di Daniel Prieto
Mi azzardo a dire di no, e cercherò di spiegare perché. In primo luogo, però, bisogna chiarire cosa sia la felicità. E qui potremmo lanciarci in dibattiti profondi e complessi che tanti filosofi, teologi, psicologi ecc. hanno elaborato nel corso della storia (nella quale, del resto, tutto è possibile). Ma non lo faremo. Il nostro obiettivo è più umile, se vogliamo dire così. Ci accontentiamo di accettare l’evidenza e di semplificare (non di banalizzare) le cose. Sì, chiediamo come richiesta di principio (ovvero come punto di partenza che non ci metteremo a dimostrare) ciò che crediamo si possa accettare con un po’ di senso comune (anche quando questo senso è poco comune al giorno d’oggi). Così, con un po’ di buona fede potremmo concordare sul fatto che la felicità è collegata in un modo o nell’altro a esperienze di soddisfazione, gioia, piacere, allegria, pace, speranza, ecc., che si producono grazie alla realizzazione di certe attività benefiche o al possesso di certi beni (amati). Quali sono le attività e i beni che colmano i desideri più profondi del cuore dell’uomo, suscitandogli queste esperienze in modo più duraturo e autentico? Ecco il vero dilemma.
1. Siamo onesti… cos’è la felicità?
Prima di rispondere a questa domanda e di proporre positivamente ciò che pensiamo, dobbiamo gettare alcune basi critiche (o pars destruens, come si diceva nel Medioevo) per capire ciò che la felicità non è. Questo ci permetterà di affrontare il tema senza ingenuità. Per questo bisogna iniziare smascherando un vecchio mito eretto come verità assoluta, un mito che è invece un pericoloso miraggio al momento di parlare di felicità, ovvero che il mondo moderno sia il migliore e il più felice dei mondi possibili (sognabili). Non mi fraintendete, non si tratta di tornare al passato, ma nemmeno di andare a tentoni senza mettere in discussione il presente e il futuro al quale questo ci conduce.
In realtà non chiediamo altro che un umile riconoscimento delle ambiguità create da questo mondo altamente tecnologizzato, in cui si promuovono con un’accelerazione e una voracità sempre maggiori, tra le altre, la legge del successo (valgo per i miei successi), quella del pragmatismo (valgo per la mia efficienza) e quella dell’utilitarismo (valgo per quanto produco). Va detto che questo “nuovo mondo”, proiettato dalla luce di una ragione troppo egocentrica, contrariamente a quanto promesso sta producendo intere generazioni di giovani che se c’è una parola che non conoscono, o che conoscono poco, è proprio “felicità”. Le nostre società, che Chesterton ha definito “una maledizione meravigliosa, pratica e produttiva”, sono diventate nella maggior parte dei casi luoghi rumorosi e asfissianti, in cui il ritmo della macchina (che non dorme e non respira) ha sostituito e schiacciato il ritmo dell’uomo e della natura, per cui le nostre case sono diventate veri brodi di coltura di passioni tristi che col tempo hanno decantato in altrettanto tristi malattie: frustrazione, stress, depressione, disturbi e disordini alimentari, solo per citarne alcuni. Nella gran parte dei casi si vive esclusivamente per lavorare, si lavora per risparmiare, si risparmia per acquisire uno status o oggetti che plachino la nostra fame di sentirci valorizzati e stimati. Visto che però in questo falliamo, ciò che ci resta dei risparmi viene speso in rimedi (psicologici, o terapie) e in qualche giorno di vacanza all’anno che ci permetta di sopportare, o meglio di sopravvivere, a questa macchina del ritmo frenetico della società moderna che ci dissangua e ormai nessuno si azzarda a frenare.
2. Il nostro diritto di essere autenticamente felici
Come diceva sempre Chesterton, “l’umanità ha il diritto di rinnegare la macchina e di vivere della terra se le piace di più, come in realtà chiunque ha il diritto di vendere la sua vecchia bicicletta e di andare a piedi se lo preferisce. È evidente che andrà più lentamente, ma non c’è l’obbligo di andare più in fretta. […] La felicità, in un certo senso, è un maestro duro. Ci dice di non complicarci con troppe cose, a volte molto più attraenti della macchina”.
Anche se sembra una proposta basata sull’idealismo, non possiamo fare a meno di intuire che il pensatore inglese aveva ragione, perché in fondo credo che tutti in qualche momento abbiamo amato la nostra vita, che richiede molto meno di ciò di cui pensiamo di aver bisogno per renderci felici. Sappiamo anche che la felicità non può dipendere da tante cose esterne come ci viene fatto credere. Al contrario, il mondo del consumo ci impone uno standard così alto che viviamo angosciati e ansiosi, sottoposti a un giogo di altissime aspettative (nulla basta, nulla è sufficiente); un giogo di tante cose esterne che come se non bastasse non dipendono da noi, anche se ci convincono che le dobbiamo controllare. Col passare del tempo, questo crea illusioni tremende. Anche se riusciamo a raggiungere un po’ di pace, di gioia, di soddisfazione, ecc., tutto va così rapidamente che ci viene richiesto di andare avanti, di non accontentarci. L’aspetto più triste è che in fondo al nostro cuore sappiamo che non siamo fatti per sopravvivere ma per vivere, e pienamente. Sappiamo che “non abbiamo il dovere di essere più ricchi, né di lavorare di più, né di essere più efficienti, o più produttivi, o più progressisti, né in alcun modo più legati alle cose del mondo o più potenti, se questo non ci rende più felici”, perché in realtà “il falso ottimismo, la felicità moderna ci stanca perché ci dice che siamo adatti a questo mondo. La vera felicità consiste in quello che non siamo. Veniamo da qualche altra parte. Ci siamo smarriti nel cammino”.
3. Un ritmo più umano
Di fronte a questo bisognerebbe chiedersi perché e in che modo sarebbe meglio tornare a un ritmo più umano e cercare questi spazi di pausa e intimità che ci permettano di gustare una felicità più interiore e libera. Da un lato la risposta sembra ovvia (se accettiamo le premesse precedenti): se cerchiamo una soddisfazione, una gioia, una pace, ecc., che non dipendano solo dalle cose esterne (tanto relative e mutevoli) né dalle elevate aspettative del possedere e dell’apparire (che già sappiamo che deludono), diventa imperativo imparare a scoprire e a coltivare le dimensioni più profonde della nostra interiorità. È un compito fondamentale.
Dall’altro lato, la società dell’effimero non solo non risponde ai nostri aneliti più profondi, lasciando il nostro cuore frustrato e ripiegato su se stesso, ma ci porta anche a una serie di dinamiche che ci feriscono e ci portano a ferire gli altri (lo scarto, la superficialità nel giudizio, l’alta competitività, ecc., non perdonano). E sappiamo bene che non si può essere felici in mezzo alla colpa e alla rabbia. Dimensioni, tra l’altro, che la nostra società ignora e di fronte alle quali non ha risposte. Desideriamo perdonare ed essere perdonati, e per questo abbiamo bisogno di riconoscerci feriti e persone che feriscono. Nulla di questo appare all’orizzonte della società dell’apparenza e del successo, ma è solo questione di tempo prima che questa bomba esploda. Sono molti i giovani che lo sanno e lo vivono sulla propria carne anche quando lo dissimulano con tante distrazioni e succedanei. Insomma, per essere felici si richiede sia di entrare in noi stessi che di scoprire quella realtà capace di concederci un’autentica esperienza di perdono, per poi perdonarci e perdonare. Ma perché questi argomenti così ovvi non ci vengono presentati come evidenti nella quotidianità?
4. Una società distratta
Perché le distrazioni tanto tipiche anche della nostra società dell’intrattenimento e dello spettacolo ci impediscono di affrontare la nostra infelicità con la serietà che comporta questo problema, il che dimostra quanto siamo poco felici in realtà, perché “se la nostra condizione fosse davvero felice non bisognerebbe distrarsi dal pensare ad essa” (Pascal). E anche se è vero, come notava Latourelle, che ci distraiamo, “a volte con l’intenzione innocente e inoffensiva di ricrearsi, di giocare (dallo sport al divertimento sociale e al lavoro scientifico), facciamo tante altre come fuga dall”entrare dentro di sé’ e ‘tornare a Dio’. Effettivamente divertirsi è allontanare l’attenzione da se stessi, dalla condizione miserabile di ciascuno, per non pensarci. In questo caso, ciò che interessa all’uomo nel divertimento non è tanto il suo oggetto quanto la ricerca di esso come fuga, ovvero l’emozione e il trambusto che gli impediscono di pensare a se stesso”. Per questo non bisogna sorprendersi per il fatto che tanti giovani tanto pieni di fare e sembrare siano (e si sperimentino) al contrario tanto vuoti a livello di essere, e per questo si gettino a cercare una pseudo-gioia in attività che li inducono solo a uno stato d’animo fittizio, che può offrire loro soltanto un piacere che non assomiglia affatto alla vera felicità.
Un caso evidente è l’euforia momentanea che producono il consume di droghe (lecite o illecite) o certi spettacoli (reali o virtuali) con cui si cerca di nascondere, sfuggire o dimenticare la profondità del problema. Detto questo, possiamo trarre una conclusione importante: ci sono attività che pur offrendo grande piacere non fanno altro che allontanare l’uomo da se stesso, dagli altri e dalla realtà, e per questo motivo sarebbe ingiusto dichiararle fonti di autentica felicità. Come diceva con una sincerità quasi ingenua Robert Spaeman, “la felicità è più che essere allegri o sentirsi bene. Al contrario, l’uomo più felice dovrebbe essere quello che si tiene narcotizzato per un paio di decenni, lasciato in uno stato di euforia artificiale sulla base della somministrazione di sostanze stimolanti mediante fili collegati al cervello. Ma chi di noi vorrebbe sostituirsi a lui? Nessuno. Preferiamo la vita reale. Perché la felicità ha a che vedere con la realtà, e questo è esattamente quello che sottolinea l’etica”.
5. Una risposta concreta: il cristianesimo
Ecco una chiave fondamentale: la felicità non può essere una negazione o una fuga di fronte alla realtà, quanto piuttosto la sua accettazione e trasformazione in positivo, partendo da noi stessi e proiettandola verso gli altri. Penso che sia stata questa l’intuizione che ha portato Aristotele a identificare la felicità con la buona vita, intesa come il buon esercizio della volontà che optando per il bene in modo concreto qui e ora realizza la vita virtuosa che rende pieno l’uomo. Sì, perché la felicità ha a che vedere con la realtà concreta, e specificatamente con la bontà che deriva dall’uomo concreto, dall’uomo vivente, qui e ora. Tutto il resto dovrebbe essere subordinato a questo.
Il cristianesimo, dal canto suo, non ha fatto altro che confermare queste intuizioni dei saggi filosofi greci, ma portandole alla loro pienezza, perché anche se è vero che la vita virtuosa riempie il cuore dell’uomo fornendogli un’esperienza di realizzazione e felicità attraverso la riconciliazione e l’amore (anche del perdonare e dell’essere perdonati), queste attività diventano impossibili, perché non essendo collegate all’amore eterno di Dio si inseriscono in un orizzonte di perfezione troppo umano, in cui l’incondizionalità del perdono e dell’amore erano praticamente impensabili e impossibili. Pur con grandi virtù, si potrebbe essere felici senza perdono e senza speranza? No. Ma come si potrebbe perdonare l’imperdonabile (i nostri peccati più terribili, ad esempio, o i nostri nemici e i loro peccati) o sperare contro ogni speranza (di fronte alle calamità più atroci)? Così non c’è vita che tenga. Tutto sarebbe assurdo, se non fosse che Dio entra nel profondo di noi per colmare con il suo Amore le dimensioni più tragiche e irrazionali della nostra esistenza. Solo se esiste una fonte di amore eterna nel più profondo del nostro cuore si possono prevedere attività di uguale condizione. Sì, perché c’è una serie di attività che si possono proiettare e sopportare nel tempo solo grazie a una promessa d’amore che si proietta dall’interno all’eterno. In altre parole, il perdono e l’amore più profondi, a loro volta un requisito della felicità e che spingono alle virtù più elevate, sono possibili solo se sostenute da un Amore infinito capace di colmare gli spazi di dolore e di attesa che implicano. E qui riprendiamo un punto cardinale del motivo per il quale crediamo che la felicità autentica senza l’elemento divino sia debole fino quasi a diventare impraticabile. Perché nessuno ama o perdona ciò che non conosce, e l’unico modo per far sì che sia possibile amare e perdonare prima noi stessi per poi amare e perdonare gli altri è se in fondo al nostro cuore Dio ci rivela, ama e perdona la nostra miseria più profonda, svelando così la nostra dignità più elevata.
Perché solo Lui conosce gli abissi e i misteri più profondi di noi stessi e può colmare questi spazi infiniti con il suo amore. È così, almeno per il cristianesimo, perché dall’incarnazione, come ci ha insegnato Papa Benedetto seguendo il pensiero di Sant’Agostino, “la lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: «Tu infatti – riconosce Agostino (Confessioni, III,6,11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta», interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – «tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te» (Confessioni V,2,2). […] Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessioni, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: «Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te» (I,1,1)”.
6. Con Dio tutto acquista un nuovo senso
Dall’altro lato, in molte occasioni per raggiungere un gesto d’amore o di perdono reale, sia verso noi stessi che verso gli altri, è richiesto un sacrificio d’amore. Anche quando non sperimentiamo in modo immediato o evidente una gioia, possiamo grazie a Dio superare quella che sarebbe una linea di proiezione verso l’assurdo, perché in Lui tutti questi atti acquisiscono una dimensione eterna, diventando atti pieni di significato (e potenzialmente capaci di donare profonda felicità anche in mezzo al dolore), perché essendo uniti al suo Amore ci permette di dinamizzarli e di proiettarli verso una dimensione eterna, dando loro una consistenza e un senso che prima non potevano avere. Divinizzando così la nostra attività con il suo amore, le nostre buone azioni (o la vita buona) trascendono il tempo e lo spazio e ci permettono di puntare più in alto verso una gioia non solo presente ma futura, che ora gustiamo solo in parte. Se non fosse così, tante attività sarebbero inutili, e sotto la prova del tempo diventerebbero insopportabili o assurde. Solo nell’amore di Dio tutto si inserisce e acquista senso; solo allora si capiscono e si può parlare di una felicità realistica che assume tutta la drammaticità della vita umana, sempre intessuta di gioie e dolori. Non si tratta né di cercare solo le attività che ci diano piacere né di accettare stoicamente il dolore, ma di intessere la complessità delle nostre azioni con l’eterno, lasciandoci colmare dall’amore di Dio che ci reconcilia e ci salva, superando qualsiasi paradosso di retribuzione immediata. In questo caso le nostre attività, aprendosi e accogliendo pienamente il soprannaturale, acquisiscono un altro tipo di consistenza, diventando eterne, perché come ricordava con zelo poetico San Paolo “la carità non avrà ma fine” (cfr. 1 Cor 13). Con l’amore divino la nostra attività si divinizza anche nelle sue dimensioni più misteriose e oscure. Questo è il fine ultimo e la fonte di pienezza dell’uomo.
7. La fede e l’amore, gli autentici “narcotici”
In questo senso, la fede e l’amore diventano gli autentici narcotici, che anziché allontanarci da noi stessi, dalle cose e dagli altri lasciandoci in uno stato di irrealtà ci avvicinano pienamente a queste dimensioni, dandoci accesso a un contatto più profondo e incarnato che ci svela il senso autentico dell’universo. La nostalgia della felicità, nel caso in cui sia colmata da succedanei, diventa rapidamente malinconia che dissangua la memoria, perché ci lascia quel gusto amaro che nasce dall’impotenza di non poter portare al presente né afferrare ciò che cerchiamo, mentre nel caso sia colmata da Dio la nostalgia sperimenta piuttosto una dilatazione che illumina la mente e proietta la memoria verso un futuro pieno di speranza; futuro che ci permette di vivere il presente anche nelle sue più dure oscurità con gioia, perché ci permette di gustare in anticipo una traccia reale della fonte eterna che un giorno placherà definitivamente la nostra sete.
Questo testimonia e conferma, come rifletteva Pascal, “che c’è stata una volta nell’uomo una vera felicità, della quale non resta che il segno, l’impronta vuota, e che cerca inutilmente di riempire con tutto ciò che lo circonda” ma invano, “perché questo abisso infinito può essere riempito solo da un oggetto infinito e immutabile, ovvero da Dio stesso”. Bisognerebbe aggiungere che non è solo per la sua condizione di infinito che Dio può colmare il cuore dell’uomo, come se si trattasse di un oggetto personale che verrebbe a tappare un buco vuoto, no, niente di tutto questo. Si tratta piuttosto di una relazione amorosa con Lui che permette a Dio di riempire il nostro cuore con il suo amore infinito.
Non diciamo niente di nuovo, perché “questa esperienza di una vita interiore e di un amore vissuto in intimità con Dio è stata imprescindibile in qualsiasi epoca per trovare la vera felicità” (cardinale Sarah). Solo chi raggiunge questa profonda felicità è capace a sua volta di raggiungere la vera libertà interiore, quella che non dipende più da nulla di esterno, in cui come dicevamo tutto è mutevole e relativo. La libertà di scoprirsi amati da Dio diventa la fonte di una felicità incondizionata e piena. Ogni uomo di qualsiasi razza, condizione sociale, caratteristica fisica, status, ecc., può scoprirsi amato e perdonato infinitamente. È questa che San Paolo definisce la libertà dei figli di Dio, e in realtà basta e avanza per raggiungere una profonda felicità. Diceva con infiammata passione un Padre del Deserto: “Quanto sbagliano coloro che cercano la felicità fuori da se stessi, in divertimenti e cose vane, che hanno un finale amaro! È come costruire la torre della felicità fuori da noi stessi, come costruire una casa in un luogo costantemente scosso dai terremoti. La felicità si trova dentro di noi, e beato l’uomo che ha capito questo. La felicità è un cuore puro, perché questo cuore diventa il trono di Dio. Così dice Cristo di chi ha un cuore puro: ‘Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo’ (2 Cor 6, 16) Cosa potrebbe mancare? Nulla, assolutamente nulla! Perché possiedono il bene più grande nei loro cuori: Dio stesso!” (San Nettario di Egina, Via verso la Felicità, 1).
8. La gratuità di un amore infinito
È abbastanza ovvio che chi vive radicato nella profondità di se stesso e scopre la gratuità di un ammore infinito accende uno sguardo che contempla tutto come un grande miracolo, un dono ricevuto, e per questo diventa una persona eternamente grata anche delle cose più piccole. L’amore e la fede ci donano questo sguardo pieno, pieno di gratitudine e gioia, che fa rinascere questo mondo che tante volte rischia di morire di noia e tristezza. Lo descriveva con parole belle e penetranti il sacerdote eremita Nicolae Steinhardt nel suo libro “Il diario della felicità”, in cui diceva:
“Le parole, nel linguaggio quotidiano, diventano una routine, si banalizzano, si automatizzano. Cosa fa il poeta? Rende singola la parola per infonderle la forza di produrre una sensazione: rinnova la percezione esaurita e rivitalizza la facoltà della parola per tirarla fuori dal suo letargo. La fede agisce allo stesso modo. Ci riscopre il mondo, gli uomini e la vita e ci tira fuori dall’amarezza, dalla noia. Rinnova e rinvigorisce, come l’arte del poeta o del pittore. La nostra capacità di scoprire ciò che c’è di buono e di bello diventa all’improvviso potente. Ora l’amore vince le barriere dell’indifferenza e della paura, abbatte i tetti e i muri che ci chiudono in un egoismo eternamente ferito e irritato. All’improvviso le percezioni – sia quelle morali che quelle sensibili – si intensificano vertiginosamente. Il mondo è un altro per il credente – un mondo ricco, nuovo, attraente, accattivante, euforico –, come per l’artista nei momenti di ispirazione. Agisce lo stesso potere: la grazia santificatrice (anche il tossicodipendente ha accesso all’euforia, ma visto che tutto si paga l’artificio a cui deve ricorrere fa sì che l’ottenimento dello stato di incanto e di riscoperta dipenda da prodotti materiali e dal concorso di altri uomini che compromettono la sua tranquillità e la sua felicità per il resto della sua vita; la dialettica non perdona, e l’atarassia dei tossicodipendenti passa per l’agitazione e l’ossessione, che sono i pilastri dell’inferno)”.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]