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Questa è una generazione a cui abbiamo mentito

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Costanza Miriano - pubblicato il 30/05/17
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Le preziose riflessioni di Costanza Miriano sull’attentato a Machester e la discussa lettera di Mons. Luigi NegriUna volta sono stata invitata alla festa della famiglia della Diocesi di Ferrara, e mi avevano detto che monsignor Negri sarebbe stato contento di incontrarmi. Mi ero preparata un bel discorso da fare alle famiglie, anche per fare colpo su di lui. L’ho trovato che mi aspettava sulle scale; mi ha dato una specie di pacca sulle spalle che somigliava pochissimo a una carezza, ha detto qualche parole di solidarietà verso mio marito, e se ne è andato perché aveva un altro impegno. “Hai visto come è stato affettuoso?” – mi ha detto la persona che era venuta a prendermi alla stazione. Affettuoso veramente no, tutto meno che affettuoso – ho pensato. “Vedi, tu non lo conosci. Lui esprime così l’affetto: ti ha invitata, ti ha aspettata prima di andarsene, ma poi non è il tipo che si perde in formalità”.

E così, anche da amici che lo conoscono meglio, ho avuto la conferma: monsignor Negri è una persona ruvida. Per questo, quando ho letto la sua lettera ai ragazzi di Manchester non ho proprio fatto caso agli spigoli delle sue parole, e al netto di quelli ci ho visto solo una grande dolcezza, una paternità sicura, una sincera preoccupazione per i nostri figli. Soprattutto, più che concentrarmi sull’autore o sul tono di quelle parole sicuramente forti, mi sto interrogando. Che genitori siamo? Che genitori sono quelli degli amici dei nostri figli?

Non mi piacciono i laudatores temporis acti, quelli per i quali, invariabilmente, prima sì che le cose andavano bene. Non penso che oggi siamo tutti persone peggiori che in passato. Però penso che, questo sicuro, viviamo in un tempo di benessere mai neanche sfiorato dall’umanità prima di oggi, e questo da una parte è sicuramente un bene. Però, c’è un però: la necessità, la scarsità di beni, il bisogno di darsi da fare per accedere a cose, conoscenze, possibilità, aveva una sua innegabile pedagogia, che formava le persone. Non è che tutti avessero voglia di faticare, non tutti riuscivano a consacrare la loro fatica in un cammino di santificazione, manco per sogno. Però tutti erano costretti a farla, la fatica. I ragazzi a scuola perché altrimenti venivano bocciati, e le famiglie a quei tempi non davano la colpa alla scuola, ma ai ragazzi.



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I grandi perché se volevano uscire di casa, avere qualche soldo, dovevano trovare un lavoro. E perché se volevano una vita sessuale dovevano prendersene la responsabilità, e sposarsi, c’erano poche altre possibilità. Non tutti capivano che quello che la realtà offriva era un cammino di santificazione, non tutti vi aderivano con la gioia e libertà che trasforma il sacrificio in fonte di vita. Semplicemente, però, la realtà aveva una sua pedagogia. Costringeva a prendersi responsabilità in cambio di piacere, che qui intendo in senso lato: il piacere dell’autonomia, della disponibilità economica, anche del sesso. Anche la conoscenza era tutta più faticosa (i miei figli sgranano gli occhi quando li invito a fare ricerche dai libri: come se li costringessi ad andare a cercare un pozzo invece che aprire il rubinetto. Perché dici così, mamma? C’è wikipedia. Che senso ha fare ricerche da più libri?). Io non dico che non sia un bene, mia nonna non aveva la lavatrice, andava al lavatoio. Essere libera dalla necessità di lavare lenzuola per sei persone alla fonte mi ha permesso di fare tante cose spero buone.

Tutto questo benessere che ci è stato regalato, però, rischia di portarci fuori di noi, perché, noi credenti lo sappiamo, è la croce che salva, e questo annuncio non ci parla più in una vita in cui ogni fatica, ogni sofferenza è bandita dall’orizzonte. Il male nel mondo c’è. E’ dentro di noi ma è anche una persona, che combatte perché ci perdiamo. Il male è il grande rimosso dal discorso collettivo, ciò che non lo rende meno attivo nella realtà, anzi. Noi siamo creature ferite dal peccato originale, e non siamo in grado di fare il bene puro da soli. Per questo mentre il mondo ci invita ad ascoltare i nostri desideri e a non filtrarli (le parole delle canzoni di Ariana Grande e di quasi tutti i suoi colleghi ne sono manifesti perfetti, e sinceramente lasciare che bambine di otto anni interiorizzino quella idea di sesso, quando ancora non ci pensano minimamente, mi sembra qualcosa che merita una macina al collo) quello che Dio propone a chi decide di credere nel suo amore è “ascolta la mia voce”. Non ti fidare di te stesso, fidati di me. Quindi, non ogni voce che viene da dentro di noi ha diritto di cittadinanza. Anzi. Ogni voce va sottoposta al nostro personale giudizio, e il giudizio per essere attendibile deve avere dei parametri.


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Il giudizio che ci è chiesto è quello di godere del benessere che ci è stato concesso, ma di non lasciarcene dominare. Usare le cose il tempo le possibilità di conoscenza ricordando che non tutto il piacere accessibile è un bene, e soprattutto, ricordando – il cuore della questione lo ha centrato monsignor Negri – che il male nel mondo esiste, agisce e opera attivamente contro di noi, e ci è chiesto un combattimento. Un combattimento che si esercita prima di tutto con il giudizio sulle cose le possibilità le conoscenze a cui abbiamo facilissimo accesso. Per esempio, ripeto, portare delle bambine, delle ragazzine a un concerto in cui una cantante parla di sesso come una donna navigata non è bene. Non sono parole che le faranno felici, non sono parole che le faranno vivere.

A questa generazione di ragazzi abbiamo mentito, se non abbiamo detto loro che la castità – cioè guardare l’altro senza volerlo possedere, aiutandolo a compiere il suo destino, a essere sempre più se stesso – è lo sguardo più fecondo sulle cose, quello che darà vita a noi e a quelli che ci saranno affidati. È il matrimonio il compimento vero dell’amore, l’unica possibilità in cui quello che diciamo col corpo – il mio corpo è tuo, te lo consegno tutto, io sono tua, tu sei mio – corrisponde nella verità a quello che cerchiamo di vivere tutto il giorno, ogni giorno un po’ meglio.

Stiamo insegnando a questi ragazzi che è un diritto avere tutto, e che ogni desiderio ha diritto di cittadinanza. Lo insegnano ai ragazzi dei grandi che, anche loro, vivono così, e dei politici che si battono perché sia così, perché ogni desiderio abbia diritto di essere accolto, abbia diritto di cittadinanza. Lo insegnano dei professori e dei presidi che permettono che nelle scuole – esperienza diretta – si vada a spiegare ai ragazzini delle medie come usare il preservativo, perché l’unica cosa che oggi temono i cosiddetti grandi sono le malattie e le gravidanze indesiderate. Questa è una generazione a cui abbiamo mentito. Ci siamo occupati di loro, ma non abbiamo chiesto loro di occuparsi di niente. Non abbiamo loro insegnato a combattere per la loro felicità. Li abbiamo ingozzati, riempiti di beni – che tra l’altro durano sempre meno, sono progettati per rompersi e dover essere sostituiti – ma non del sogno di poterseli conquistare da soli. Non abbiamo capito che i ragazzi vogliono di più, vogliono l’assoluto, l’eterno, il totale.



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I ragazzi vogliono essere sfidati, vogliono spaccare il mondo, la mediocrità, i compromessi. E intanto, dopo averli saziati, cerchiamo di far sì che siano educati ai “valori”, alla tolleranza, al rispetto, ai diritti civili. Illudendoci che il loro vuoto a forma di Dio possa essere saziato da iPhone e parole lise e sesso facile purché sia sicuro. Abbiamo tradito questi ragazzi, non abbiamo parlato loro di eterno e di infinito, e ne renderemo conto.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE TRATTO DAL BLOG DI COSTANZA MIRIANO

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