusalemme “nulla e invalida”) (Sismografo, 28 luglio 2017).
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La “dottrina” Trump per il Medio Oriente
Chiaramente quella prospettata dal Presidente Trump è una possibilità concreta, oltretutto auspicata da anni dal Congresso americano molto sensibile alle pressioni congiunte tanto della lobby ebraica americana, quanto delle chiese evangeliche più vicine al sionismo e che anzi vedono in un Israele solidamente “ebreo” un segno messianico della fine dei tempi.
In questo contesto di pressioni americane, di assenza di dinamismo nei colloqui di pace tra Israele e Autorità Palestinese, la Santa Sede ha sempre mantenuto un profilo di mediazione, conscia del ruolo cruciale che Gerusalemme ha per tutte le religioni abramitiche, così come degli sforzi – come diceva Pizzaballa – di mantenere la piccola minoranza cristiana (e cattolica in particolare) nelle condizioni di rimanere in Terra Santa. Papa Francesco ospitò l’ex presidente israeliano Peres e l’attuale presidente palestinese Abbas nel 2014. I cattolici d’altro canto sono contrari al muro di separazione tra Israele e territori palestinesi in maniera non dissimile da quanto accade tra Usa e Messico, altro punto che allontana Trump da Francesco, assieme ai punti principali delle rispettive agende.
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Nella politica americana il sogno di ogni presidente è quello di risolvere la questione israelo-palestinese. Chi ci riuscisse passerebbe ovviamente alla storia, e gli Stati Uniti recupererebbero molto del loro antico status di “leader del mondo libero”. Ma finora l’idea era quella di sancire la nascita di “due popoli, due stati”, l’iniziativa di Trump è rischiosa:
Con l’eccezione di Egitto e Giordania, il cui trattato di pace con Israele è ancora in vigore, tutti gli altri paesi arabi non riconoscono Israele come Stato. La decisione di Trump, sempre che non faccia marcia indietro, rischia così di essere interpretata come una provocazione inaccettabile dai paesi arabi che sostengono la causa palestinese, ma anche da gran parte dei Paesi della comunità internazionale, le cui ambasciate si trovano a Tel Aviv proprio per evitare di impantanarsi in una questione tanto delicata quanto esplosiva (Sole 24 ore, 4 dicembre)
In un contesto complicato, dove tra rivoluzioni, guerre civili, Daesh, conflitto iracheno, tutta l’area è una polveriera che tenta di stabilizzarsi. Gli USA in questo contesto sono stati tanto causa dei conflitti quanto attori nel tentativo di stabilizzare la regione. Nel frattempo i due arcinemici regionali (Iran e Arabia Saudita) hanno tentato di estendere le proprie aree di influenza ma pur se da fronti opposti (l’Iran è vicina alla Russia, i sauditi agli americani) potrebbero trovare un punto di contatto contro un accordo che veda una Gerusalemme indivisa capitale del solo stato di Israele? E gli altri paesi della regione guarderebbero senza fiatare a questa trasformazione simbolica senza precedenti? Vedremo intanto se Trump sarà conseguente o meno con la sua dichiarazione…
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Nel frattempo Papa Francesco ha sentito il leader palestinese Mahmoud Abbas su iniziativa di quest’ultimo, è quanto si apprende dalla Sala Stampa Vaticana, a riferirlo è il portavoce della Santa Sede Greg Burke, mentre è confermato che Il Presidente degli Stati Uniti, Trump, annuncerà oggi Gerusalemme quale capitale di Israele, con lo spostamento, entro sei mesi, dell’ambasciata Usa da Tel Aviv nella Città Santa (Radio Vaticana, 6 dicembre). Dal canto suo il Pontefice, a margine dell’udienza di oggi, ha detto: “Non posso tacere la mia profonda preoccupazione per la situazione che si è creata negli ultimi giorni e, nello stesso tempo, rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite” (SIR, 6 dicembre).
Aggiornato al 6 dicembre ore 10:53