Negli anni in cui il nome del Paese asiatico è associato sinistramente al dittatore del Nord, Kim Jong-un, una bellissima mostra allestita in Vaticano ripercorre la sua eccezionale vicenda cristiana a partire dai giorni in cui i coreani cercarono nell’ancora ignoto cristianesimo la risposta alle loro angosciose domande
Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.
Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?Rom. 10, 13-15
Questo passo della Lettera ai Romani ha costituito per venti secoli, e costituisce tuttora, uno dei più importanti fondamenti scritturistici della missiologia, cioè della branca della teologia che si interroga specificamente sul senso, sul significato e sui fini della missione (che nulla a che vedere ha col proselitismo).
Missione non è proselitismo
In effetti, in un modo o nell’altro le cose sono andate sempre così: qualcuno – che nei tempi antichi e con parola greca chiamavamo “apostolo”, nei tempi moderni e con parola latina abbiamo chiamato “missionario” – prendeva, lasciava il proprio Paese e si recava altrove, da gente che non aveva mai sentito parlare di Gesù Cristo. A quella gente, secondo modalità in parte estemporanee e dettate dal principio incarnatorio dell’inculturazione (e in parte preparate da lunghi anni di formazione), l’apostolo/missionario spiegava che la risposta alle sue domande più profonde esiste e non è un mero concetto, bensì una persona di nome Gesù. Non è questo il momento di addentrarci nella questione, ma per l’intanto potremmo dire così la differenza tra proselitismo e missione: il proselitismo va apoditticamente a portare un’affermazione, che non appoggiandosi ad alcuna domanda resta lì come seme di ideologia; la missione è anzitutto un approssimarsi agli uomini, lì dove sono, per ascoltarne «le gioie e le speranze, i dolori e le angosce», insomma le domande, e offrire loro una risposta. Conditio sine qua non del missionario/apostolo è che quella risposta, cioè la persona di Cristo, egli per primo l’abbia incontrata e costantemente la incontri.
È nota soltanto un’unica eccezione a questa norma, cioè a quella stabilita dall’incalzante sequenza di domande retoriche della Lettera ai Romani: il caso della Corea. Da nessuna fonte ci risulta infatti che esista un altro luogo al mondo in cui l’annuncio del Vangelo sia giunto con le modalità per cui è entrato in Corea. Nessuno è entrato in quella terra ad ascoltare le domande della gente, ma poiché quelle domande erano cocenti alcuni coreani si sono organizzati per andare a cercare le risposte fuori dalla propria terra, nella grande Cina, dove quelli sapevano esserci problemi analoghi ai loro ma che venivano risolti con un’intelligente e libera appropriazione del contributo proveniente dall’Europa.
La domanda della Corea
Se immaginate il medioevo come l’epoca in cui si credeva che la terra fosse piatta, probabilmente non eravate attenti alle lezioni sulla Divina Commedia, al liceo, o sapreste che l’Ulisse dantesco descrive la rotta a sud dello stretto di Gibilterra come quella per cui si costeggia l’Africa e si giunge nell’emisfero australe (terra inesplorata in cui secondo l’immaginazione del Poeta sorgerebbe la montagna del Purgatorio). Dunque gli europei medievali (quelli colti, almeno) hanno sempre saputo della forma tendenzialmente sferica dei pianeti. Lo stesso non si può dire dei cinesi (pur progreditissimi in molte arti e scienze), i quali ritenevano che a essere tondo, semmai, fosse il cielo, mentre la terra era non solo piatta ma quadrata. Così potreste vedere eccellenti prodotti della cartografia cinese del XV-XVI secolo che mostrano una terra piatta e quadrata, con la Cina che ne occupa la gran parte del centro. Da questa cartografia, dunque, i coreani appresero di vivere all’estremità del mondo. Immaginate la loro sorpresa quando scoprirono che anche ciò che consideravano il centro del mondo (cioè appunto la Cina) ne era ritenuto un’estremità dagli abitanti di un altro grande blocco terraqueo (l’Europa)! E benché il Vecchio Continente non fosse al top in tutti i settori, a confronto con l’Asia (la stampa a caratteri metallici mobili, per esempio, era largamente usata in Cina e in Corea da due secoli prima dell’invenzione di Gutenberg…), nella cartografia e nella cosmologia – grazie al lavoro eccezionale di esploratori, cartografi, ottici e astronomi – gli europei stavano aprendo frontiere impensabili per tutto il mondo.
E questa prospettiva sconvolgente arrivava a scuotere ciò che restava di un “piccolo mondo antico” come la società neoconfuciana dei secoli XVI e XVII: essa invitava sì gli uomini a perseguire “cinque virtù” (magnanimità, rispetto, scrupolosità, gentilezza e sincerità), ma li segregava in classi sociali blindate e non offriva alcuno strumento “spirituale” – cioè che potesse agire sulla volontà dell’uomo, sanarne il cuore in radice – per cui si potessero emendare dai vizi che a quelle virtù stanno universalmente contrapposti. Per cui accadeva che l’antico pensiero di Confucio diventasse endemicamente una filosofia morale farisaica, dal momento che nessuno in realtà riusciva a portarne i pesi, e fungeva allora da collante e da “stabilizzatore” sociale.
All’uno e all’altro problema i coreani credettero di vedere una soluzione nel cristianesimo, che la Cina stava lentamente accogliendo – soprattutto grazie al sovrumano operato di missionari come il gesuita Matteo Ricci –: la dottrina di Gesù, infatti, comprendeva tutti i precetti del confucianesimo, e anzi ne aggiungeva di altri… però forniva in aggiunta la grazia necessaria a vivere quei vertiginosi precetti. Insieme con la grazia c’erano la misericordia e il perdono – pressoché sconosciuti nella cultura confuciana – basate sul fatto che Dio, un vero Dio, anzi il solo Dio vivo e vero, era venuto a cercare gli uomini e che li aveva recuperati facendosi uguale a loro in tutto (eccetto che nel peccato). Questo faceva immediatamente decadere tutte le classi sociali, perlomeno intese come compartimenti in cui si nasce e si muore e per i quali ci si vede precludere l’accesso alla felicità: Cristo poteva distruggere le idolatrie dello Stato e di una religiosità artefatta e apriva a ciascuno – non importa quanto umile fosse la sua condizione – la via della perfezione e della perfetta letizia.
Sembra una fiaba ma è pura storia, e ha date e luoghi: all’inizio della seconda metà del XVIII secolo una delegazione di studiosi coreani partì da Hanyang e affrontò un viaggio di circa un mese a piedi per giungere nella grande città di Pechino. Lì gli studiosi della penisola asiatica fecero incetta di orologi, sveglie, telescopi, cannocchiali, mappe della terra, del mare e del cielo… e di libri. Tanti libri di diritto, di morale, di etica… e di quella religione che i missionari dell’Occidente avevano portato, insieme con la notizia strepitosa di un Dio che non solo ti indica la via, ma ti aiuta a percorrerla.
Come fu accolta la risposta cristiana
E se l’anno della missione a Pechino resta non meglio identificabile, c’è una data importante che dice invece la grandezza del popolo coreano, che non si è affidato al cristianesimo come un disperato si aggrappa al primo relitto che capita a portata di mano: nell’inverno del 1779 dei giovani studiosi della dottrina confuciana si riunirono nel tempio Jueo nei pressi della capitale Hanyang e si diedero il tempo di studiare quei testi e di discuterne le tesi, per decidere se veramente esse potessero risultare utili a far dare al loro popolo un colpo di reni salvandolo dall’oppressione di un sistema corrotto ormai giunto a capolinea.
Una calma sconvolgente, per noi uomini dello zapping: erano sul punto del collasso e sedevano a discutere pacatamente di filosofia della storia e del destino individuale degli uomini. Decisero che sì, il cristianesimo era non solo bellissimo e – parole loro – “grandioso!”, ma che conteneva la dottrina più profondamente aderente alle esigenze della natura umana che avessero mai incontrato. In altre parole, scoprirono che quella era la risposta alle loro domande.
Self-made Church
Senza porre tempo in mezzo, presero a viverla – così come avevano letto in quei libri. E quindi stabilirono le comunità, i presbiteri, approntarono luoghi dove celebrare i sacramenti… E ben presto si resero conto che forse il loro zelo li stava portando a eccedere un tantino: scrissero allora a Pechino (e poi a Roma) per avere un riconoscimento e delle istruzioni dall’autorità apostolica. Le lettere impiegavano molto tempo a fare quel viaggio pericoloso, e spesso anzi andavano perse: Roma non avrebbe saputo se non quasi cinquant’anni dopo, di quanto accadeva in Corea; nel frattempo da Pechino, dopo “soli” dieci anni di vita di quell’incredibile Chiesa locale, furono inviati dei sacerdoti che confortassero il popolo coi sacramenti. La comunità cresceva vertiginosamente, raggiungendo diverse migliaia di fedeli in pochi anni.
E immancabilmente arrivò la persecuzione: un cristiano osò interrompere il culto idolatrico agli antenati, affermando che le “tavolette sacre” erano in realtà “solo pezzi di legno” – e fu processato e trucidato. Era il 1801. Si scatenò la prima delle tre grandi persecuzioni nazionali, che in poco più di cento anni falciarono per il cielo una messe di diecimila martiri.
Fu Pio XI il primo a riconoscere parte di questi campioni della fede. Era il 1925. Nel 1968 fu Paolo VI a portarne altri alla gloria degli altari. Buon ultimo, Papa Francesco nel 2014 procedette a ulteriori riconoscimenti ecclesiali.
Nel frattempo quella Chiesa intimamente laicale aveva contribuito in modo decisivo alla diffusione della scrittura hangeul, il coreano semplificato, che ha permesso l’alfabetizzazione di vaste sezioni del popolo che fino ad allora non avrebbe avuto i mezzi e il tempo per imparare i complessi sistemi ideografici del cinese e dell’antico coreano. Non solo: a quell’incredibile Chiesa, ormai salda nell’organica composizione di chierici e laici, si deve pure la transizione dalla monarchia alla repubblica. Fu il cardinale Kim Suo-hwan, nel 1987, a proteggere nella cattedrale gli studenti che dimostravano contro l’insorta dittatura militare: «Dovrete passare sul mio corpo – disse il Cardinale –, prima di toccare quei ragazzi. E poi su quelli dei preti. E poi su quelli delle suore».
Una mostra da non perdere, in Vaticano
Questa storia di fede, di sangue, di storia e di gloria viene illustrata con dettaglio e delicatezza in una mostra gratuita allestita poche settimane fa a Roma, nei Musei Vaticani (più precisamente nel “Braccio di Carlo Magno”, cioè sotto la parte sinistra del Colonnato del Bernini, in Piazza San Pietro). La mostra celebra i 230 anni della Chiesa Cattolica in Corea: si esce da quel lungo corridoio domandandosi come si siano potute ignorare tante cose meravigliose per tutta la vita (le didascalie dell’audioguida – gratuita anche quella – sono succinte e compendiose), e ci si vergogna un poco di pensare che ai nostri giorni, dopo le Olimpiadi e dopo i Mondiali, il nome di quel Paese richiama alla mente solo le scellerate minacce nucleari del dittatore del Nord. Dunque un’occasione da non perdere.