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Blade Runner 2049? Lo sguardo rivolto al Cielo di Villeneuve

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Da Acec - Sale della Comunità - pubblicato il 23/10/17
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Un po’ sequel, un po’ remake ma soprattutto, come ogni buon film di fantascienza, specchio della crisi dell’uomo contemporaneodi Francesco Di Pede

“Oggi è nato per voi un Salvatore”. Anno del Signore 2049, in una regione solitaria un replicante uccide un Nexus ribelle di vecchia generazione. Nei pressi della sua abitazione viene rinvenuta una cassa contenenti resti di un replicante femminile, deceduta trenta anni prima a causa di un parto.

Nel film di Villeneuve riecheggia più volte la frase tratta dal vangelo di Luca. Coniugata alla trama, rivisitata e corretta, si tratta di una citazione come molte altre tratte dalla Scrittura. E’ una modalità piuttosto diffusa con la quale il cinema vuole celebrare un evento quotidiano eppure magnifico: la nascita della vita.

Tra qualche decade, ci dicono, la vita continuerà a nascere. E si tratterà ancora di un miracolo. Occorre però crederci ai miracoli, come quelli che faceva Gesù, sempre orientati a recuperare la vita, posizionarla al giusto posto, consacrarla. I replicanti di Blade Runner 2049 sono riusciti a entrare in questa dinamica riproduttiva. Le vicende che il film ci racconta ci introducono in un mondo tanto lontano e distopico quanto reale, proprio perché la nascita di una nuova vita è un evento che colpisce e converte. Non si tratta solo dell’esclusività del parto di un replicante, ma della consapevolezza che la procreazione è un dono di Dio, è partecipazione alla sua opera creatrice.



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Ma dov’è Dio nell’inferno raccontato da Villeneuve? Tutto sembra annunciarne la morte. Solitudine, distruzione, scomparsa quasi totale della natura – siamo davvero sicuri che si tratti di un film di fantascienza? – la creatura ora è abbandonata, orfana del suo Creatore. Va aggiunto che questa è un’apocalisse davvero assoluta, i famosi schermi futuristici del primo Blade Runner (1982) ora non invitano semplicemente a dissetarsi della bevanda americana più conosciuta ma svendono donne nude e disponibili con lo slogan “everything you want to see”, le relazioni sono robotizzate, ci si innamora di ologrammi, illusioni che sembrano persone vere e che cambiano aspetto a seconda della promozione acquistata. Blade Runner 2049 è il cimitero dell’umano. Ma il rischio è quello di assuefarsi a tale finzione, credere alla menzogna piuttosto che alla verità, illudersi di vivere quando in realtà si tira a campare in un avveniristico baratro. “Non avete mai visto un miracolo”, sono le ultime parole di un replicante al suo carnefice, sottendendo che la vita è il vero miracolo. Il protagonista, l’agente K, un grandioso Ryan Gosling, parte alla ricerca della vita reale, della perla preziosa che è l’umanità, con queste parole che gli riecheggiano dentro. E’ lui stesso un replicante, non sa cosa significhi essere umani, ma se una speranza abita il suo cuore è che quel bambino nato trenta anni prima sia proprio lui. Desidera avere la vita, averla in abbondanza, spera di non essere la copia di nessuno. I prodotti di laboratorio, per quanto siano “più umani degli umani”, non possono sperare di avere il superpotere più imbattibile, cioè la libertà di essere veri, creare relazioni autentiche e fare della propria vita un capolavoro.



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“Stiamo tutti cercando qualcosa di reale”, una magra consolazione che viene rivolta a K come incentivo alla sua ricerca, un impulso a non darsi per vinto. Nel primo film di Ridley Scott, un unicorno ha scatenato una valanga di interpretazioni, posizionava il futuro del film in una dimensione di sogno e di irrealtà. Ora invece, nel film di Villeneuve, la presenza di un cavallino di legno – materiale preziosissimo e raro nel 2049 – è invece simbolo del nostro attaccamento alla terra ma con lo sguardo rivolto al cielo (come accade all’agente K nell’ispiratissima scena finale), verso un oltre che grida la sacralità di ogni gesto quotidiano, col cuore rivolto verso Dio, non sempre percepibile, ma che instilla nel cuore di ogni uomo la sete di infinito. Il passaggio alla regia di Villeneuve opera proprio questa conversione al reale, presente in tutto il film, in cui il protagonista appare come un mendicante di senso, un cercatore di umanità. Le domande esistenziali che emergono scena per scena sono il valore più bello di una pellicola che riesce a stare in equilibrio perfetto tra l’onere di un sequel ambizioso e l’onore di aver scritto una sceneggiatura sciolta e creativa.



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“Io so cos’è reale”, Deckard – l’unico umano accreditato della pellicola – è il solo a poter pronunciare una frase che appare come una solida boa a cui aggrapparsi in mezzo a un oceano di insicurezze.

Al termine del film si potrebbero tirare le somme su cosa sia veramente umano, o almeno lasciamo la sala con la consapevolezza che l’uomo può ancora sperare di costruire impalcature di bene in un ecosistema di purulenti strutture di peccato. Si tratta della capacità di sacrificio, dell’alterità, di saper costruire relazioni significative con cui modellare le proprie esistenze, della capacità di amare, che svela definitivamente il reale (Deckard sa distinguere la vera Rachael dalla sua copia: “aveva gli occhi verdi”) mentre vivere nella menzogna, come accade al curioso villain Wallace, non permette di vedere la vita con occhi limpidi ma accecati dalla sopraffazione, dal profitto, dall’interesse.

 

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