di Amedeo Lomonaco
“Ci vuole coraggio per pregare il Padre Nostro. Ci vuole coraggio. Dico: mettetevi a dire ‘papà’ e a credere veramente che Dio è il Padre che mi accompagna, mi perdona, mi dà il pane, è attento a tutto ciò che vedo”. Così Papa Francesco nell’intervista rilasciata a don Marco Pozza, teologo e cappellano del carcere di Padova, che verrà trasmessa nell’ambito del programma “Padre Nostro”. Il programma, presentato nel pomeriggio in Vaticano, andrà in onda su Tv2000 dal 25 ottobre ogni mercoledì alle ore 21.
“Diciamo di essere cristiani, di avere un Padre, ma viviamo – aggiunge il Papa nell’intervista – non dico come animali, ma come persone che non credono ne’ in Dio ne’ nell’uomo, senza fede, e anche facendo del male, non nell’amore ma nell’odio, nella competizione, nelle guerre. E’ santificato nei cristiani che lottano fra loro per il potere? E’ santificato nella vita di quelli che assoldano un sicario per liberarsi di un nemico? E’ santificato nella vita di coloro che non si curano dei propri figli?. No, lì non è santificato il nome di Dio”. Di seguito un estratto dell’intervista:
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Il programma, nato dalla collaborazione tra la Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede e Tv2000, è strutturato in nove puntate, ogni mercoledì, nel corso delle quali don Marco incontra anche noti personaggi laici del mondo della cultura e dello spettacolo, tra cui Erri De Luca, Maria Grazia Cucinotta e Flavio Insinna:
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=nqlUcaKt16M]
Il Padre Nostro viene “letto” anche attraverso toccanti storie e testimonianze, tra cui quelle degli ex-alunni di don Milani, della famiglia di un bambino colpito da una rara malattia e di una monaca di clausura:
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Q5p5NJNmQN8]
Le prime otto puntate del programma “Padre Nostro” sono introdotte dalle parole del Papa seguite dalla conversazione di don Marco con un ospite, mentre nell’ultima puntata viene trasmesso il colloquio integrale di Francesco con il cappellano del carcere di Padova. L’incontro con il Pontefice – sottolinea don Marco Pozza – è stato uno straordinario momento di grazia:
R. – Penso che di tutte le grazie che una persona può chiedere da cristiano prima che da prete, e da uomo ancora prima che da cristiano, sia di poter passare anche un semplice secondo assieme ad un Papa, soprattutto a Papa Francesco per un motivo molto semplice: per portargli la miseria che abbiamo addosso, i nostri peccati e sentire cosa sia sulla propria pelle la misericordia di Dio. riconosco che anche la mia storia di sacerdote dopo questo programma non è più quella di prima, perché sapere di esser nel mirino di Cristo, comporta una responsabilità, ma soprattutto comporta una conversione dello sguardo, saper leggere queste tracce anonime di Dio dentro la vita feriale, un po’ quello che abbiamo tentato di raccontare attraverso questo programma che poi è diventato un libro. Penso che la ricchezza del programma sia stata questa.
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D. – Come ha letto il Papa il “Padre Nostro”?
R. – Me lo ha trasmesso come se lo avessi chiesto a mio nonno. Me lo ha raccontato attraverso degli aneddoti, dei piccoli episodi di vita, attraverso una teologia che profuma di vita. Vedo che i poveri capiscono al volo le sue intuizioni eziologiche. D’altra parte, è quello che accadeva nel Vangelo: i farisei non capivano, i poveri si innamoravano. Di conseguenza è stato un “Padre Nostro” che mi ha tradotto questa preghiera di Dio dentro la vita di tutti i giorni e nel contesto di Chiesa e società nella quale ci troviamo a vivere.
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D. – Un programma che ruota in particolare intorno ad otto parole e alle storie di persone note e meno note. È un po’ questo l’incastro attraverso poi cui si snoda il programma stesso …
R. – Certo, perché mi ero abituato alla preghiera del “Padre Nostro”; non mi diceva più niente. Questo per un prete è una bestemmia. Allora, ho dovuto fare questa operazione che ho visto fare da mio padre che fa il meccanico: ho dovuto smontare il Padre Nostro. Da qui ho tirato fuori le otto parole: Padre, nome, Regno, volontà, pane, debiti, tentazione e male. Mi sono accorto che sono otto parole laiche. Attraverso queste otto parole ho cercato di conversare con otto personaggi “pop” nel senso di conosciuti, perché mi raccontassero attraverso la loro non credenza, attraverso la loro fede difficile, che cosa significassero quello parole. Poi ho voluto cercare di andarle a scovare all’interno di storie anonime. Questo per me significa andare giù negli scantinati, scavare sotto i tappeti, andare sotto terra, dove la gente nasconde la vita vera. Da qui è nato questo programma all’interno del quale la scoperta più bella è stata questa: c’è gente che non riesce a pregare il “Padre Nostro” per intero, ma alla fine siamo riusciti a fare una cosa bella: ognuno ne ha recitato una piccola parte e così è venuto fuori il “Padre Nostro”. Questa è un po’ la Chiesa che io sogno; una somma di voci poggiate l’una all’altra che si fanno coraggio, che si fanno compagnia.
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D. – Una somma di voci che sono anche uscite dal carcere …
R. – Il carcere è la mia terra. Faccio il cappellano nel carcere di Padova, ma ho voluto raccontare un altro carcere che forse pochi conoscono: quello dove si trovano a scontare la pena persone minorenni. Il mio sacerdozio non si capisce senza il carcere e senza il carcere non si capisce perché un prete arriva da Papa Francesco. Quindi è un po’ la mia casa. Ho cercato di dare voce a questo, perché sono convinto di una cosa: la vita reale, anche se ferita, brutta, slabbrata, è molto più bella e affascinante della vita immaginaria.
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D. – Tra le tante storie ce n’è una che ti ha colpito molto: quella di una coppia che legge il “Padre Nostro” e lo vive, nonostante grandi difficoltà …
R. – La famiglia di Emanuele Campostrini è tornata un po’ alla ribalta in questi mesi perché è stato definito il “Charlie Gard” italiano. Quel giorno sono arrivato a casa sconvolto, perché ho detto: “La mia non è fede. C’è un guazzabuglio di qualcosa che io chiamo fede” e di fronte a questa capacità di leggere con il sorriso una volontà che per me è bestiale – la sofferenza, la malattia di un’innocente – ho capito una cosa: se voglio diventare santo devo veramente imparare non a fare qualcosa per Dio ma lasciare che Lui faccia qualcosa per me.