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E’ solo il burqa che copre le donne e le rende tutte uguali?

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Annalisa Teggi - pubblicato il 11/09/17
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L’eccesso di libertà, soldi e vanità copre il viso con un velo integrale di uniformitàAccidenti, mi è spuntato un pelo bianco tra le sopracciglia. Altro che ago nel pagliaio, è proprio un faro nella notte: visibilissimo, quasi brillante. Ai capelli bianchi sono già abituata (anche a coprirli), ma non avevo pensato che anche le sopracciglia s’imbiancano. La mia parrucchiera si lamenta perché ho sempre troppi capelli, nonostante le gravidanze: “Potevi perderne un po’, così io facevo meno fatica!” – mi dice ridendo e sforbiciando. Non ne ho persi, ma dopo il terzo figlio sono spuntate frotte di capelli bianchi, non più uno ogni qualche ciocca. La risposta giusta è shatush, quei riflessi che moltiplicano le sfumature nella chioma, così che il capello bianco scompaia in mezzo a mille tonalità di castano chiaro, biondo scuro, ramato.

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© Annalisa Teggi

Io: selfie con filtro migliroa-viso

E poi la fronte, ho sempre il viso corrucciato perché non mi rilasso facilmente. Ma anche quando lo distendo, le rughe restano … non sono da atteggiamento, sono solchi veri e propri. Accidenti, il tempo passa. La risposta giusta è Snapseed, il foto ritocco per migliorare i selfie: c’è il filtro “migliora viso” che rende la pelle liscia e luminosa. Lo uso e mi vedo ancora carina, dai.

Non si può fare i bacchettoni su questo argomento, Narciso siamo tutti. Guardiamo il nostro volto allo specchio, ne scrutiamo i difetti (che altri trascurano, ma noi li vediamo benissimo), prendiamo atto del passare del tempo, abbiamo sulla mensola la crema al collagene e nel cassetto il correttore per le occhiaie. Ci sta. E non è di questo che voglio parlare, ma di un altro stillicidio subdolo che subiamo ogni giorno.

Il corpo della donna, quanto se ne parla! Le discussioni coprono uno spazio mentale più vasto delle praterie americane. Dal femminicidio all’aborto, dalla sacralità di certe ossa alla sacrosanta scelta di frantumarne altre: il corpo della donna è quello troppo spesso violato dalla furia di maschi bestie, il corpo della donna è quel sacro spazio di libertà che le permette di fare scelte che non devono subire il giudizio altrui. Sulla donna non si deve fare violenza, e lei è libera di fare violenza a ciò che porta in grembo se quella è la sua scelta. Si nuota in un mare vasto e contraddittorio, parlando del corpo della donna.

E bazzicando in queste acque, s’incontrano altre contraddizioni o, se vogliamo, similitudini impensabili. È stato molto divertente seguire le peripezie mentali di certi giornalisti nel programma In Onda di LA7 obbligati a tenere i piedi su due staffe (traballanti): in trasmissione dovevano difendere la libera scelta (?!?!?) delle donne musulmane di velarsi, ma poi dovevano essere altrettanto entusiasti di passare la linea al programma successivo, vale a dire la finale di Miss Italia. È stata una frizzante difesa del burqa e delle gnocche in costume da bagno, in contemporanea.



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La parte del programma che più mi ha lasciata a bocca aperta (e poi mi ha fatto riflettere) è accaduta quando, pur di svilire chi criticava la cultura che obbliga la donna a mostrarsi in giro senza un centimetro di volto scoperto, i filo pacifisti-accolgotutto-amiamocitutti hanno sfoderato la differenza tra niqab e burqa, come se trattare i due veli in modo indistinto fosse un atto di sacrilegio da pezzenti ignoranti.  “Tu che non sai distinguere un niqab dal burqa devi stare zitto, non puoi dire che la donna che li porta è una schiava!”. Arrampicarsi sugli specchi versione deluxe.

BURQA NIQAB

World Bank Photo Collection CC BY 2.0/Steve Evans CC BY 2.0

D’accordo, c’è differenzama non così tanta differenza, non abbastanza differenza da dire che uno o l’altro siano rispettosi della dignità femminile. Ma il fatto più esilarante era osservare chi discuteva: da una parte e dall’altra della barricata c’erano donne agiate (politiche e giornaliste famose) dal viso truccatissimo e levigatissimo. Le gote belle rotonde, nessun segno di rughe, le labbra belle turgide. Era come vedere uno che litiga allo specchio con se stesso. Potevano essere cloni, perché – l’ho capito guardandole – indossavano il burqa ialuronico, quel sistema di oppressione della donna fondato sulla sua vanità (e sulle punturine di botox, filler di acido ialuronico, e altro). Erano tre maschere identiche che disquisivano sulla differenza di due veli integrali.

Ironico. Per non dire amaro. È uno strumento di oppressione di massa che subiamo per esperienza indiretta: l’uniformazione delle facce famose verso un volto-Barbie levigato, gonfio, turgido. Non lo dicono tutti che i visi rifatti sono tutti uguali? E le donne col burqa non sono forse un gregge indistinto?

L’alfa e l’omega della repressione s’incontrano. L’eccesso di libertà, soldi e vanità copre il viso con un velo integrale di uniformità, identico a quello che usa l’oppressione che svilisce la donna non mostrando neppure i suoi occhi. Un esempio tra molti: Belen Rodríguez, Rosa Perrotta, Anna Tatangelo.

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D’accordo, c’è differenza; ma non così tanta differenza. D’accordo, la meno famosa copia la più famosa; però sono le stesse labbra, le stesse sopracciglia, le stesse gote che si ritrovano su decine di altre soubrette. Sono gli stessi nasi piallati e tette a palloncino che camuffano i corpi di attrici, modelle, giornaliste.

Il burqa ialuronico è un messaggio desolante, ma per fortuna è solo una bolla di sapone.  Nondimeno è uno strumento di oppressione che ci ammicca dietro ogni programma televisivo: un gregge umano perfetto e finto, che sembra felice e pieno di soldi e soddisfazioni. Svela anche il suo veleno. Sì, perché se desideri quel genere di felicità patinata (e poco reale) la posta in gioco è la medesima schiavitù del burqa: la tua identità non vale più nulla, tu – in quanto anima irripetibile – sei un nulla.

Da questo patinato mondo di cloni che gira per i talk show dobbiamo sentirci dire che le differenze sono il sale del mondo. Loro credono fermamente nella pace universale tra bianchi, neri, biondi, mori, alti e bassi. Eppure sono tutti uguali.  Sono loro gli ambasciatori dell’integrazione? Mi sa che sono i portabandiera della dittatura occidentale del consumismo e dell’individualismo, il cui matrimonio d’interesse genera il figlio più pericoloso del mondo: massificazione.

In un gregge di pecore non c’è mai un animale uguale all’altro, ma nel mondo della comunicazione di massa i volti sono davvero tutti uguali.

Per fortuna, la terapia di disintossicazione è facile: si chiama spiaggia, bar, supermercato, piazza. Si chiama realtà. Lì dove un uomo incontra un altro uomo, e dove una donna incontra le altre donne, si ride e si litiga a crepapelle. Si ride della donna di mezza età che ci ha provato a farsi la tinta da sola, senza però riuscire a coprire i capelli bianchi che ora sono di un violetto fluorescente. Si ride della cellulite propria, constatando che è un guaio certamente comune. Si litiga per il parcheggio, perché io sono arrivato prima. E con quella sana incoerenza – tipicamente – umana quelli che mandano a quel paese mezza popolazione del proprio vicinato, vanno di cuore a fare volontariato in parrocchia.

Amo questa genuina incoerenza, quella di chi è molto imperfetto ma è sincero quando – una volta ogni tanto – desidera fare un gesto buono. Amo le donne che sbagliano la tinta, e vorrebbero essere come Eva Longoria sulla confezione di Elvive. Amo i piccoli vezzi ridicoli della vanità.



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Detesto il contrario, cioè l’idolatria della perfezione che sbandiera prediche sulla bellezza della semplicità. Detesto che il telegiornale abbia la presunzione di raccontarci la verità, ma che questa debba essere pronunciata da un volto televisivamente capace di catturare audience.

Amo le mie amiche che si mettono gli occhiali da sole se hanno le occhiaie e detesto ogni forma di burqa. In breve, amo l’umiltà che può permettersi piccoli vezzi strampalati e detesto la superbia velata; sì la superbia velata di dolci sorrisi accondiscendenti, la superbia che si fa velare da ogni forma di schiavitù e svilisce l’umano, credendo di ammantarsi di conquiste.

 

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