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Il “sola Scriptura” non sta nella Scrittura. Forse l’errore fondamentale di Lutero

Sello postal Martin Lutero en el V Centenario de la Reforma Protestante. ©UFFICIO FILATELICO E NUMISMATICO GOVERNATORATO - CITTÀ DEL VATICANO.

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 09/11/17
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«La mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio» è frase così alta e preziosa che ogni cristiano dovrebbe pregare di poterla dire, un giorno, col cuore pacificato. La creazione però di un “canone nel canone” dà adito al sospetto che in realtà fosse la Scrittura a ritrovarsi prigioniera della coscienza del teologo agostiniano.

Quando si parla di Lutero e di protestantesimo – e in quest’anno lo si è fatto fin troppo (come però era pure doveroso, in fondo) – è difficile delimitare l’ambito degli argomenti da affrontare: che sia stato un riformatore o un rivoluzionario, il raggio degli effetti prodotti dalle sue azioni è stato tanto vasto e tanto profondo che pretendere di raccoglierne i contenuti essenziali in un’unica opera – fosse anche un grande simposio – è puro velleitarismo. Quanto più tale considerazione deve valere per i libri, per i saggi, per i singoli articoli, che pure talvolta si leggono imbastire ardite analogie tra monaci del XVI e dittatori del XX secolo, per non citare che gli esempi più emblematici.

Alla ricerca dei presupposti per un giudizio storico sereno

Insomma, dire chi fu e cosa fece Lutero è cosa tutt’altro che banale ma, sebbene il giudizio (secolare) complessivo debba necessariamente venire dalla storia, spetta pur sempre a noi apporre qualche tassello alla lenta e graduale costruzione dei presupposti di quello stesso giudizio. Quando su queste stesse pagine abbiamo parlato della leggenda agiografica che (ancora oggi!) insiste col reiterare la favola di Lutero che affigge le tesi al portone della Schloßkirche di Wittenberg, alcuni hanno sostenuto che noi si fosse un po’ troppo teneri con l’agostiniano ribelle. La cosa ci ha dapprima stupiti, ché non ci pareva simile a uno sbuffo d’incenso, la distruzione storiografica della leggenda aurea del santo fondatore (oh, anche i protestanti venerano i loro santi, eccome!); considerando le cose con più attenzione, però, bisogna pur dire che non avevamo un motivo per essere duri con il testo delle 95 tesi. Libere e lecite critiche, formulate in latino perché alimentassero un positivo dibattito ecclesiale, in gran parte sono peraltro condivisibili e valevano da cartina di tornasole di certe sclerosi di quella che andava a diventare la “seconda scolastica”. Perfino dove le tesi volavano un tantino sopra le righe o dove si esponevano a veri errori, il contesto ricordava che dall’altra parte gli eccessi erano non meno vistosi e gravi.


MARTIN LUTHER,REFORMATION,95 THESES
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Era il 1517 e la riforma non era ancora avviata: Lutero era un monaco non più bizzoso di molti altri e sul trono di Pietro sedeva uno dei più corrotti successori del Pescatore. Nessuno è perfetto. La stessa questione delle indulgenze, infatti, cioè la più affine alle malversazioni ecclesiastiche, era stata indicata come problematica solo sul versante dottrinale, dal Caetano: l’illustre domenicano non si sarebbe mai sognato di difendere l’indifendibile propaganda che alcuni predicatori praticavano a mezzo di terrorismo psicologico; egli insisteva però sul fatto che un “tesoro dei meriti di Cristo e dei santi” esiste eccome, e che la communio sanctorum riguarda veramente anche (e anzi, primariamente) quelle realtà mistiche. Spingeva l’affondo fino a dire che negare questo significava fondare un’altra Chiesa. Questo il De Vio lo disse apertamente al giovane agostiniano durante il loro colloquio, che prese due giorni della metà di ottobre del 1518: fu un colloquio aperto e conciliante – il Cardinale aveva promesso al principe Federico di Sassonia che avrebbe trattato Lutero “da padre e non da giudice”, e così fece, anzi furono i consulenti che Lutero s’era portato dietro a restare impressionati dall’acume e dall’intelligenza del domenicano (l’agostiniano ebbe la sua “rivincita” quando potè correggere al primo una citazione errata della bolla Unigenitus di Clemente XI).

Come distinguere tra riforma e rivoluzione?

Ora, ultimamente si fa un gran discutere se Lutero sia stato o meno un riformatore, ovvero se sia stato o meno un rivoluzionario. A me sembra che proprio quella frase di Tommaso De Vio al giovane Lutero renda conto, ancora oggi, di come già all’epoca un occhio lucido e intelligente fosse capace di distinguere analiticamente ciò che avrebbe potuto portare a una “riforma” qualitativamente dissimile non solo da quella di san Francesco, ma anche da quella di “eretici” come Jan Hus.



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Nella mia (modestissima) opinione, l’argomento dirimente che il cammino ecumenico si troverà a dover affrontare sul tavolo dei lavori di composizione teologica è quello del canone scritturistico, che spesso si tralascia o si annovera quasi al rango di “preferenza editoriale” di Lutero. No: l’opzione per l’hebraica veritas nel XVI secolo non è paragonabile a quella di Girolamo nel IV – anche perché lo Stridonense ne faceva una questione esclusivamente ermeneutica, non canonica. Per di più la scelta di Lutero avrebbe comportato la formazione di un “canone nel canone” destinato a gettare un triste sospetto sulla bellissima risposta che il monaco diede a Carlo V nel contesto della Dieta di Worms del 1521: «La mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio» è frase così alta e preziosa che ogni cristiano dovrebbe pregare di poterla dire, un giorno, col cuore pacificato. Ma che non basti dirla, una simile frase, perché essa sia verace e veritiera, lo prova lo stesso Lutero: i suoi famosi capisaldi – “sola fide”, “sola gratia”, “sola Scriptura” – non possono infatti in alcun modo essere provati dalla Scrittura.

Il “sola Scripturanon è biblico

Questo è un fatto incontrovertibile: su tale evidenza si è snodata, per citarne solo una, la conversione che ha portato (lungamente e dolorosamente) due coniugi e teologi evangelici, Scott e Kimberly Hahn, ad entrare nella comunione cattolica con la Chiesa di Roma.

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Kimberly et Scott Kirk Hahn ©Scotthahn.com

Se in particolare il “sola Scriptura” fosse rintracciabile nella Scrittura… si potrebbe accusare il credente di petizione di principio, dal momento che crederebbe solo alla Bibbia perché così starebbe scritto nella Bibbia, però si dovrebbe alla fine riconoscere che da quella petizione di principio la fede potrebbe trarlo fuori. Ma così non si trova scritto, nella Bibbia, nemmeno in un versetto. Dunque cosa resta? Gli altri enunciati dovrebbero derivare da questo – poiché è nella Scrittura che si trasmette la Rivelazione di Dio –, quindi non potranno che barcollare pericolanti: e in effetti nessuno di essi è completamente vero, stando alla Rivelazione cristiana (non ci si salva solo per la fede, ma per una fede che opera nella carità; non ci si salva solo per la grazia, ma per il libero assenso della persona umana). Il risultato, come accennavo, è che in realtà fosse vero il contrario di quanto Lutero protestava, cioè che la Parola di Dio fosse prigioniera della sua coscienza. Dico “Parola di Dio” e chiaramente intendo “Scrittura”, ché certamente la Divinità non si fa imprigionare dalla coscienza di alcuna creatura, ma il fatto è appunto questo.

Se nella Prefazione al Nuovo Testamento, datata 1522, Lutero screditò la Lettera di Giacomo – di cui scrisse testualmente “è una lettera di paglia” – insieme con la meravigliosa Lettera di Giuda e perfino con l’Apocalisse, è lecito domandarsi quale fosse la Scrittura che egli intendeva sola salvifica.

E proprio in quel testo – cioè nella Prefazione al Nuovo Testamento, tradotto in tedesco dal testo greco stabilito da Erasmo (una pietra miliare, sì, ma derivato da codici scadenti e incompleti) – si trova una spiegazione alla nostra domanda:

Questa è la vera pietra di paragone per valutare tutti i libri: vedere se essi insegnano Cristo o no, giacché tutta la Scrittura mostra Cristo [Rom 3], e san Paolo non vuol sapere altro che di Cristo [cf. 1 Cor. 2(2)]. Ciò che non insegna Cristo, non è apostolico, anche se lo dicessero san Pietro o san Paolo. Al contrario, ciò che predica Cristo è apostolico, anche se lo dicessero Giuda, Anna, Pilato ed Erode.

Un principio sacrosanto letto in maniera terribilmente aberrante: di fatto Lutero pone la coscienza (la propria anzitutto, ma virtualmente quella di chiunque) al di sopra della Scrittura, facendone letteralmente il giudice. Quella che tradizionalmente era definita “norma normans non normata” (la regola che detta le regole senza essere regolata) veniva di fatto equiparata alla “norma normans normata”, che è di per sé la liturgia, ovvero il culto cristiano. La Scrittura, per essere dichiarata “sola”, doveva essere imbrigliata nella coscienza.



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E c’è un ulteriore errore, più radicale, che inopinatamente Lutero si trovò a condividere con gli gnostici e coi pelagiani (dal cui pensiero il luteranesimo rifugge fortemente). Lo troviamo ben enunciato in uno dei “Tischrede dell’ormai ex monaco, quando le intuizioni giovanili diventavano mano a mano più radicali e rendevano le ragioni di alcuni precedenti errori fondamentali:

Qualunque cosa si trova nella Scrittura – diceva Lutero ai suoi commensali – o è legge o è Vangelo. Uno dei due deve trionfare: la legge per la disperazione, il Vangelo per la salvezza.

E suona sconvolgente, questa frase di sapore persino marcionita, nella bocca dell’uomo che è celebrato dai secoli come l’amante delle divine Scritture. Mi torna allora in mente Origene – mi stupisco sempre meno che Erasmo, contemporaneo di Lutero il quale genuinamente sognava che tutte le massaie sapessero a memoria le lettere di Paolo, dicesse che una pagina di Origene glie ne valeva dieci di Agostino… –: nella nona delle Omelie sui Numeri il magister ecclesiarum disse:

Io non chiamo la legge un “antico testamento”, se la comprendo nello Spirito. La legge diventa un “antico testamento” solo per quelli che vogliono comprenderla carnalmente. Per noi, che la comprendiamo e l’applichiamo nello Spirito e nel senso del Vangelo, la Legge è sempre nuova, e i due testamenti sono per noi un nuovo testamento, non a causa della data temporale, ma della novità del senso. […] Invece, per il peccatore e per quelli che non rispettano il patto della carità, anche i Vangeli invecchiano.

Origene, Omelie sui Numeri, 9,4

Se l’amore per il greco avesse portato Lutero sulle pagine di Origene, forse il riformatore sassone non si sarebbe trovato, un giorno, a enunciare a tavola eresie che a Roma erano state condannate nel 130 dopo Cristo, e che ancora dopo avrebbero generato le eresie più pestilenziali – gnosticismo e pelagianesimo in primis – da cui Lutero stesso voleva fuggire disperatamente. In realtà, il “sola Scriptura” postula fatalmente che la coscienza debba previamente giudicare la Scrittura – e ciò proprio perché in realtà il “sola Scriptura” non sta nella Scrittura. Dice bene, Lutero, che tutta la Scrittura deve dire Cristo, ma mostra contestualmente di aver imparato solo metà della lezione: Cristo è anche dove non lo vedi, forse soprattutto lì, oppure ridurrai il “Deus semper magis” e l’“assolutamente Altro” (concetti carissimi alla tradizione teologica luterana, fino a Barth) a quelle poche cose che i “concetti umani” riescono di volta in volta a coglierne.



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La medesima situazione, necessaria nella sua contingenza, e cioè la non riducibilità della Parola di Dio alle poche pagine della Scrittura e ai “concetti umani”, aveva portato Origene (ed Erasmo) ad approfondire continuamente i passi più oscuri e meno gustosi – traendone forse le perle più alte delle loro opere –, mentre Lutero si era risolto a sforbiciare la Scrittura sottoponendola al giudizio della propria coscienza.

Prospettive ecumeniche per l’indomani

Ora, la storica Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione – che sembrava impensabile fino a pochi decenni fa, e che invece Giovanni Paolo II riuscì a vedere firmata e controfirmata prima del grande Giubileo del 2000 – testimonia come la dottrina possa davvero essere gradualmente ricompresa e riesposta in modo da favorire il riavvicinamento delle comunità ecclesiali protestanti e della Chiesa cattolica in vista della piena unità visibile. Tutte le questioni sui sacramenti e sull’ordinamento ecclesiastico saranno altrettanto discutibili e si riveleranno forse problemi altrettanto risolvibili. A quanto capisco oggi dei rapporti tra cattolici e luterani, invece, il vero punctum dolens a cui bisognerà risalire è proprio il rapporto tra coscienza e Scrittura.

E si dovrà creare preventivamente un clima tale per cui i riformati possano serenamente riconoscere che Lutero sbagliò nel riformare il canone; che lo fece in virtù di principî ermeneutici erronei; che in definitiva riconoscere la priorità della Chiesa – la quale conserva e trasmette nativamente il tesoro delle Scritture – non mortifica né la dignità della Scrittura né quella della coscienza, ma anzi costituisce la condizione necessaria a una loro interazione feconda, libera e liberatrice.

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