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La preghiera ha cambiato la mia vita

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MIENMIUAIF - MIA MOGLIE ED IO - pubblicato il 22/08/17
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Una commovente testimonianza dell’azione di Dio nella storia personale di una giovane donna. Tra prove, dolcezza inattesa e promesse mantenute dal SignoreDi Romana Cordova

In quest’ultimo periodo ho ascoltato a Medjugorje, e non solo, tante testimonianze di conversione, racconti di storie di vita e dei modi, vari e unici come è unica ogni persona, in cui la fede è stata determinante, in cui credere e affidarsi all’amore di Dio è stata la chiave che ha aperto le porte di una vita piena.

Racconti che spiegano annunciano affermano come la vera gioia, la pace, la salvezza terrena prima ancora che eterna si trovano solo in Gesù.

E allora ho pensato di raccontarvi la storia della mia vita finora, per testimoniare anch’io quanto in Dio sia il senso di tutto, della gioia e del dolore, nelle sue vie incomprensibili il più delle volte, nelle prove, anche in quelle aspre e difficili, nei tempi di prosperità, in ogni attimo. Leggerete tanta sofferenza, ma l’amore di Dio è incommensurabile e quello che voglio dirvi con la mia storia è proprio questo: siamo amati!

Parto dall’inizio.

L’infanzia in una famiglia “formalmente” cattolica

Ho avuto un’infanzia piena di affetto, attenzioni, coccole, ma triste. Una famiglia formalmente cattolica, a Reggio Calabria. Mio padre faceva l’avvocato (da giovane era stato pieno di interessi, aveva preso due lauree, una in Economia e lavorato per un po’ come commercialista, poi in Giurisprudenza e nel frattempo fin dai diciotto anni era giornalista per un quotidiano locale), mia madre era insegnante di Lettere.

Avevano saldi principi di stampo cattolico, soprattutto mio padre, mia madre era più influenzata da alcune idee che hanno sedotto milioni di persone dagli anni 60/70, in particolare per quel che riguarda il ruolo della donna, anche se in modo attenuato dalla cultura cattolica che comunque era molto presente nelle città del sud. Erano praticanti in modo superficiale, senza assiduità e soprattutto non pregavano.

Entrambi eccessivamente legati alle loro famiglie d’origine, soprattutto mia madre, sono stati più volte sull’orlo della separazione, senza mai farlo, e di questo sono felice. I motivi erano incomprensioni dovute all’intrusività dei parenti, alla mancata costruzione di un’unione sponsale profonda e forte e preminente su gli altri affetti parentali. L’orgoglio di entrambi è sfociato in una guerra fredda molto pesante per me.

Questo acuito dal fatto che ero rimasta figlia unica e che tranne la scuola, unico luogo in cui frequentavo coetanei, stavo sempre con gli adulti, e mi mancava la spensieratezza di quell’età. Mi sentivo sola e tanto oppressa, infelice al punto che a dodici anni pensavo che avrei tenuto duro fino ai diciotto e poi se niente fosse cambiato mi sarei buttata da un balcone come soluzione per non soffrire. Era un ragionamento influenzato anche da quel modo di pensare, oggi sempre più diffuso, che vede la morte come soluzione per fuggire dalle sofferenze in un’autodeterminazione per cui si decide se vivere o no in base al tipo di qualità di vita che si vuole. E cioè un atteggiamento depresso. Desideravo una famiglia pur avendola, desideravo l’armonia, nonostante non fossi minimamente trascurata dai miei genitori che avrebbero dato la vita per me.

Le prove e il desiderio di felicità

Malattia e morte del padre e della nonna paterna

Avevo quattordici anni quando mio padre scoprì di avere un tumore ai polmoni ed esattamente l’anno successivo, dopo chemioterapia e la grazia di avere pochissime sofferenze rispetto a quelle previste in quei casi, muore. L’anno successivo si ammala di mielite e in pochi mesi muore anche la mia nonna paterna, a cui ero strettamente legata, e io ho vissuto un dolore fortissimo aggravato dal fatto che lei non era amata da nessuno, per colpa sua dicevano, fatto sta che non era amata né capita, quindi per me quel periodo è stato un’esperienza di solitudine, sua e quindi anche mia, immensa, lacerante. Ho passato così l’anno dei miei sedici anni.

Trascorro quegli anni di adolescenza dopo la morte di mio padre catapultata nell’atmosfera dei parenti di mia madre, genitori, fratelli, ma soprattutto i numerosi zii e cugini che lei era felice di riprendere a frequentare assiduamente e a cui era fortemente legata. Finita la scuola mi iscrivo all’università come tappa obbligata per far qualcosa, per seguire l’onda. Scelgo Lettere moderne solo perché per me era una cosa facile, ma senza alcuna passione, interesse. Il mio desiderio per la vita era solo costruirmi una famiglia. Non ho sviluppato passioni da coltivare o l’interesse per un’attività lavorativa per esprimere le mie potenzialità. Mi mancavano le basi. Quello che cercavo era il calore umano, il calore di una famiglia, amicizie, amare ed essere amata, relazioni affettive profonde e durature. Forse anche per questo non mi interessavano i fidanzatini adolescenziali, quelle cose che sapevi che difficilmente sarebbero state per sempre. E quindi non ne avevo mai avuto uno. Mi invaghivo delle ipotetiche suocere e delle famiglie dei ragazzi più che di loro, cercando un modello di donna a cui ispirarmi, che era sempre la madre di vari figli, classica, raffinata, casalinga, con una bella casa. Sognavo. Speravo nel futuro.

Malattia e morte della madre

Conclusa l’adolescenza, avevo ventun’anni quando mia madre si ammala di tumore al seno. Diagnosi precoce, operazione, chemio. Sembrava tutto sconfitto ma un anno e mezzo dopo arrivano le metastasi al fegato e in pochi mesi dopo nuova chemio e radioterapia con tutto quello che comporta vivere la malattia, e farlo sola io e lei come famiglia, ma con la pressante e costante, amorevole forse per lei, ma estenuante per me presenza dei suoi parenti, muore circa un mese dopo la mia laurea.

A ventitré anni mi ritrovo sola al mondo.

E in questa condizione ho vissuto per nove lunghi anni, fino a quando poi ho incontrato mio marito. Lunghi anni in cui ho conosciuto la disperazione, la ricerca del senso della vita, il vuoto, la speranza, lo sconforto, le incomprensioni, le maldicenze, il pietismo, tanto tanto pietismo, la superficialità della gente, l’aiuto, ancora il vuoto e ancora la speranza. E la fede.

La solitudine

Sola al mondo. Il pensiero di farla finita come soluzione per non soffrire, per una vita la cui qualità mi terrorizzava, per una vita che non mi sembrava vita in quelle condizioni, c’è stato nei primi mesi. Ma, grazie a Dio, il pensiero che era il momento di attuarlo mi faceva ancor più ribrezzo, dal più profondo della mia anima c’era un rifiuto, istintivo, viscerale. Non ce l’avrei mai fatta a suicidarmi. E così ho capito che non potevo fare altro che sopravvivere, con la speranza, cieca, aggrappata allora solo vagamente a Dio, di riuscire poi a vivere, col sogno di vivere bene.

La solitudine annienta. Il fatto di non appartenere, di non aver nessuno da amare e da cui essere amata, di abitare da sola, di occuparmi di tutto da sola, mi toglieva il senso del vivere.

C’erano i parenti, ma tra me e loro non c’erano mai stati rapporti veri, profondi, e dopo qualche tentativo con alcuni di instaurare una vicinanza familiare ho dovuto allontanarmi. Con alcuni c’era troppa diversità di mentalità, di vedute, in particolare poi per le antipatie passate tra alcuni di loro e mio padre, soprattutto con mia nonna, sentivo come se avessi dovuto rinnegarlo, rinnegare una parte di me, i tratti suoi in me che a loro certo non piacevano. Altri proprio non volevano o non sentivano di aiutarmi veramente, il loro unico interesse era chiaramente solo apparire buoni agli occhi degli altri, per cui io me ne sono allontanata. Ovviamente ho subìto attacchi, non diretti, ma subdoli che si sono manifestati successivamente perfino in lettere anonime indirizzate ad ambienti e ad amici che frequentavo, che miravano a screditarmi e a farmi apparire come una cattiva persona sottolineando la bontà dei parenti da cui io mi ero allontanata.

Incontri: un medico diventa il primo testimone dell’amore di Dio

Nel periodo del primo tumore di mia madre la paura di poter rimanere da sola e l’infelicità di quella vita che sentivo troppo stretta mi aveva portata a iniziare la psicanalisi da un dottore molto conosciuto e amato in città. E, rimasta sola, lui è stato la mia fonte di salvezza. Di sicuro uno strumento del Signore e il primo che mi ha portata verso di Lui. Data la mia situazione di totale mancanza di affetti, il rapporto con lui è poi cambiato, il rapporto professionale è venuto meno ed è diventato un sostegno parentale, infatti lo chiamo zio, perché da zio si è comportato, fornendomi aiuto nelle varie vicende pratiche e burocratiche di ogni tipo, presentandomi come sua nipote, fornendomi così calore e protezione.

Ma soprattutto mi ha formata umanamente, mi ha insegnato a vivere, trasmettendomi anche la sua fede. Gran parte di come sono lo devo a lui. Il fatto che lui mi volesse bene mi ha dato la forza di andare avanti. Quando inizialmente gli ho chiesto perché faceva tanto per me senza trarne nessun vantaggio e senza avere nessun dovere verso di me, in modo così chiaramente donativo, lui mi ha risposto: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Io non sapevo in quel momento che fosse una frase del Vangelo, che fosse parola di Gesù, ma quelle parole mi hanno dato vita nel profondo del cuore, qualcosa di indescrivibile. E così via via ho imparato da lui a guardare tutto in un’ottica di fede cristiana e ad approfondire cosa davvero fosse questa fede cristiana. Lui è stato per me la luce nel buio, l’acqua nel deserto, l’aria che fa respirare, una figura paterna che mi ha guidato, fatto crescere, insegnato a vivere.

Ero sempre stata credente, da bambina a scuola dalle suore tra gli otto e i dieci anni pensavo di farmi suora da grande, ma poi il fervore dell’infanzia era passato e io avevo acquisito abbastanza della mentalità del mondo, utilitaristica, egoistica, pur rimanendo sotto tanti aspetti diversa, un po’ “antica” come ragazza, con modi di pensare e sogni considerati retrogradi.



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Non pregavo, non avevo mai pregato. In quei primi anni di vita da sola avevo iniziato ad andare alla Messa quotidiana nel pomeriggio ma solo perché mi faceva star meglio. Andavo e mi passava il mal di testa, mi sentivo sollevata, rilassata, al sicuro e avrei voluto che la messa durasse più a lungo perché lì mi sentivo meglio, poi uscivo e l’effetto durava per un po’. E allora volevo tornarci il giorno dopo. Ma ancora non pregavo.
È stato tramite questo “zio” che ho conosciuto un’altra persona che sarebbe diventata importantissima per me, diventando anche lei e suo marito degli “zii” che si sono resi disponibili ad aiutarmi e darmi affetto.

La “zia”e il Rosario: la via della guarigione

Ed è stato tramite questa “zia”, che è una figura particolare, molto legata alla preghiera, che ho iniziato a pregare. Ho iniziato a pregare il rosario e non ho più smesso. La preghiera mi ha cambiato, ho iniziato a sentirmi amata, a sentire che Dio mi ama, a considerare ogni cosa con uno sguardo diverso. Piano piano sono guarita dalla depressione che il susseguirsi di eventi dolorosi e la situazione che vivevo mi aveva procurato. Chi, solo al mondo, non si deprime? Una depressione esogena (dovuta ad eventi esterni) non endogena, forse per questo meno grave, ma comunque sempre dolorosa che ho superato, o meglio, da cui sono stata liberata, oltre che con la supplica anche dando quel poco che ognuno ha da dare, la propria volontà.

Il volersi lasciar andare, la svogliatezza, il non volersi alzare dal letto o dal divano, mangiare a fatica e male solo per sopravvivere, guardarsi allo specchio e desiderare di prendersi a schiaffi, tutto questo l’ ho superato solo quando ho capito che questo atteggiamento nei confronti di me stessa era sbagliato come se fosse nei confronti di un’altra persona e cioè nei confronti di qualcuno che è di Dio. Io non sono mia, sono Tua, Tu mi ha creata. Lì si poneva la scelta: mi alzo dal divano con grande fatica e lo faccio anche se non capisco niente, neanche perché ci sono sprofondata, solo per amor Tuo. Mi alzo perché voglio credere in Te, nel tuo amore. Mangio anche se non mi va di mangiare perché so che il cibo mi serve e Tu vuoi che io viva. Devo trattare me come è giusto trattare un’altra persona, una persona quindi tua … E questi ragionamenti hanno spronato la mia forza di volontà in un rapporto che era diventato personale, d’amore con Gesù e non più come con il Dio lontano che immaginavo prima. Dopo lo sforzo, cioè l’offerta dell’unica cosa che abbiamo, la volontà, il peso diventa più leggero, i malesseri diminuiscono e scompaiono, la forza ritorna. Il Signore guarisce, salva.



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Ho capito che il valore di ogni persona è incommensurabile, e che questo non dipende da ciò che si ha, ma è solo perché siamo creati da Dio e lui è Amore. Quante volte camminando per la strada e vedendo i mendicanti mi sentivo come loro. Mi sentivo l’ultima su questa terra. E la cosa che mi sollevava nei fiumi di lacrime era sapere, credere che anche se su questa terra non ero importante per nessuno, per Dio che mi ha creata e che è morto in Croce per me ero importante. In quel mistero incomprensibile alla ragione ma che il cuore riconosce e che dà vita. Questo mi dava il senso del vivere.

Come i mendicanti, ma io non mendicavo soldi. Sotto questo aspetto mi sentivo come gli uccelli del Cielo e i gigli dei campi che vengono nutriti dal Padre. A me era dato di vivere con quello che mi avevano lasciato i genitori senza la necessità di lavorare. Non avrei potuto per sempre, ma per quei dieci anni ho avuto di che vivere tranquillamente e senza il bisogno di lavorare. Ho lavorato per due anni in una segreteria politica e poi periodicamente, dopo aver studiato come docente di italiano a stranieri, come insegnante di italiano, appunto, a stranieri.

Ho fatto queste cose per occupare il tempo, per cercare di far cose normali, cercando una strada, senza che questi lavori mi appagassero o che li sapessi fare. Io mendicavo amore, affetto, calore umano. E non lo mendicavo apertamente, ma con una corazza protettiva di autodifesa che mi faceva sembrare più forte di quella che ero e agli occhi dei più superficiali sembravo fredda e credo anche cattiva. Sì, in certi periodi ho innalzato scudi protettivi molto grandi, soprattutto nei confronti di alcuni parenti, ma volevo vivere e volevo farlo al meglio e quindi erano necessari. Mi comporterei di nuovo allo stesso modo. Ho sempre avuto un’attrazione per il Vero, il Bello, il Buono, anche prima della conversione che mi ha resa consapevole e dove non trovavo istintivamente questo dovevo difendermi, non potevo permettere che la vulnerabilità della solitudine mi penalizzasse più di quanto fosse già penalizzante soffrire per la mancanza di tutto.

Inoltre non esternare il mio dolore, fingere di star bene o meglio di quanto stessi, spesso scambiato per orgoglio, era un modo per rendere la mia vita il più possibile uguale agli altri, normale. Per lottare con il peso della diversità, del sentirsi quella con la vita strana, brutta, fuori dal comune, piena di sofferenze, che soprattutto quando si è giovani e donne e in un mondo superficiale che certo non aiuta è più difficile da sopportare. Facevo di tutto per contrastare e soprattutto salvaguardarmi dal pietismo, dalla mentalità depressa degli altri che distrugge. Ho dovuto farlo anche nei confronti di mia nonna, da cui ho dovuto allontanarmi per non essere fagocitata in un vortice di tristezza mortifera, delusa del perché neanche in lei trovassi aiuto.
In più in quegli anni altre vicende mi hanno prostrata, angherie che hanno condizionato la mia vita notevolmente da parte di due ragazze che consideravo amiche e in un contesto di preghiera, in un sistema di sottomissione psicologica in cui ero caduta. Non voglio parlare oltre di questo, ma accennarlo sì, devo. Il Signore mi ha liberato anche da quest’oppressione. Ci vengono date prove, ma Lui non ci lascia mai e non ci dà prove più grandi di quanto possiamo sopportare. Non è retorica, è la verità.

Non più sola perché di Dio ma ancora “single. Fino al “marito pensato per me”



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Avendo sperimentato la solitudine a 360° ho conosciuto anche la sofferenza della “singletudine”. Passavano gli anni con qualche invaghimento da parte mia non corrisposto e qualche rifiuto dato senza che mai iniziasse una storia. Il mio primo e unico fidanzato l’ho conosciuto a 32 anni ed è quello che avrei sposato l’anno dopo. L’ho atteso per tanti anni, mi sembra di averlo atteso da sempre e poi è arrivato. Un’amica mi ha detto “ l’hai trovato proprio come lo volevi!”. Sì, come lo volevo, come era adatto a me, pensato per me, ma non solo, molto molto di più di quanto avessi mai immaginato. Davvero non avevo mai immaginato che sarei stata amata così tanto.
Con il matrimonio tutto è cambiato. Ho conosciuto la gioia, che prima non avevo mai sperimentato. Il trasferimento in un’altra città, una vita completamente nuova. E si è arricchita di amicizie, persone che stimo, persone veramente belle con cui condividere la fede, lo sguardo, il modo di vivere e vedere la vita, una porzione di mondo che avevo sempre desiderato incontrare, ma che prima non trovavo. La vita prosegue…vediamo cosa ci sarà…

Non posso che concludere questo racconto della mia storia andando a confessarmi per tutte le volte che ho mancato e che manco di fiducia nel Signore. Perché riguardando il mio passato è evidente quanto mi abbia sollevato e liberato e dato forza per affrontare ogni cosa. Strettamente legata alla fede è la fiducia in Lui e nel suo amore ed è la cosa che bisogna accrescere e mantenere viva e sempre più forte. La chiedo.

Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato!

 

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