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Müller: Amoris lætitia deve (e quindi può) essere letta in modo ortodosso

February 25 2016 : Card. Gerhard Ludwig Muller, Prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith, poses during the international conference "Charity will never end" 10 years from the encyclical of Benedict XVI "Deus caritas est" at the New Synod Hall at the Vatican.

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 01/11/17
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Il prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede firma un’importante Introduzione alla miscellanea di Rocco Buttiglione che risponde ai Dubia dei cardinali: in libreria dal prossimo 10 novembre

Abbiamo letto anche noi Risposte amichevoli ai critici di Amoris Lætitia, il libro di Rocco Buttiglione in uscita per Ares il prossimo 10 novembre. Come è già noto ai lettori della stampa italiana, la miscellanea raccoglie alcuni dei saggi con cui il moralista italiano è già intervenuto nella disputa attorno alla comprensione e alla ricezione dell’Esortazione apostolica postsinodale di Papa Francesco.

Stampa “di ispirazione cattolica”

Siamo arrivati ad aggredire quelle pagine con una curiosità particolarmente vivace, dobbiamo ammetterlo, per due ragioni: da una parte infatti ci balzano evidenti agli occhi le differenti posizioni di partenza dei due personaggi – se Buttiglione è un filosofo di rinomata formazione personalistica, Müller è un teologo di chiara fama tomistica (e chi ha buona memoria ricorda che poco meno di cento anni fa queste erano fazioni in lotta); d’altro canto eravamo stati introdotti dalla recensione di Luciano Moia che il quotidiano dei vescovi italiani, “Avvenire”, titolava in modo sconvolgente. «La svolta. Müller: “Amoris laetitia” ortodossa. In linea con dottrina e tradizione». E uno sarebbe già portato a capire una cosa estranea a ogni sentire cattolico, cioè che da un lato il cardinal Müller abbia “promosso” l’esortazione apostolica; e che dall’altro lo stesso cardinale abbia “cambiato idea”, in tal senso, rispetto a proprie precedenti posizioni.

Ma non è possibile, questa è un’assurdità. Poi il quotidiano di ispirazione cattolica su cui scrive Moia completa la titolazione con un catenaccio che non lascia più spazio a dubia di sorta: «Arriva un saggio di Buttiglione con un’ampia introduzione del prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede. “Possibile la Comunione ai divorziati risposati”». Pensa tu, mi dico: il titolista di “Avvenire” deve non aver letto le pagine di Müller, perché invece vi si trova scritto chiaramente:

La questione se i “divorziati risposati civilmente” – una connotazione problematica dal punto di vista dogmatico e canonico – possano avere accesso alla Comunione, benché permanga in essere un matrimonio sacramentale valido, in alcuni casi particolarmente connotati o anche in generale è stata falsamente elevata al rango di questione decisiva del cattolicesimo e a pietra di paragone ideologica per decidere se uno sia conservatore o liberale, favorevole o avverso al Papa.

Ludwig Gerhard Müller, Perché “Amoris Laetitia” deve essere intesa in senso ortodosso, in Rocco Buttiglione, Risposte amichevoli ai critici di Amoris Lætitia, 7-8.

E sì che era la prima pagina dell’Introduzione… Poi uno rilegge il pezzo di Moia e capisce che il titolista non avrà letto il cardinale ma di sicuro ha letto il giornalista, il quale appellandosi a non si sa quali sensi di essenzialità e di completezza dell’informazione presenta lo scrivente come quello «a cui il primo luglio scorso il Papa non ha rinnovato l’incarico come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede». Scorri il pezzo, rimani perplesso ma vai a leggere il testo di Müller, quindi torni a rileggere Moia e resti basito… l’editorialista giunge a scrivere che «tra papa Bergoglio e il suo prefetto emerito non c’è alcuna divergenza dottrinale».

A chiunque scorra onestamente le 25 pagine del saggio di Müller balza evidente agli occhi il contrario, dal momento che in più di un punto il cardinale annota passi dell’Esortazione apostolica in cui «l’argomentazione teologica soffre di una certa mancanza di chiarezza che avrebbe potuto e dovuto essere evitata» (ivi, 25).

In realtà in queste pagine il cardinal Müller si fa riconoscere ancora una volta per il piglio spontaneo e viscerale che in alcune occasioni lo ha portato in passato ad affermazioni avventate (come quando dichiarò in un’intervista che «compito della CdF è fornire struttura teologica a un pontificato»): anche in queste due dozzine di pagine, è vero, Müller torna a ripetere che «la Congregazione per la dottrina della fede ha la competenza teologica e istituzionale per assicurare l’argomentazione coerente dei testi del Magistero romano» (ivi, 20). Tale competenza e tale autorità, ci permettiamo di chiosare, derivano alla CdF (come a ogni organo curiale) direttamente dalla prima sedes, nella fattispecie dall’uomo che la storia e la Provvidenza di volta in volta chiamano a «presiedere nella carità tutte le Chiese» (la famosa espressione di sant’Ignazio di Antiochia). Impossibile, dunque, dare adito a chiacchiere e malumori sul mancato rinnovo dell’incarico all’ex prefetto: anzi Müller (a differenza di Moia) ricorda come il Papa sia «il supremo Maestro della cristianità» (ivi, 8).

E non è tanto per dire. Lo dico da lettore da sempre non sempre entusiasta delle cose di Müller: stavolta c’è in queste pagine qualcosa di nobile e dignitoso, ed è il riverbero di una lealtà al Papa e alla Chiesa corroborata dall’unica cosa che può sostenere uomini già grandi e d’improvviso spogli dell’antica e usata autorità – la fede in Dio. Qualunque seguito abbia questo importante intervento – autorevole perché autentico –, lo si potrà forse già ritenere un punto di alta maturità della produzione di Müller: ha qualcosa del canto del cigno, per la forza del pensiero dispiegato e il disinteresse con cui pure la passione si sfoga, e se Amoris lætitia avrà sortito l’effetto, nella storia della Chiesa, di portare uomini come Müller a cesellare tanto il proprio pensiero, nessuno potrà dire che sarà stato un documento vano.



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Si può? Si deve!

Ho provato grande consolazione nel leggere che «le dottrine dogmatiche e le esortazioni pastorali del capitolo 8 di Amoris Laetitia possono e devono essere intese in senso ortodosso» (ivi, 10). Questo viene detto perché evidentemente esse possono essere intese anche in senso eversivo – e dai laiconi del Guardian fino ai professori dell’Anselmianum sono in molti ad aver lavorato in tal senso, affermando pacificamente una pretesa frattura tra il magistero bergogliano e quello costante che custodisce e serve la viva Tradizione della Chiesa –: in questo Müller è di una chiarezza disarmante, affermando nettamente che si può interpretare in senso ortodosso Amoris lætitia anzitutto perché si deve farlo.

Non si tratta però di una sorta di volontarismo culturale, quasi che il cardinale volesse far dire al documento ciò che in realtà esso non direbbe: proprio per chiarire i passi su cui verte il conflitto delle interpretazioni Müller si espone (eroicamente, verrebbe da dire) a criticare stavolta con umiltà ma senza sconti i passi del Papa. Per esempio in un passaggio scrive:

[…] Immagini verbali non sempre ben riuscite (per esempio scagliare contro altri i comandamenti di Dio come se fossero dei sassi) e traduzioni affrettate di posizioni teologiche nel linguaggio della psicologia come legalismo e fariseismo provocano sconcerto per lo stile di Amoris Laetitia piuttosto che comprensione per l’intenzione pastorale del Papa (cfr AL, 305). Chi si impegna per la chiarezza e verità della dottrina della fede, specialmente in una epoca di relativismo e agnosticismo, non merita di venire apostrofato come rigorista, fariseo, legalista e pelagiano.

Ivi, 16

E vediamo ogni giorno, specialmente sui social, persone la cui attitudine col sacro è tanto distortamente involuta nel bisogno di odiare qualcuno da assomigliare tristemente all’acquaforte della lapidazione che nel 1979 i Monty Python incisero in Life of Brian.

Tuttavia questo non può implicare il rovesciamento della fede nel suo contrario. Müller ha un passaggio in cui getta uno sprazzo di luce assai felice su tali dinamiche:

La teoria postmodernista della verità come costruzione individualistica e socio/culturale non vuole riconoscere la coscienza come istanza decisiva del giudizio su di sé, alla luce della comunità di amore con Dio. Nella coscienza si compie, invece, in modo dialogico l’unificazione della volontà umana con la santa volontà di Dio: nell’obbedienza della fede e nel dono dell’amore.

Ivi, 11



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Bellissima apologia della coscienza opposta a chi, succube dell’“io e delle sue voglie”, se ne proclama paladino e in realtà la destina alla dissoluzione nel nonsense. Lo spiega meglio Müller:

Per questo la rappresentazione dell’autarchia di un ente mortale e dell’autoreferenzialità intellettuale ed egocentrica autonomia del soggetto morale è soltanto l’espressione del ridicolo titanismo di un ente mortale che inevitabilmente deve infrangersi sullo scoglio della sua finitezza.

Passaggio involuto, è vero, ma si fa più chiaro subito dopo:

In realtà quella che qui si manifesta è solo l’incapacità di imparare la lezione del totalitarismo e la sudditanza verso il mainstream e la dittatura del politicamente corretto che vuole mettere in riga ogni individualità.

Ma diciamo che tutti ricorderemo (e ricicleremo) il fulmen in clausula con cui termina:

Chi vuole essere il suo proprio maestro è solo lo scolaro di uno sciocco.

Ibid.

Chiunque abbia mai riflettuto alla sera delle proprie giornate sa quanto ciò sia vero.

Il Sant’Uffizio sottosopra

Un altro passaggio dell’Introduzione che vale l’acquisto del saggio (il quale è di per sé tanto solido, anche se non ne stiamo parlando, da non dover temere di soccombere dietro il testo di Müller), è quello in cui il cardinale condivide un’acuta analisi di certi inediti rovesciamenti nelle dinamiche ecclesiali consolidatesi almeno dal Concilio in qua:

Siamo testimoni di un paradossale capovolgimento dei fronti. I teologi che si vantano di essere liberal/progressisti, che precedentemente, per esempio in occasione dell’enciclica Humanæ Vitæ, hanno messo in questione radicalmente il Magistero del Papa, adesso elevano qualunque sua frase, che sia di loro gusto, quasi al rango di un dogma. Altri teologi, che si sentono in dovere di aderire rigorosamente al Magistero, adesso fanno l’esame a un documento del Magistero secondo le regole del metodo accademico, come se fosse la tesi di un loro studente.

Ivi, 8

Un’istantanea illuminante che immortala almeno un paio di vistose disfunzioni dei circoli ecclesiali dei nostri giorni – a cui neanche certi quotidiani di ispirazione cattolica fanno eccezione – e pure qui, bisogna riconoscere che un merito indiscutibile del presente pontificato è quello di saper «rivelare pensieri di molti cuori»…

Ed ecco perché il cardinale ha accettato di scrivere questa introduzione, del cui valore difficilmente gli sarà reso merito a stretto giro:

Non si tratta qui della complessiva ricezione di Amoris Lætitia, ma solo dell’interpretazione di alcuni passaggi controversi nel capitolo 8. Sulla base dei criteri classici della teologia cattolica egli [Buttiglione, N.d.R.] offre una risposta argomentata e non polemica ai cinque dubia dei cardinali.

Ivi, 10



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E prosegue, Müller, smarcandosi dagli altri recenti protestatari assurti alle cronache internazionali:

Egli mostra che il pesante rimprovero al Papa del suo amico e compagno di tanti anni di lotte, Josef Seifert, che dice che il Papa non presenta in modo corretto le tesi della giusta dottrina o anche le passa sotto silenzio, non corrisponde alla realtà dei fatti. La tesi di Seifert è simile al testo di 62 personaggi cattolici intitolato Correctio filialis (24-09-2017).

Ibid.

Comunione sì, comunione no

Ma poiché il pubblico pagante – affacciato agli spalti di questo inedito Colosseo cristiano che è la disputa su Amoris lætitia – vuole lo spettacolo ma poi alla fine vuole soprattutto sapere chi vince, Müller non si tira indietro e dice la sua parola, netta e coraggiosa, anche in merito.

L’affermazione però che l’Eucaristia non è un “premio per i perfetti”, ma un «generoso rimedio e un alimento per i deboli» non rende le cose più chiare [NB: non dice che sia sbagliata! N.d.R.]. Essa non apre affatto, per coloro che si trovino in una condizione di peccato grave e si ostinino a rimanervi, la via della Comunione sacramentale che conduce alla comunione spirituale con Cristo nella carità soprannaturale infusa.

È chiaro che i sacramenti non sono un premio per la perfezione morale. Li può ricevere in modo efficace però solo chi non si chiude alla grazia attraverso il peccato.

Ivi, 27

Nella pagina successiva, poi, il cardinale usa un’immagine che tradisce lo zelo pastorale sotteso al tono professorale:

Non si possono confondere e scambiare l’uno con l’altro i sacramenti nella loro funzione specifica. Una medicina che risana un malato può far male a uno che invece è sano. Nel battesimo e nella penitenza ci è offerta una medicina che purifica (medicina purgativa) che ci libera «dalla febbre del peccato». Il sacramento dell’Eucaristia è una medicina che rafforza (medicina confortativa) che può essere data solo a quelli che sono liberi dal peccato (S.Th., III, q. 80, a. 4 ad 2).

Ivi, 28

E benché abbia dichiarato l’estraneità propria e di Amoris lætitia a ogni morale della situazione – anzi, proprio perché lo ha fatto e dopo averlo fatto – Müller indica un caso.

Non si tratta di un peccatore incallito, che vuole fare valere davanti a Dio diritti che non ha. Dio è particolarmente vicino all’uomo che si mette sul cammino della conversione, che, per esempio, si assume la responsabilità per i figli di una donna che non è la sua legittima sposa e non trascura nemmeno il dovere di avere cura di lei.

Ivi, 30

Anzi, a ben vedere il cardinale teutonico s’era già spinto a formulare una tesi ben più ardita, che se fosse fatta propria dalla prassi pastorale su larga scala esporrebbe la Chiesa, virtualmente, a miriadi di giudizi sospetti:

Nella situazione globale, nella quale praticamente non ci sono più ambienti omogeneamente cristiani che offrano al singolo cristiano il sostegno di una mentalità collettiva e nell’“identificazione solo parziale” con la fede cattolica e con la sua vita sacramentale, morale e spirituale che ne consegue, si pone forse anche per i cristiani battezzati ma non sufficientemente evangelizzati il problema, mutatis mutandis, di uno scioglimento di un primo matrimonio contratto non “nel Signore” (1 Cor 7, 39) in favorem fidei.

Ivi, 22



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E si era appena accennato al solito caso del singolo cristiano che

può ritrovarsi senza sua colpa nella dura crisi dell’essere abbandonato e del non riuscire a trovare nessun’altra via d’uscita che l’affidarsi a una persona di buon cuore e il risultato sono delle relazioni simil/matrimoniali.

Ibid.

Addirittura, poco oltre, il cardinale si spinge a dire che

[…] si può dare il caso che un cristiano sia convinto in coscienza che il suo primo legame, anche se ha avuto luogo nella forma di un matrimonio in Chiesa, non fosse valido come sacramento e che il suo attuale legame simil/matrimoniale, allietato da figli e con una convivenza maturata nel tempo con il suo partner attuale sia un autentico matrimonio davanti a Dio. Forse questo non può essere provato canonicamente a causa del contesto materiale o per la cultura propria della mentalità dominante. È possibile che la tensione che qui si verifica tra lo status pubblico/oggettivo del “secondo” matrimonio e la colpa soggettiva possa aprire, nelle condizioni descritte, la via al sacramento della penitenza e alla santa Comunione, passando attraverso un discernimento pastorale in foro interno.

Ivi, 23-24

Casi-limite… di ieri e di oggi

E questo sarebbe un rigorista? Se mai lo è stato, in queste pagine non ne è rimasto nulla, e dalle sue stesse parole possiamo lecitamente pensare che alcune sfumature siano maturate, nella sua riflessione, proprio in questi anni di frizioni e scontri sulla dottrina e la disciplina matrimoniali. Mi ha ricordato, in quest’ultimo passaggio, il caso dei servi viennesi – richiamato un paio di anni fa dal cardinale Schönborn – che i padroni delle case signorili non facevano assolutamente sposare, ma a cui gli stessi permettevano di vivere more uxorio nel sottoscala. Lo attestano in modo incontrovertibile i registri dei battesimi dei loro figli. Ebbene, chiedevo qualche tempo fa in una discussione, chi oserebbe in coscienza chiamare “pubblici concubini” quei servi che vissero in una comunione di fede e di amore, impossibilitati a sposarsi da cause esterne e superiori alle loro forze? Ricevetti una risposta assurda: oggi mi conforta quella di Müller.

Le parole del cardinale tedesco, del resto, mi riportano anche al paesino dei miei genitori, nella fattispecie a una famiglia tra le più belle che io conosca lì, la quale però non è nata da un matrimonio canonico: lei si sposò giovanissima con un uomo che quasi non conosceva e che non amava, giusto per uscire di casa e dalla patria potestà, ma amava già lui, che vedeva lavorare nei campi lì vicino; dopo pochi mesi lei scappa di casa con lui e i due vanno a vivere insieme – la coppia ha diversi figli e li educa alle virtù umane e a quelle teologali (in gioventù sono stato catechista di quasi tutti quei ragazzi…).

Più volte, parendomi evidente la nullità del matrimonio contratto da lei, invitai i due a recarsi al tribunale diocesano per verificare l’iter canonico da seguire per “regolarizzare”. Mi ascoltavano sempre con interesse e viva speranza, poi però un po’ loro avevano (e hanno) i figli, la casa e la campagna da seguire… un po’ il parroco e il vescovo non sono stati loro dietro quanto forse tutti avrebbero sperato… e quelli sono ancora lì. Non sono una famiglia? Io non ho mai osato pensare una cosa del genere, e oggi mi conforta leggere che neanche il cardinale Müller lo penserebbe.

A cosa deve servire Amoris Lætitia

Alle volte, ripensando a questi e ad altri casi, mi dico che in fin dei conti Amoris lætitia ha le carte in regola per non piacere a nessuno: alle singole parti perché lede piccoli interessi partigiani, da una parte e dall’altra (a seconda della lettura che se ne dà); a tutti quanti, poi, perché nella sua lettura più vasta e più profonda (almeno secondo quanto ne capisco io) essa proibisce tassativamente a ogni pastore di applicare la “pastorale del semaforo”. E dovrebbero essere grati, i preti e i vescovi, che il Papa provi a liberarli dalla maledizione di Drewermann – per cui sempre di continuo diventano “funzionari di Dio” – ma è perlomeno dai tempi di Socrate che la letteratura lo narra, come a chi dorme non piaccia essere svegliato.

Müller è sceso lealmente nell’arena dell’agone: ci ha ricordato che niente è più importante della ricezione di un documento, e che la Chiesa non può che recepire il proprio Magistero in continuità con la Tradizione. Ciò non deve diventare un alibi al fissismo: Papa Francesco non vuole pastori “senza pensieri”, perché è il Signore a volerci tutti santamente inquieti.

Leggiamo insieme Amoris Laetitia – conclude Müller – senza reciproci rimproveri e sospetti con i sentimento della fede (sensus fidei) alla luce dell’intera tradizione della dottrina della Chiesa e con un’ardente preoccupazione pastorale per tutti coloro che si ritrovano in difficili situazioni matrimoniali e famigliari e hanno particolarmente bisogno del sostegno materno della Chiesa.

Ivi, 32

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