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La missione di suor Helen Prejean accanto ai condannati a morte

HELEN PREJEAN
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Credere - pubblicato il 15/10/17
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La suora resa famosa dal film Dead Man Walking con Susan Sarandon e Sean Penn dopo essere entrata quasi per caso nel braccio della morte delle prigioni, ha dedicato la vita alla battaglia per l’abolizione della pena capitale negli Usa

di Stefano Pasta

Sister Helen Prejean è forse il volto più famoso al mondo nella battaglia contro «l’omicidio legalizzato». È nota per l’interpretazione che ne fece Susan Sarandon in Dead Man Walking: quel film degli anni Novanta, che fece vincere l’Oscar all’attrice, portava sul grande schermo il libro con cui la suora cattolica della Congregazione di San Giuseppe denunciava l’ingiustizia della pena capitale e di come, quando lo Stato uccide in nome della comunità, abbassa tutta la comunità al livello di chi uccide.

VIA PER VIVERE IL VANGELO
Negli anni sister Helen, oggi settantottenne, ha fatto di questa battaglia la sua ragione di vita, o – spiega lei – la via per «vivere il Vangelo». L’amicizia con i dead men walking, «gli uomini morti che camminano» come negli Usa chiamano i condannati a morte, le ha permesso di rendere concreto l’amore per il Signore. Racconta: «Sono suora dall’età di 18 anni, ma in Louisiana, dove ho sempre vissuto, per lungo tempo non ho avuto alcun contatto con i poveri. Da bambina», ammette, «la sera pregavo “per i poveri che non hanno un posto per dormire”, ma non li incontravo. Vivevo in altri ambienti, altri quartieri; anche in chiesa venivano persone benestanti». Era l’America che segregava in base al colore della pelle: «Le scuole erano separate e perfino in chiesa i neri avevano un angolo riservato e, per fare la Comunione, dovevano aspettare i bianchi».



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Il razzismo è un argomento che la suora ripete spesso: «Miseria, pelle nera, carcere e braccio della morte sono collegati: la pena capitale colpisce coloro che hanno ucciso un bianco, sono poveri e non hanno modo di pagare un buon avvocato. Negli Usa l’85% dei detenuti ha ucciso un bianco, mentre l’assassinio di un nero (circa il 50% del totale degli omicidi) raramente merita l’estremo castigo».

LA SCOPERTA DEI CONDANNATI
Nel suo primo braccio della morte, nella prigione di Angola in Louisiana, lei ci arrivò cercando i poveri. «Era il 1980», racconta, «e la mia comunità religiosa aveva avviato una riflessione sulla propria vocazione. Si decise un maggiore impegno dalla parte dei poveri, che mi condusse a Saint Thomas».

Era un quartiere di New Orleans in cui non c’era famiglia che non avesse una persona in carcere e dove un nero su quattro era sotto il controllo della giustizia. «Un giorno», ricorda con commozione, «un amico che lavorava con i carcerati, incontrato casualmente per strada, mi chiese di avviare una corrispondenza con un dead man walking». Accettò, l’amico le scrisse un nome: Elmo Patrick Sonnier, numero 95281. Avrebbe rappresentato il passaporto per una strana terra…



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Tra i due iniziò una fitta corrispondenza («Pensavo che mi avrebbero ucciso senza che nessuno si fosse accorto di me. Andare avanti da soli è troppo dura», scrisse Patrick nella prima lettera), poi la suora – «all’inizio avevo paura», ammette – andò a trovare il ragazzo. Impossibile dimenticarsi quel giorno: «L’ingresso di Patrick nel parlatoio era annunciato dal rumore delle catene che strisciavano per terra. Lo guardai attraverso il vetro: aborrivo il suo crimine, ma vidi gli occhi di una persona, non di un mostro». Conserva ancora il quadretto fatto con le sigarette regalatole in quell’occasione.

CAMMINO SPIRITUALE
La corrispondenza divenne anche un percorso spirituale: «Patrick fece esperienza della grazia di Gesù, negli ultimi anni era profondamente cambiato. Per me la grazia si manifestò nel comprendere che ciascuno di noi è più delle cose peggiori che ha fatto nella propria vita. Pregammo insieme tante volte. Non ebbi mai il permesso di toccarlo, potevo soltanto appoggiare le mani sullo schermo che ci separava». Poi l’ultima Messa, celebrata cantando il capitolo 43 di Isaia, poco prima della sua esecuzione sulla sedia elettrica, il 4 aprile 1984.


GHIGLIOTTINA
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Sister Helen è rimasta con lui, e poi con molti altri condannati, nelle ultime ore. Quella prima volta, tornando a casa, dovette arrestarsi prima di aver fatto molta strada: doveva vomitare a causa del rituale disumanizzante a cui aveva assistito. Nella Bibbia di Patrick la suora trovò sottolineate alcune parole del Salmo 31: «Sono il disgusto dei miei vicini, sono divenuto un rifiuto. Ma io confido in te, Signore».

Da allora non si è fermata. Il suo impegno sta contribuendo a far cambiare l’opinione pubblica degli americani. «Il sostegno popolare alla pena di morte sta decisamente diminuendo», fa notare suor Helen. «Sono proprio i cattolici i più attivi nel movimento anti-pena di morte».

Ma il suo lavoro è orientato anche alla costruzione di alleanze con i parenti delle vittime: «Il Crocifisso ha due braccia: le famiglie delle persone uccise e i prigionieri nel braccio della morte». Anni dopo l’esecuzione, il padre di uno dei due ragazzi, per il cui omicidio Patrick era stato condannato, cominciò a recarsi in una cappellina non lontana dal luogo del delitto per ricordare nella preghiera suo figlio e Pat stesso. Avvenne anche grazie all’amicizia con sister Helen. Del resto, come la suora scrisse a Giovanni Paolo II per ringraziarlo per l’intervento a favore di un altro condannato, Joseph O’Dell, l’esperienza accanto ai dead men walking «riduce all’essenziale il Vangelo: vita, non morte; pietà e compassione, non vendetta».



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NON UCCIDERE
«La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio… Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2258)

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