A Palazzo Braschi si celebra in queste settimane con un importante allestimento iconografico il venticinquesimo anniversario dallo stabilirsi delle relazioni diplomatiche tra la Federazione Russa e il Sovrano Ordine di Malta. Ne trovate qui alcuni scatti, insieme con qualche istruzione per godersi al meglio quel patrimonio culturale e spirituale
È difficile dire che sia “bella” una mostra di icone: senz’altro può essere molto interessante, ma in senso proprio non potrà essere più “bella” di un’esposizione di suppellettili sacre… o di animali imbalsamati. Non sembri irriguardoso il paragone: il problema di una mostra di oggetti liturgici – perché tali sono le icone – è che essi vengono necessariamente isolati in uno spazio neutro, asettico, e quindi privati di quell’orizzonte ermeneutico che è lo spazio sacro. Come degli animali imbalsamati, quindi, conservano una parvenza di vita che – certo permettendo all’osservatore di apprezzare dettagli altrimenti inattingibili – risulta tanto più amara quando se ne soppesa la morta realtà attuale.
È stato correttamente scritto, del resto, che anche smontare i pannelli di un polittico rinascimentale e collocarli in una mostra assomiglia a smembrare una top model ed esporne le membra disarticolate sparpagliate in uno spazio neutro: interessante (anche molto, se ci si interessa di anatomia), ma difficilmente “bello”.
Con questa premessa e con questa condizione, però, gli allestimenti riguardanti delle icone meritano sempre di essere visitati e studiati nel dettaglio: sono spesso forieri di grandi congiunture storico-culturali, e normalmente se ne esce parecchio arricchiti.
Questo vale, ad esempio, per la mostra “L’icona russa – preghiera e misericordia”, allestita a Roma in Palazzo Braschi e visitabile dal 10 ottobre al 3 dicembre. La mostra in questione è stata realizzata per celebrare il 25esimo dell’instaurazione delle relazioni ufficiali tra la Federazione Russa e il Sovrano Ordine di Malta. La Russia e gli Ospedalieri: due vecchi amici che si sono ritrovati cinque lustri fa dopo aver cambiato parecchie case e tanti vestiti nel corso dei secoli. Gli Ospedalieri, in effetti, non si trovano a Malta che dal 1530: l’Ordine – ancora oggi vivente nel diritto canonico ed ecclesiastico internazionale – era nato nell’XI secolo e aveva la sua base a Gerusalemme, sotto la protezione di san Giovanni Battista. Quando le armate islamiche conquistarono Gerusalemme, nel 1187, l’Ordine dovette spostarsi ad Acri; di lì si trasferì a Cipro, nel 1291, e dal 1310 l’avventura insulare continuò a Rodi.
La presenza degli Ospedalieri nella cornice della mostra spiega senz’altro il sottotitolo “preghiera e misericordia” (charity nel pannello inglese): l’Ordine era nato appunto per accogliere i pellegrini che arrivavano nei luoghi santi (e che spesso necessitavano di assistenza sanitaria), e mano a mano si strutturò in modo da poter offrire tale assistenza, nonché una certa forma di protezione, pure sulle principali vie che dall’Europa portavano in Terra Santa.
Il monachesimo, da parte sua, rappresentava e tuttora rappresenta – per la Russia in specie e per l’ortodossia in genere – l’ideale cristiano nel mondo, ovvero a margine di questo: i monasteri stessi, e non solo i monaci, sono venerati come concrezioni di santità, e per questo da una certa epoca in poi furono rappresentati nelle icone e venerati dai fedeli (un simile fenomeno non è attestato, se non rarissimamente, nell’Occidente latino). Le 36 icone presenti nell’esposizione vengono da due dei più importanti e significativi musei moscoviti: il Museo Andrej Rublev, istituito nel 1947 dal governo sovietico nell’antico Monastero del Salvatore e di Andronico (dove lo stesso Rublev visse da monaco e realizzò i suoi ultimi capolavori); e il Museo dell’Icona Russa, cioè la più grande collezione privata di arte cristiana orientale (consta di un cinquemila artefatti…).
Se il nesso fosse “solo” questo, tuttavia, non si spiegherebbe la qualità delle icone presenti, né se ne comprenderebbe la selezione, che all’osservatore occidentale – poco avvezzo a conoscere le peculiarità e le distinzioni tra iconografia bizantina e iconografia russa – potrebbero apparire bizzarre: si tratta di opere realizzate nel periodo tra la fine del XVII secolo e il XVIII, cioè in un tempo di contatti molto attivi tra lo stato russo e l’Ordine di Malta. La prima missione ufficiale, infatti, ebbe luogo nel 1698, quando tale Boris Sheremetiev, membro dell’aristocrazia russa, arrivò sull’isola dell’Ordine per promuovere un’alleanza militare contro l’Impero Ottomano.
Né la storia finì lì: Sheremetiev divenne il primo cavaliere dell’Ordine di nazionalità russa, ma l’apice dell’intesa culturale-politica-militare si ebbe sotto l’impero di Paolo I (1796-1801), che l’Ordine – a seguito dell’invasione napoleonica dell’isola – invocò a patrono mediante il conferimento dei titoli di “Protettore” e di “Gran Maestro”. Lo Zar immise a sua volta lo stemma dell’Ordine nell’emblema dello Stato Russo. Nel 1801 Paolo I fu assassinato, sì, ma sarebbe stata comunque la Russia a fermare l’espansione napoleonica. E il resto è noto…
Tutta questa osmosi diplomatica aveva prodotto una singolarissima contaminazione dell’iconografia canonica, e la mostra di Palazzo Braschi ne offre chiara testimonianza: in più di un caso è percettibile l’introduzione di elementi prospettici che gradualmente incidono sugli stili rappresentativi. Allo stesso modo, chi entrasse all’esposizione per fare le esperienze della “prospettiva inversa” formulate dall’imprescindibile Pavel Florenskij ne Le porte regali resterebbe almeno parzialmente deluso: lo stesso fondo dorato è stato sostituito in molti casi da toni neutri, addirittura talvolta da motivi floreali innervati di naturalismo barocco!
Allo stesso tempo – precisa la guida della mostra – i laboratori provinciali rimasero fedeli alla maniera tradizionale di dipingere l’icona. Questa combinazione di elementi nuovi e tradizionali nello stile pittorico appare evidente nelle icone ritraenti i santi della Chiesa russa […].
A ben vedere, insomma, non c’è da rattristarsi troppo di questa non rispondenza delle icone proposte alle regole auree canonizzate da Florenskij: ogni genere letterario ha una propria vita, e l’evoluzione delle forme, in sé, non costituisce necessariamente un tradimento, mentre facilmente sarà testimonianza (più o meno riuscita) della sua vitalità.
Un esempio su cui si può certamente discutere, ma che non può essere rapidamente liquidato, è rappresentato dal manufatto più recente dell’esposizione – che non è tecnicamente un’icona, anche se ne costituisce una rielaborazione originalissima: la Gran Madre di Dio Panaghía proveniente dal Museo dell’Icona Russa è una grande struttura di ferro tagliato e saldato in modo da lasciar distinguere nitidamente, osservata da davanti, la figura della Theotòkos, mentre quei distinti lineamenti si confondono in una massa di ferro informe non appena ci si sposta dalla prospettiva. In tal senso l’opera rappresenta, anche in senso stretto, un’icona nel significato florenskijano del termine, e ha il suo punto di forza proprio nel costringere l’osservatore a conformarsi alla propria prospettiva, senza la quale l’immagine appare confusa e irriconoscibile.
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La Verità è rivelazione del reale che invoca un giudizio su di sé, al fine di poter corrispondere con il proprio giudizio (auspicabilmente salvifico). L’intuizione che l’epifania sia piena di senso e degna di essere considerata spinge a quel movimento dell’intelletto e della volontà che chiamiamo “conversione”. Esiste una e una sola posizione, per quanto composta di molti punti, che permette di godere dell’insieme, ma nessuno può goderselo come chi abbia vagato alla ricerca di quel panorama tramite le profondità dei piani (apparentemente) sconnessi dell’esistenza.
Come si vede, anche l’astrattismo ha il suo perché, quando è cosa studiata e che nello Spirito fa evidente impiego di scienza e di tecniche.
Quest’ultimo elemento (ultimo cronologicamente, anche se disposto nella prima sala) diventa in un certo senso quello che più di tutti risveglia l’osservatore dal sonno della narcotizzazione museale. Quell’ammasso di ferraglia e Spirito mi ha piacevolmente ricordato che da un lato resta sempre in agguato la profferta dell’Anticristo di Solov’ëv:
Cari fratelli! So che fra voi ci sono di quelli per i quali le cose più preziose del cristianesimo sono la sua santa tradizione, i vecchi simboli, i cantici e le preghiere antiche, le icone e le cerimonie del culto. E in realtà che cosa vi può essere di più prezioso di questo per un’anima religiosa? Sappiate dunque, miei diletti, che oggi ho firmato lo statuto e fissata la dotazione di larghi mezzi per il museo universale dell’archeologia cristiana che verrà fondato nella nostra gloriosa città imperiale di Costantinopoli, con lo scopo di raccogliere, studiare e conservare tutti i monumenti dell’antichità ecclesiastica, principalmente quelli della Chiesa orientale; vi prego poi che domani eleggiate fra voi una commissione con l’incarico di studiare con me le misure da prendere per riavvicinare, quanto più possibile, i costumi e le usanze della vita attuale, alla tradizione e alle istituzioni della Santa Chiesa Ortodossa! Fratelli ortodossi! quelli che hanno in cuore questa mia volontà, quelli che per intimo sentimento mi possono chiamare loro vero capo e signore vengano qui sopra.
Vladimir Solov’ëv, Il racconto dell’Anticristo
…e dall’altro che si può sempre scegliere di restituire lo spirito a quegli oggetti santi, testimoni di croci e di delizie, di gloria e di orrori. Come una bambola vive quando una bambina la abbraccia e le offre il tè (e sarebbe insensato chiunque negasse che veramente le abbia offerto del tè), così un’icona vive quando un cristiano se ne riconosce guardato e invitato alla conversione. E perfino in una fredda sala di museo ci si può segnare facendo un reverente inchino.