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Cosa pensano le vere femministe dell’utero in affitto

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Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 10/07/17
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Un libro illuminante della filosofa Luisa MuraroÈ un “librino”, come dice lei, di poche pagine. Ma accidenti com’è scritto!

L’ultimo numero stampato in fondo a destra sul pdf che mi sono divorata in un paio d’ore dice 96. Di fatto saranno un’ottantina, scarsa. Ora capisco il laconico ed intenso entusiasmo dell’Editor che mi ha suggerito la lettura per proporla su Aleteia. Ha ragione.

Intanto il titolo: L’anima del corpo. E sotto un preclaro Contro l’utero in affitto.

L’autrice, Luisa Muraro, che incontro colpevolmente solo ora, ha un pensiero così intenso, vitale, calmo che viene voglia di rubarle sinapsi, idee, ritmo del respiro.
Almeno io ho pensato questo. Sì, perché ha ragione lei, quando ci conduce nel femminile autentico senza spocchia da esclusivista, nella relazione madre-figlia, senza ottocentesche zavorre di sentimentalismi sgangherati, nella potenza corporea del far nascere e far parlare creaturine nuove, insomma in tutto ciò che allude alla fecondità della donna e che non c’entra un fico secco con la rincorsa alle mansioni maschili in un mondo maschile dove siamo costrette a giocare da maschie.

Ha ragione lei. Il corpo ha un’anima. E non c’entra nulla nemmeno con la retorica che sublima, esagera, toglie dal flusso potente del reale le maternità reali. Come una festa della mamma ad libitum tutta lacrimucce e grata riconoscenza per questi esseri sacrificati nei figli.
È un libro difficile eppure chiarissimo. Come una parete di roccia. Ripida, erta, ma lì, da vedere e da guadagnarsi un appiglio alla volta.
Intanto esordisce con una considerazione che suona all’incirca così:

Il fenomeno della generazione di nuovi esseri umani è iniziato due milioni di anni fa. Quello di stipulare contratti e richiedere ad una donna l’esercizio della gestazione (e già si annida l’errore, l’uso improprio di una parola che ingozza una realtà di un senso che non ha, come un bambino mette in gola al passerotto un cucchiaio di pane inzuppato. La gestazione non è una prestazione, una mansione che si esercita e può migrare senza intoppi da un’operaia all’altra) per ottenere una creatura umana nuova in conto terzi è roba di trent’anni fa. Quindi calma. “Ormai” un bel niente.

Diamoci il tempo per pensare, scrive.



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E per parlarne e trovare nomi. In un paio di paragrafi si trova tutto. La precipitazione di una pratica che la concezione mercantile e il brulichio indefesso della tecnica e l’insistenza ossessiva di chi ne deve parlare per diffondere il business; la gravità dello stornare parole e senso. La follia dell’invenzione di parole e sigle per dire una cosa che poi non avrà parole da dare in bocca ai nuovi così nati perché raccontino di sé. Surrogacy, GPA, utero in affitto, ci si può uniformare solo per pedanteria burocratica su scala globale.

Individua subito, e secondo una prospettiva e una modalità che trovo davvero femminile, il nodo del linguaggio come quello che strozza la verità intorno a questa pratica, la pratica dell’utero in affitto, senza vera teoria. Teoria intesa nel suo significato sorgivo, nel suo fiotto di senso ancora forse indoeuropeo, cioè nel senso di contemplazione. La maternità praticata per contratto perché non tenuta più sotto lo sguardo degli spettatori, non più guardata da due passi indietro come lo spettacolo della vita concepita, gestata, partorita, accudita, lallata. Un modo brutale e frettoloso di etichettare la produzione di un bambino appunto come produzione ne ha reso possibile insieme agli altri fattori concorsi la sua commercializzazione.

Ecco allora che una cosa conficcata nell’esperienza umana a forza sebbene con alcune similitudini nel passato ecco che non avrebbe un nome sapido. Per questo assistiamo alla ricerca spasmodica di una formula – GPA o Surrogacy, ad esempio e mai utero in affitto- da ripetere all’infinito e su tutti canali media a disposizione con lo scopo di omogeneizzare linguaggio e pensiero facendo razzia delle connotazioni. E le connotazioni, dice l’Autrice, sono i profumi e i colori dei nomi. Facendo questo si impedisce al pensiero di immaginarsi le cose. È un modo violento per strappare il pensiero dall’esperienza.


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Se pensiamo a come siamo stati esposti di punto in bianco alla notizia di queste possibilità, (a tutte le latitudini, dal Manzanarre al Reno, da Bombay a L.A., dal Sub Sahara all’Est Europa!) alla conoscenza di questi fatti, avvenuti in giro per il mondo; se pensiamo a come ci hanno costretti a misurarci quasi senza sosta con le conseguenze di questa pratica, capiamo finalmente da dove viene il disagio e la sensazione di non riuscire a trovare un adattamento a questa mutazione dell’ambiente nel quale prima ci muovevamo con una certa tranquillità. La supplenza della tencica, l’uso di altre persone, di donne tenute sotto controllo per tutta la durata del processo, la produzione di bambini su commissione, ci ha sconvolti come un fiore mostruoso sbocciato di notte nel giardino di casa. Da dove viene? Come abbiamo potuto non accorgerci prima? Dov’era nascosto il seme di quest’efflorescenza così vistosa e spaventosa?
Il fatto più significativo è che questo fenomeno non è sorto da solo. Si tratta, dice l’autrice, di un ingorgo di problemi.

«C’è il desiderio di generare, frustrato dalla sterilità, la potenza dei soldi su chi ne ha pochi, la potenza dei soldi in chi ne ha molti, la presenza di un mercato globale, le facilitazioni offerte dalle tecnologie riproduttive. Qualcuno ci ha messo anche l’aumento della sterilità delle coppie nei paesi ricchi» (Pag. 11, L’Anima del corpo, Contro l’utero in affitto, L. Muraro, La Scuola, 2016).

Il libro prosegue disarmato e forte guardando bene in faccia la vita vera e confessando il timore di contribuire a farla sfuggire con delle metafore anziché farne emergere il valore di simbolo. La maternità non è metaforica ma simbolica. Ecco questo è uno dei molti distinguo fine e per niente retorico che ho trovato leggendo il libro. Insieme con un’altra affermazione sorprendente ed evidente nella sua realtà. La surrogazione di maternità vera e nobile cioè il fatto di rendersi disponibile a sostituirsi in una relazione, a continuare coi propri mezzi la relazione che il figlio aveva con la madre vera, è quella dell’adozione. I genitori adottivi nella loro dolente generosità, nel vuoto già riempito di altri amori e non in crisi ipoglicemica tutti tesi a placare desideri senza briglie, si rendono disponibili a dire ad un figlio altrui, amato abbastanza da essere messo al mondo, che ne saranno i genitori non generanti. E rispetteranno tutto il prima che lo ha portato lì. Questo significa surrogare, andare a supplire, cercare di riprendere il sentiero spezzato di una relazione madre figlio tranciata da una disgrazia.



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La pianificazione invece del figlio commissionato ad altri lo costringe ad essere tutto desiderio, tutto volto al desiderio del genitore che non può o non vuole concepire unendosi ad un adulto di sesso opposto. E lo strappa al prima, lo espone ad una sofferenza nuova dalla quale discenderà altro dolore, un dolore quasi nuovo e senza parole. Come reagiranno questi figli che pure avranno permesso ai genitori committenti di sentirsi madre e padre o padri e basta o madri e basta quando scopriranno che il legame fondativo, iniziale, il legame locale, col luogo che era la madre è stato reciso apposta? Potranno capire e perdonare?
Come risponderanno alle domande che tutti facciamo da molto piccoli? Dov’ero prima? A chi assomiglio? E se mio nonno non avesse corteggiato mia nonna quella sera? E se il papà quella volta il treno l’avesse perso?

Di generazione in generazione è una nenia che sembrava impossibile interrompere. Un carillon con una carica automatica continua eppure viva, non meccanica. Invece queste pratiche rese possibili dai soldi che posseggono i ricchi- dove il soggetto sono i soldi- e i desideri che posseggono i ricchi posseduti dai soldi stanno facendo questo.
C’è un’altra considerazione che desidero porgervi, come uno dei numerosi succosi frutti di questo arbusto agile e forte. Dice la Muraro a pagina 61:

«Nella nostra società si è parlato di conciliare la maternità con la partecipazione alla vita pubblica, in primis il lavoro retribuito, e si continua a fare della parità con l’uomo la misura dei diritti da riconoscere alle donne. Alla luce del mio discorso, si vede con ogni evidenza quanto la parità sia un criterio mutilante. Ignora la relazione femminile con la madre, ignora quindi l’autentica differenza dei sessi e pareggia assurdamente la fecondità femminile con quella maschile. La conciliazione, d’altra parte, è una pretesa troppo modesta, irrealizzabile proprio per questo: scarta il conflitto e dà luogo, subito, a un ripiego che sacrifica la maternità e pospone i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro».



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Se di qualcosa dobbiamo volentieri essere grati al pensiero femminista è questo. Il vero pensiero femminista vuole davvero promuovere l’autorità femminile. Nella sua imperterrita, irriduciile differenza con il maschile. Al quale non si oppone se non per stargli di fronte, davanti, magari per parlarvi, guardarlo negli occhi o per baciarlo.
Maschio e femmina li creò. In una manciata di sillabe la sorgente del lungo torrente tumultuoso che ora, in questa ubriacatura di mezzi tecnici e di smemoratezza della natura, rischia di tenerci sott’acqua troppo a lungo.
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