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A proposito dell’“ideologia tradizionalista” di cui parla il Papa

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 08/09/17
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L’espressione, recentemente utilizzata dal Pontefice, riapre un annoso dibattito: cerchiamo di fare chiarezza indicando il nesso tra dottrina e liturgia, nonché la continuità tra i pontificati romani

Qualche giorno fa abbiamo tradotto e pubblicato, su queste nostre pagine, dei succosi estratti di un’intervista pubblicata sul Figaro, a sua volta anticipazione di un libro-intervista di Papa Francesco. Ancora una volta, il Santo Padre è risultato spiazzante e scomodo a destra e a manca, e c’è stato un passaggio del testo in cui il dribbling “destra-sinistra” è stato così veloce da lasciare qualcuno disorientato: per due volte veniva usata la parola “ideologia” – una quanto al gender e una quanto al tradizionalismo.

Il testo

Ecco il passaggio:

Che pensare del matrimonio di persone dello stesso sesso? “Matrimonio” è una parola storica. Da sempre, nell’umanità, e non solamente nella Chiesa, s’intende cosa di un uomo e una donna. Non si può cambiare questa cosa così, alla carlona… […] Non si può cambiare questo. È la natura delle cose. Le cose sono così. Allora le chiamiamo “unioni civili”. Ma non scherziamo con le verità… è vero che dietro tutto questo c’è l’ideologia del gender. Anche nei libri i bambini imparano che uno può scegliere il proprio sesso. Perché il genere, essere una donna o un uomo, sarebbe una scelta e non un fatto di natura? Ecco cosa favorisce questo errore. Ma diciamo le cose come stanno: il matrimonio è un uomo e una donna. Ecco il termine preciso. E chiamiamo “unione civile” l’unione dello stesso sesso.

Come cresce la tradizione? Cresce come una persona: col dialogo, che è come l’allattamento per il bambino. Il dialogo col mondo che ci circonda. Il dialogo fa crescere. Se non si dialoga, non si può crescere: si resta racchiusi, piccoli… nani. Non posso accontentarmi di camminare coi paraocchi: io devo guardarmi intorno e dialogare. Il dialogo fa crescere, e fa crescere la tradizione. Dialogando ed ascoltando un’altra opinione posso, come nel caso della pena di morte, della tortura, dello schiavismo, cambiare il mio punto di vista. Senza cambiare la dottrina. La dottrina è cresciuta con la comprensione. Ecco la base della tradizione.

[…]

Invece, l’ideologia tradizionalista ha una fede così [mima i paraocchi con le mani]: la benedizione deve darsi così, le dita durante la messa devono stare così, “con i guanti”, “come si faceva prima”… Ciò che il Vaticano II ha fatto della liturgia è stato veramente una grandissima cosa. Perché ha aperto il culto di Dio al popolo. Adesso il popolo partecipa.

Non sappiamo (ancora) se nel libro i due passi saranno così ravvicinati, ma di certo tutti i lettori del Figaro – prima ancora dei nostri – li hanno letti in questo modo, e quel che si ricava da questo taglio è appunto un movimento rapido che rompe uno dopo l’altro gli schemi di chi tira la mantellina del Papa a sinistra e quelli di chi la tira a destra.

L’“ideologia tradizionalista”

Che cosa sia l’ideologia del gender l’abbiamo già detto molte volte e, se dall’altra parte della barricata chi tiene le leve della propaganda grida a squarciagola che “il gender non esiste”, dobbiamo purtroppo constatare che dalla scuola alla televisione al governo sono evidenti le forti pressioni di una piccola ma violenta lobby che intende piegare le menti alle ricadute del peggior decostruzionismo.

Non intendiamo però attardarci oltre su questo argomento: ci preme invece confrontarci con l’“ideologia tradizionalista”, che nel corso del suo pontificato Papa Francesco ha denunciato non meno dell’altra, in una forma o nell’altra. Se ci chiediamo “che cos’è” codesta ideologia, possiamo senz’altro partire anzitutto dalle parole in cui il Papa la stigmatizza, visto che già di una risposta si tratta. E ricaviamo che essa:

  1. nega il progresso della Tradizione;
  2. si manifesta sul piano liturgico per una sclerosi formalistica.

Due punti che solo a un profano delle discipline sacre possono sembrare accostati accidentalmente. In realtà il loro legame è intrinseco e mai sufficientemente sottolineato. Proviamo a spiegarci.

Il progresso della Tradizione

Che il Papa prenda a parlare dell’“ideologia tradizionalista” considerando «come cresce la tradizione» è un velato richiamo al celeberrimo capitolo 23 del (Primo) Commonitorio di Vincenzo di Lérins (scritto intorno al 434):

Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.

Chi infatti può esser talmente nemico degli uomini e ostile a Dio da volerlo impedire? Bisognerà tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.

È necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto. La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi. Questi infatti, pur crescendo e sviluppandosi con l’andare degli anni, rimangono i medesimi di prima. Vi è certamente molta differenza fra il fiore della giovinezza e la messe della vecchiaia, ma sono gli stessi adolescenti di una volta quelli che diventano vecchi. Si cambia quindi l’età e la condizione, ma resta sempre il solo medesimo individuo. Unica e identica resta la natura, unica e identica la persona.

Le membra del lattante sono piccole, più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura esistevano già, come tutti sanno, nell’embrione, sicché quanto a parti del corpo, niente di nuovo si riscontra negli adulti che non sia stato già presente nei fanciulli, sia pure allo stato embrionale.

Non vi è alcun dubbio in proposito. Questa è la vera e autentica legge del progresso organico. Questo è l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita. Nell’età matura di dispiega e si sviluppa in forme sempre più ampie tutto quello che la sapienza del creatore aveva formato in antecedenza nel corpicino del piccolo.

Se con l’andar del tempo la specie umana si cambiasse talmente da avere una struttura diversa oppure si arricchisce di qualche membro oltre a quelli ordinari di prima, oppure ne perdesse qualcuno, ne verrebbe di conseguenza che tutto l’organismo ne risulterebbe profondamente alterato o menomato. In ogni caso non sarebbe più lo stesso.

Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.

I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.

È anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.

Poiché dunque c’è qualcosa della primitiva seminagione che può ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione.

L’analogia tra la dottrina e il corpo umano non è propria di Vincenzo – altri autori coevi e della stessa zona (ah, non si è ancora studiato a fondo il valore di quella benedetta isola provenzale nella storia del dogma…) usano perfino l’espressione “corpus veritatis”! – ma certamente solo in lui, tra quanti ci sono pervenuti, essa si trova così diffusamente tematizzata e sviluppata: Papa Francesco si richiamava a questa pagina perché, come è evidente, il dialogo e il confronto stanno alla tradizione come l’idratazione e la nutrizione stanno alla crescita.

In entrambi i casi si tratta del rapporto di un ente individuo ben preciso con delle alterità: il bambino con bevande e cibi, il cristianesimo con il “mondo”. In entrambi i casi si tratta di rapporti necessari, pena la morte del suddetto individuo – perché anche Cristo, mentre si preparava a “partorire la Chiesa”, dice: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10, 16). In entrambi i casi, in ultimo, si tratta di rapporti che presentano un rischio: un poppante può strozzarsi perfino col latte materno, e un adulto può restare intossicato da innumerevoli sostanze, alcune delle quali anche generalmente edule o potabili; così un credente neofita può perdere la fede anche per una parola evangelica fraintesa, e uno più progredito può restare “scandalizzato a morte” da controtestimonianze, difficoltà teologiche, ambiguità ecclesiali e molte altre cose. Ogni vita si vive respiro dopo respiro, nella natura e nella grazia – e in questo il buon vecchio Vincenzo di Lérins ebbe un’intuizione illuminante.

Va da sé: l’una e l’altra attività – ossia il mangiare e il bere per crescere e sostentarsi, come il confrontarsi e dialogare per vivere la fede e testimoniarla – sono sottesi a una costante attitudine al discernimento. Quando si va a funghi, ciò che si raccoglie va studiato e valutato con grande attenzione, da principio anche con la guida di un raccoglitore esperto, perché ogni singolo micete può essere letale, se somiglia molto a uno commestibile mentre è velenoso; così la vigilanza è d’obbligo anche nel confronto e nel dialogo, quando si vive la fede nel mondo (che poi è, per ora, l’unico luogo in cui ci sia dato di viverla).

Una serie di evidenze quasi banali, dette così, eppure se anche Luciano Ligabue – la cui musica da decenni ronza attorno ai fiori del cristianesimo senza mai produrne un miele genuino – riconosce come «vivere è un atto di fede: mica un complimento», resta sempre in agguato la tentazione di fuggire quel rischio. Quale rischio? Quello connesso a ogni discernimento: di sbagliare. Il che significa, nel caso del cibo, la necessità di un digestivo o di una lavanda gastrica d’urgenza; nel caso del dialogo, la necessità di un rimedio che riporti all’evidenza la continua identità della dottrina nel suo sviluppo. Vincenzo lo spiega bene: se il cibo viene assimilato e fa crescere l’uomo, nulla quæstio, e sarebbe sciocco discutere del mutare delle membra in fattezze e dimensioni (è la crescita naturale, appunto); se un cibo, pur non producendo un’intossicazione puntuale, causasse una “mutazione genetica” (nel V secolo non si diceva così, ma l’abate di Lérins la descrive con precisione), si dovrebbe denunciare e la mutazione e quel cibo che l’ha causata.

Facciamo un esempio fuor di metafora…

Se si applica la categoria tomista di transustanziazione alla dottrina eucaristica della Chiesa, nessun problema, perché gli scritti dei Padri e dei dottori ecclesiastici, pur non utilizzando quella specifica categoria, dicono precisamente la medesima cosa – idem, anche se non ipsum –; se invece in una nuova proposta teologica non è più possibile rintracciare la continuità con la fede pensata da quanti ce l’hanno consegnata, la fede, è segno che si sta smarrendo il sentiero. Fin qui nessun problema. Ora, i “tradizionalisti” sono quelli che arbitrariamente assumono questo o quel punto dello sviluppo del dogma, solitamente un punto chiaro e blasonato, e lo assolutizzano. Per restare nell’esempio, sono quelli – e ce ne sono, mi si creda! – che in nome della transustanziazione negano che la dottrina eucaristica di Ambrogio e di Agostino, per esempio, sia pienamente ortodossa (non risulta, in effetti, che parlino mai di “transustanziazione”): il minimo che possa conseguire da una simile impostazione è che non sia lecito proseguire in tentativi di un migliore sviluppo dottrinale, e che anzi quasi si escluda teoricamente che sia possibile tale sviluppo. Il che assomiglia, riportandola nella metafora, a prendere la foto di un ventenne nel pieno del rigoglio giovanile e dichiararlo “persona migliore” dello stesso uomo bambino e persona non passibile di ulteriore crescita, maturazione e sviluppo, “persona ideale”: una follia, evidentemente. Eppure è una cosa che capita, nella vita di fede, e nemmeno troppo raramente: chiaramente nell’analogia si ha un ipse che non è anche idem, mentre (come dicevamo) fuor di analogia è l’idem a non essere anche ipsum.

Eppure è proprio San Tommaso – che i “tradizionalisti” volentieri e surrettiziamente avocano a loro nume tutelare – a sconfessarli: l’Aquinate insegna infatti che

l’atto di fede del credente non ha per termine una categoria logica o un vocabolo [l’enuntiabile], ma ciò che questi appunto indicano [la res].

Tommaso d’Aquino, S.Th. II-II, q. 1, a. 2. ad 2.

Parole al vento, con i “tradizionalisti”: proprio come per il gender, quando una riflessione è condizionata da un pregiudizio ideologico (che sempre maschera un timore e cerca di tutelare da un rischio), c’è poca speranza di spuntarla con evidenze di ragione o di autorità.

Il fissismo formalistico in liturgia

Va bene, si dirà, ma che c’entra la liturgia? Non sarà che ci si sta accanendo con i “tradizionalisti” ora che il loro momento sembra “passato”? Rispondo, innanzitutto, dicendo che non c’è mai stato e non ci sarà mai, nella storia della Chiesa, un “momento dei tradizionalisti”: non potrà esserci esattamente come non potrà esserci quello del cristianesimo “alla moda”. Il cristianesimo è “di sempre”, quindi sfugge tanto a quelli che favoleggiano di un cristianesimo “di oggi” quanto quelli che arbitrariamente scelgono uno “ieri” da elevare a formula “di sempre” (riferimento esplicito alla dizione “Santa Messa di sempre” in merito alla celebrazione secondo il rito romano stabilito nel Messale Romano di san Pio V, frutto della riforma liturgica del Concilio Tridentino e nato nel 1570, cioè l’altro ieri, nella storia della Chiesa – altro che “sempre”!).

Quanto alla liturgia, lascio che sia un altro grande classico a spiegare perché Papa Francesco sia passato da un accenno allo sviluppo del dogma e alla Tradizione a un riferimento diretto al formalismo liturgico “coi paraocchi”: fu un altro grande provenzale (va bene, Limoges è in Aquitania, ma nella storia della teologia questi galli del V secolo vengono detti “provenzali” per comodità), il teologo laico Prospero, ad enunciare un altro principio importantissimo – nell’ottavo libro del De gratia Dei et libero arbitrio contra collationes si legge:

Ma guardiamo anche alle preghiere sacerdotali che, tramandate dagli apostoli, in tutto il mondo e in tutta la chiesa cattolica sono uniformemente celebrate, perché sia il modo in cui si prega a stabilire in che cosa si crede.

Parole adamantine, queste di Prospero, che spiegano perché gran parte della guerra dei “progressisti” (quell’altro cancro che impesta la Chiesa) si svolga sul campo di battaglia della liturgia: chi si prende questo campo vince, perché più facilmente e più pesantemente può condizionare la fede dei singoli (e il pensiero dei credenti, evidentemente). La posta in gioco è altissima, e non per altro Benedetto XVI ha messo al centro del proprio pontificato un bilanciamento degli effetti della riforma liturgica, che se da un lato ha insistito moltissimo per riabilitare le sensibilità legate al vetus ordo (e farle uscire da quel ghetto di paria in cui la furia iconoclasta postconciliare le aveva relegate); dall’altro ha battuto non di meno per sanare i preziosi frutti della riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II dagli abusi di non pochi preti e (ahimè) vescovi.

Recentemente Papa Francesco stesso – che nelle prime settimane di pontificato silenziò seccamente quanti chiedevano l’abrogazione del Summorum Pontificum di Benedetto XVI – ha dichiarato che «la riforma liturgica del Vaticano II è un evento irreversibile». Per spiegare però in che senso tale riforma sia irreversibile ci piace riprendere proprio uno scritto importante del futuro papa del Summorum Pontificum, che nel 2000, quindi da maturo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicava (allora in tedesco, nel 2001 in italiano) la sua Introduzione allo spirito della liturgia, chiaramente ispirata all’analoga opera di Romano Guardini. Nell’introduzione, che reca la data del 28 agosto 1999, memoria di sant’Agostino (non di san Tommaso…), il cardinal Ratzinger ricordava i tempi di Guardini e scriveva:

Si potrebbe dire che la liturgia era allora – era il 1918 –, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e – in maniera definitiva [corsivo d.R.] – grazie al concilio | Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina.

Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, 5-6

Un “nuovo conciliarismo”

Il rischio. Ecco cosa Ratzinger vedeva e denunciava, mentre cantava la meraviglia addotta dalla riforma liturgica del Vaticano II. Lo stesso rischio per paura del quale nasce il “tradizionalismo” – una tentazione cui non solo Ratzinger non cedette mai personalmente, ma che anche col Summorum Pontificum, dieci anni fa, cercò di stornare da tutta la comunità cristiana.

Ora ecco perché i “tradizionalisti” (la Tradizione è una cosa così bella e nobile che non oso scrivere “tradizionalisti” senza virgolette) sono un serio pericolo per la Chiesa, e devono essere denunciati con la massima e più ferma chiarezza. Con le parole del sociologo e teologo Massimo Introvigne:

Se i fondamentalisti protestanti si richiamavano alla lettera della Bibbia, i cattolici si rifanno alla Tradizione. Cristo non ha scritto una riga, non ha lasciato libri ma successori, persone vive, in carne e ossa: gli apostoli e i papi. Sono il pontefice e i vescovi uniti a lui che definiscono cosa sia la tradizione oggi. Il fondamentalismo cattolico impugna la tradizione contro il Papa. O meglio, un’idea prefissata di tradizione.

Così come tra Jan Hus e il Concilio di Costanza si disputò ferocemente del primato ecclesiologico e dottrinale tra il Papa e il Concilio Ecumenico. La bizzarra ironia della storia porta poi i sedicenti papalini (i “tradizionalisti”, appunto) a raccogliere il testimone dei conciliaristi.

Per fortuna che c’è Pietro. Cioè Benedetto XVI. Cioè Francesco.

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