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Halloween? Rivogliamo indietro questa notte!

Vespri di Ognissanti

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Don Rocco Malatacca - pubblicato il 31/10/17
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La celebrazione di Halloween affonda le sue radici in un rito millenario che origina ad Orsara di Puglia, in CapitanataL’empasse della nostra epoca è drammatico, sembra proprio che abbiamo una naturale riluttanza a fare cose che abbiano un senso. Beninteso, non un significato, che ognuno giurerebbe di poter dare di ogni cosa che fa, come più o meno tutti garantirebbero un ordine nel loro personale disordine. Prendi Halloween. La zucca ha un suo significato, lo ha il travestimento, etc… sono tutti elementi significativi di un grande teatro di massa. Non tutti amano la zucca, c’è invece chi fa la zucca ma poi non si traveste; c’è chi ama il significato demoniaco di questa festa e chi in realtà la prende solo come un passatempo senza troppo significato. Tuttavia, ciò che conta è che show must go on e la grande recita si metta in moto, che si metta in moto il mercato, ci sia gente in piazza e nei negozi, che insomma tutto questo processo vada avanti. Halloween ha un senso, è un insieme di cose in movimento che va in un senso e puoi vedere che verso stanno prendendo le cose. In tutto questo grande meccanismo in movimento il significato non importa, in un rito collettivo conta se anche tu ti unisci al flusso della corrente. Chi approva, chi si oppone, chi cerca alternative, ognuno dà pure un significato al suo agire ma, ahimè, siamo tutti dentro la corrente e mentre mangiucchiamo le nostre briciole di significati la corrente ci trasporta. Arriviamo noi cristiani e un po’ spersi cerchiamo di raffazzonare travestimenti di santi, adorazioni alternative, Holyween e cose varie che possono avere significato per quel gruppetto che organizza, ma che non ha un vero e proprio senso. Non portano da nessuna parte perché non sono un rito, esistono solo in opposizione al grande fenomeno combattuto.

Allora, possiamo provare a seguire la corrente? Entriamo in questo grande meccanismo collettivo chiamato Halloween e cerchiamo ci trovare un senso a questa storia: scopriamo se questa storia un senso già ce l’ha. Sì, aveva un senso ed al suo interno un minestrone di gesti pieni di significato, era uno di quei riti fatti dal popolo e fatti di popolo che ha portato dopo secoli di esperienza concreta a far dire ai Padri Conciliari che la Chiesa è il popolo di Dio, tramite questi riti di mistica popolare in cui i cristiani hanno vissuto questa profonda visione. Come ogni rito popolare, era squisitamente cattolico. Coinvolgeva, perché non era settario, non si consumava a mangiare pizza nei locali parrocchiali, come gente assediata da nemici.

Ti racconto una storia. Anzi, te la racconta un rito che ha mille anni.

Il rito della Notte di Purgatorio. La processione di Fukacoste.

Ad Orsara di Puglia, in Capitanata, il rito si celebrava molto probabilmente già poco prima dell’anno mille, perché era una usanza della Galizia e Orsara era una fondazione galiziana in terra italiana. Poi, si è diffusa in tutto il Sud Italia e nelle Isole, ma in questo piccolo paese c’è la radice.

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Il primo novembre al calare del crepuscolo, le fascine di ginestre sono ammucchiate per le strade, si infiammano le candele benedette nelle zucche. Scende la sera, il sole tramonta, ardono le ginestre e le zucche conservano la luce, una croce di fuoco, a guardia degli ingressi. C’è un rito nella Notte di Purgatorio.

La famiglia si ritrova in casa, intorno alla tovaglia della tavola. Intere generazioni hanno fatto scendere il vino nei bicchieri questa sera, ciascuno ha spezzato il pane sulla mensa, insieme ai suoi. Tutti cercavano di radunarsi in una casa, per una comunione oltre il tempo: non solo i vivi, anche insieme i defunti. A guardia delle porte le zucche con la croce, il fuoco esorcizzato, che ardeva lungo il buio, per proteggere chi entrava dagli spiriti maligni. C’è una sacralità particolare ed un’intimità a lume di candela, per la famiglia ritrovata.

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Cortesia della Parrocchia di Orsara di Puglia

Chiamavano Priatòrîje questa notte, nella quale i vivi e i defunti si riscaldavano allo stesso fuoco, svelavano il senso delle cose e spezzavano il pane. La notte era lunga e la famiglia protetta, benvenute le anime, ma non i defunti che non hanno pace, non i malvagi: le croci di fuoco, il fuoco alle porte, li avrebbe fermati alla porta. Fuori, e i vivi dentro. Fuori le malelingue del demonio, perché la famiglia è sacra. Un solo pane, UPriatòrîje, per questo banchetto; un solo calice per il banchetto, “na CòccePriatòrîje“, perché pane e vino erano sull’altare di casa, sulla tavola sacra della famiglia, attorno alla quale l’uomo non deve separare ciò che Dio ha unito. I figli dei figli, i nipoti, le generazioni lontane, poi il vicinato, gli zii, tutti dentro le quattro mura, fino a riempirle, fino a farle scoppiare di salute e vitalità, e per far questo ci voleva tanto perdono, tanta pazienza, tanti atti di misericordia, per conservare la sacra unità della famiglia.

C’è un rito a mezzanotte: Fûkeacòste, la grande processione dei Confratelli della Congrega dei morti, vestiti di buio, neri in volto, le torce tra le mani come lunghi filari di fuoco nel buio, a tracciare le strade. La questua in suffragio dei defunti, qualcosa dal banchetto, una questua penitenziale; si raccoglieva nei sacchi e non per se stessi, ma per amore di altri. Si lasciava la brace e la cenere calde, per invitare i piedi ad un sollievo, mentre durava il freddo cammino.

Tra le tre e le quattro i Confratelli si recavano in chiesa: c’era la messa all’altare maggiore, la messa notturna, il grande sacrificio prima dell’aurora. La chiesa si vestiva in nero, neri i Confratelli, nere le pareti, nera la notte. Intorno alla tovaglia bianca dell’altare, stretti in un’unica famiglia, ora come a cena un solo pane, un solo calice, per la comunione dei vivi e dei morti intorno all’unico Signore. La “messa nera” per tutte le anime del popolo, per essere accompagnate nella notte, nella morte, verso l’unica luce che brucia il buio, l’unico Signore della vita, che ci resusciterà nell’ultimo giorno.

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Cortesia della Parrocchia di Orsara di Puglia
Vespri di Ognissanti

Due parole su Halloween

Questa storia, come hai ben potuto notare, il senso già ce l’aveva, ed ancora non è andato perduto tutto di quel rito millenario, contadino, elaborato con i monaci, vivendo a contatto con loro. Ancora nel XVI sec. devi sapere che il vescovo Guevara, parlando del nord della Galizia, trova nelle campagne bello intatto questo rito, durante il quale la gente apparecchiava la sua cena sacra sugli altari delle chiese. Per una ricostruzione ti invito a leggere il libro: “Di Luce e D’Ombra” (Tau editrice, Todi 2016). Dei Celti non sappiamo nulla. Quelle poche informazioni sull’esistenza di questo popolo che alla fine non ha più o meno importanza di quanto ne avessero le decine di famiglie contadine della bassa Emilia Romagna nei secoli prima di Roma sono così scarse che si può preferire il silenzio.

Halloween è un termine recente (XVII sec. max), altro che Celti, ed indica semplicemente il “Vespro di Tutti i Santi“, orario liturgico, cioè l’ora della preghiera cantata, a sera, del giorno 1 novembre e dunque mai si può tradurre come “Vigilia”, per trascinare indietro di un giorno qualcosa che non può essere fatta indietreggiare. Nessun riferimento alla festa, semplicemente perché non è mai esistita.

Cosa dire del capodanno celtico? Difficile dire ciò di cui nulla sappiamo. L’unica cosa che risulta dalle visite pastorali in nord Galizia (XVI sec.) è che questa possibile celebrazione (forse) era quell’usanza diabolica e superstiziosa, tipica della gente di campagna (non cittadina), di celebrare un rito in cui si incendiava un ceppo, per un falò, ma non il 31 ottobre, bensì nei giorni che corrispondono al calendario cristiano dell’Ottava di Natale. Non si può rimanere che strabiliati e, concediamolo, anche senza parole, per il grande miracolo della società di massa, che fa credere alle persone quello che vuole.

Gli antropologi trovano insolite connessioni tra i riti contadini, come questi, e il grano, il melograno e le noci, chiedendosi in che modo un contadino sarebbe mai potuto arrivare ad usare il grano per significare qualcosa… Ci vogliono davvero strane acrobazie di pensiero per abbinare il defunto alla terra ed all’immagine del grano sepolto nella semina e, certamente, non perché il defunto fosse interrato (troppo banale e soprattutto reale, concreto, quotidiano), meglio per qualche esotico motivo esoterico, magico, pagano. O forse, con le nostre domande moderne, abbiamo semplicemente perso il contatto con la realtà. Il rito era semplice e contadino, più che pagano, parlava di terra, di verità, di semi, di morte e premura, cibo e viventi, preghiera e messa perché questa è la realtà. Aggiungo anche, forse perché erano cristiani hanno semplicemente usato le cose di tutti i giorni per poter vivere una esperienza spirituale attraverso il rito.

Si può non capire il forte senso di realtà di questi riti, e credo sia quello che accadde.

I protestanti hanno visto del male ovunque, del paganesimo e addirittura il demonio dove persino gli inquisitori non vedevano che usanze contadine, magari non colte, ma non pericolose. Non hanno guardato la realtà, ma hanno filtrato la realtà in base ai loro principi, ed hanno svuotato i santi, perché non vanno venerati, ed hanno svuotato i morti, perché non vadano onorati, non spiegando poi, dopo, in che modo riempire questo vuoto. Al di là delle loro convinzioni, infatti, dovremmo tutti accorgerci che la gente muore, per quanto sia una dannata pessima abitudine, da cui non riusciamo a smettere. Morti ce ne sono, dunque, e questo è un fatto di realtà. Gli spiritisti e gli occultisti certo tutto possono avere in orrore, tranne il materiale che dà loro il pane, quindi morti, defunti, spiriti, lenzuola e colpi ai tavoli sono loro pane quotidiano, che non disdegnano affatto. Hanno dunque riempito il vuoto ed hanno capovolto il senso di questa, con una ironia velenosa. Così si arriva all’Halloween di oggi, ma il fiocco a questo regalo incartato lo ha offerto il dio denaro, unico motore di questa triste storia.

Le zucche con le croci di fuoco contro gli spiriti maligni si sono truccate da demoni, evocandoli, riempiendo la nostra immaginazione. La sera non va vissuta in famiglia ma fuori, non per fare del bene alle anime ma per riempirsi la pancia, non per raccogliere offerte per i poveri ma per dispetto e, per i satanisti, invece che celebrare la “messa nera” in suffragio delle anime, è l’occasione per chiamare “messa nera” il loro rito di sacrilegio. Per far questo, hanno anticipato di un giorno, svuotando il giorno successivo, inventando quella benedetta “vigilia di Tutti i Santi” che non è mai esistita.

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Cortesia della Parrocchia di Orsara di Puglia
Zucche tradizionali puglia Vespri di Ognissanti

Un piccolo suggerimento pastorale

Abbiamo a disposizione un rito, che va solo messo in moto, un grande teatro in cui ognuno ha la sua parte. Non lo si fa in parrocchia, ma anche in chiesa, non solo nei saloni, per gruppi e gruppetti isolati. Si fa in casa, in strada, in piazza, in chiesa. Coinvolge. Il rito insegna che noi credenti non abbiamo simboli, ma la realtà: nel rito la luce è la luce, la fiamma è la fiamma, il cibo è cibo e così via. Si usa la realtà, non la simbologia, e si usa per fare qualcosa.

L’occasione è la celebrazione per i defunti, col rito siamo una cosa sola con vivi e defunti, perché la nostra comunione sia piena: il 1 novembre con le anime dei defunti che sono santi, in Paradiso; il 2 novembre con le anime dei defunti che sono in Purgatorio, ma già salvi; con nessun’anima che è all’Inferno. Questo aspetto è fortemente educativo, anzitutto per non pensare già da bambini che i miei cari sono necessariamente “in cielo” vago e New Age, ma che sono davanti al giudizio di Dio, e che dipende da loro essere salvi o dannati, piuttosto che da Dio. Risolve il problema delle cosiddette “feste dei santi”, che fanno dimenticare che i santi sono solo dei morti e che, piuttosto che alternativa al male e al demonio, vanno visti in relazione a Dio.

Utilissimo è l’uso della fiamma esorcizzata (o benedetta, come volete) per fare la benedizione della casa in quella notte. Si è protetti dagli spiriti maligni, dalla presenza del Signore, si sperimenta che desiderando la benedizione non bisogna temere alcun male, perché il Signore è con me; che il buio non può sopraffare la luce, che non è più forte, che è addomesticabile, che bisogna conservare la fede.

La prima parte del rito è tutta familiare, per fare la comunione di tutti i membri. In un giorno fa fare intensamente ciò che poi si diluisce nella quotidianità: l’unione familiare è sacra e soprattutto deve avere il sapore della familiarità, per evitare che i vicini vengano trattati con indifferenza, con superficialità i legami, con insignificanza i rapporti dentro le mura di casa. Bisogna così imparare che stare a tavola è un atto profondamente spirituale da prepararsi accuratamente seguendo le istruzioni: togliere l’orgoglio, combattere la pigrizia, perdonare, sorvolare, scusare, ringraziare, preparare, preoccuparsi, prendersi cura, pregare. Sistemare la tavola non è un incomodo sbrigativo (nelle grandi città pranzare è solo nutrirsi, non è un atto comunitario) e bisogna che sia l’altare di casa.

Non solo, è molto utile perché è una cena di vicinato. Immagina cosa vuol dire per i grandi condomini in cui la gente vive senza guardarsi in faccia, senza sapere nulla dei vicini. In questa notte bisogna essere una grande famiglia. Ognuno si domanda: chi è rimasto solo? Nessuno deve rimanere solo, non questa notte. Con chi mangia il mio vicino? La mia porta deve essere aperta, nessuno deve essere estraneo e forestiero, non questa notte. Come non deve, questa notte, così può accadere che accadrà di nuovo, in altro giorno, proprio perché l’ho sperimentato questa notte. La cena delle anime apre l’anima.

La seconda parte è davvero fattibile e necessaria: la processione. Il rito insegna l’importanza delle transizioni, bisogna passare insieme da casa alla chiesa. Che non ci siano i confratelli poco importa, si può fare una processione in cui ciascuno ha la candela, perché sempre sia conservata la luce, eppure si potrebbe anche azzardare l’ipotesi che il cappuccio del confratello sia una utile alternativa al cappuccio del fantasma (non è una deformazione del confratello?).

La terza parte è il culmine, la “messa nera” in suffragio di tutte le anime. Il rito ti fa alzare da tavola e, dopo aver dato intensità all’unione familiare, dà intensità all’unione della famiglia di famiglie: bello il tavolo della cena, ma c’è una cena con una comunione più grande, di cui l’altare familiare è solo immagine, per far diventare familiare l’altare. Vivi e defunti insieme, per sperimentare che non bisogna solo riempirsi la pancia, ma far del bene alle anime: la santa messa, la preghiera, le azioni di misericordia e di pietà, di perdono, di superamento del male e delle ferite.

Ecco, il rito è un torrente in piena, che fa il suo corso. Una volta avviato, coinvolge e riscalda il cuore. Ha una sua bellezza, e tu nei fai parte, chiunque vi partecipa vi fa parte, il rito attende che ciascuno lasci il suo segno, che contribuisca con un gesto, che non stia fuori.

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