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Tra riformisti e populisti, che cosa significa il voto in Iran

TEHRAN, IRAN - JANUARY 17: Iranian President Hassan Rouhani (C) gives a speech during a press conference in Tehran, Iran on January 17, 2016. Yesterday, international sanctions on Iran were lifted within nuclear deal. Fatemeh Bahrami / Anadolu Agency

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Fondazione Oasis - pubblicato il 20/05/17
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Le elezioni sono state un referendum sul mandato del presidente Rouhani e aprono la via alla successione della Guida Supremadi Giovanni Parisi

Il voto di venerdì in Iran è un referendum sul mandato del presidente Hassan Rouhani e una prova per la crescente ondata populista nel Paese. Dal 1981 a oggi, ogni presidente iraniano è stato rieletto per il secondo mandato, anche se la riconferma di Mahmoud Ahmadinejad nel 2009 è stata contestata e ha dato il via alle proteste dell’“Onda Verde”: quelle manifestazioni in cui la popolazione chiedeva una svolta moderata. Tant’è che, nel 2013, la vittoria di Rouhani è stata interpretata come un’inversione di tendenza e un’affermazione del fronte riformista. Del resto, Rouhani incarnava una fortissima e diffusa aspettativa di aperture e trasformazioni sociali, politiche ed economiche, anche se più che un riformista tout court, all’interno del complesso panorama politico iraniano Rouhani potrebbe essere definito un moderato. Sta di fatto che è allora riuscito ad affermarsi al primo turno, assicurandosi una risicata maggioranza assoluta, ovvero superando di un soffio la forte mobilitazione delle forze conservatrici.

Come presidente, Rouhani si è trovato ad affrontare tre grandi sfide: il pessimo stato dell’economia del Paese, e in particolare la lotta alla disoccupazione; la rottura dell’isolamento internazionale dell’Iran, senza però rinunciare a una politica estera di forte interventismo in Medio Oriente; infine l’apertura a riforme politiche, economiche e sociali.

Ora, il bilancio di quattro anni di presidenza presenta luci e ombre. Il più grande successo ottenuto è sicuramente stata la firma del JCPOA, il cosiddetto Accordo sul nucleare iraniano. Questo prevede un progressivo allentamento delle sanzioni internazionali, a fronte dell’adempimento da parte iraniana di una serie di misure dirette a eliminare il rischio di un uso militare del nucleare. L’accordo è un indiscutibile successo sia nell’ambito delle relazioni internazionali del Paese sia sul piano economico interno e costituisce, inoltre, una vittoria sul fronte conservatore. Senonché, la popolazione non ha ancora avuto il tempo di beneficiare dell’intesa internazionale, entrata in vigore soltanto dal gennaio 2016. Inoltre, la progressiva rimozione delle sanzioni non è sufficiente ad attrarre gli investimenti esteri, comunque scoraggiati da corruzione, debolezza del sistema bancario, incertezze politiche e ostruzionismo di forze che, come i pasdaran – il corpo delle Guardie della rivoluzione, casta militare ma anche economica – beneficiano degli attuali equilibri politico-economici interni.

Infatti, sono proprio i pasdaran e il clero più oltranzista a controllare parte dell’economia del Paese attraverso istituzioni finanziarie, attività economico-produttive nonché ricche bonyad [fondazioni religiose]. Il persistere delle sanzioni del Dipartimento del Tesoro americano per il programma missilistico iraniano, inoltre, rende di fatto più complicati e incerti gli investimenti nel Paese di tutte le aziende e multinazionali che hanno anche un forte livello di scambi con gli Stati Uniti. Del resto, ad oggi, la crescita economica ha riguardato in gran parte soltanto il settore petrolifero, interamente controllato dallo Stato, ma il basso prezzo del greggio ha comunque limitato gli effetti positivi della crescita. In altri termini, agli occhi della popolazione, l’accordo sul nucleare non ha ancora portato alcun tangibile beneficio economico. Peraltro, anche se durante il suo mandato Rouhani è riuscito a ridurre sensibilmente l’inflazione (passata dal 40 per cento dell’era-Ahmadinejad a poco più del 10 per cento), di contro la disoccupazione è rimasta molto alta, oltre il 12 per cento, mentre quella giovanile rimane attestata intorno a un preoccupante 30 per cento. Infine, a complicare la posizione del leader iraniano è intervenuto il presidente americano Donald Trump, che ha definito il JCPOA “il peggior accordo mai negoziato”, non aiutando a difenderne la sostenibilità in politica interna. Dall’altro lato, la fortissima opposizione dei conservatori ha di fatto bloccato ogni altro sforzo riformista del presidente.

Il voto di domani si presenta dunque come una sorta di referendum sull’operato di Rouhani, dove però pesano tutte le promesse mancate in tema di miglioramenti economici e riforme. E mentre le scarse riforme potrebbero aver disilluso i ceti urbani più modernisti, spingendoli all’astensionismo, la limitata performance economica potrebbe avergli alienato proprio la massa critica dell’elettorato iraniano: i ceti rurali e più poveri del Paese. Non a caso, i candidati rivali del fronte conservatore hanno improntato la campagna elettorale sul populismo e su promesse, in realtà ben difficili da mantenere, di aumenti dei posti di lavoro e dei sussidi alle famiglie più disagiate. Questa è stata la strategia con cui Ahmadinejad ha conquistato a suo tempo il voto della popolazione rurale. Oggi, nonostante proprio Rouhani li abbia ridotti, il governo iraniano paga 12 miliardi di dollari all’anno in sussidi per la popolazione più povera.

Il sostegno ai candidati conservatori arriverà dunque per lo più dalle aree rurali, dai ceti meno abbienti, da una parte dei dipendenti pubblici nonché da una parte dei circoli religiosi conservatori. Quello per Rouhani invece dai centri urbani e dalla società civile “modernista”, nonché dai moderati e, più in generale, da quella parte della popolazione che comunque lo vede come il male minore rispetto al clero ultra-conservatore. È comunque significativo che i protagonisti riformisti dell’Onda Verde, figure come Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, agli arresti dal 2009, lo appoggino.

Al voto, aperto a circa 50 milioni di iraniani su una popolazione di 80,8 milioni, si sfidano dunque due blocchi, i conservatori e i moderati-riformisti. Oltre a Rouhani, nel fronte moderato-riformista c’era anche Eshaq Jahangiri, primo vice-presidente, che ha abbandonato la corsa dopo aver dato indicazione di voto a favore di Rouhani. Nel campo conservatore, invece, la figura chiave è Ebrahim Raisi, che distanzia di molto gli altri due candidati, di poca rilevanza, l’ex ministro della Cultura Mostafa Agha Mirsalim e Mostafa Hashemi-Taba. Il secondo, pur restando candidato, ha indicato ai suoi sostenitori di votare Rouhani. Un quarto sfidante di peso, il sindaco conservatore di Teheran Mohammad Bagher Ghalibaf, si è ritirato il 15 maggio, invitando i suoi sostenitori a votare per Raisi. La sfida è quindi diventata un duello.

Il vero avversario del presidente, Raisi, è un religioso poco carismatico, ma molto forte all’interno dell’establishment clericale ultraconservatore, tanto da essere da molti indicato come il possibile successore della potente guida suprema Ali Khamenei. Legato ai pasdaran, è appoggiato da diversi esponenti di spicco del precedente governo di Ahmadinejad, oltre a essere un uomo della Guida stessa; negli anni ’80 è stato procuratore dello Stato ed è accusato di aver ordinato l’esecuzione di moltissimi dissidenti, mentre oggi è a capo della bonyad [fondazione religiosa] “Astan Quds Razavi”, che gestisce l’importante santuario della città santa di Mashhad. La sua campagna elettorale, improntata sullo slogan “lavoro e dignità”, è caratterizzata da un forte populismo, e probabilmente beneficerà significativamente del voto dei sostenitori dell’ex sindaco di Teheran, che nel 2013 prese sei milioni di voti arrivando secondo dietro a Rouhani. Qualora né Rouhani né Raisi raggiungano la maggioranza assoluta al primo turno, è previsto un ballottaggio il 26 maggio. Il fatto che quasi tutti i candidati si siano ritirati suggerisce però che le elezioni potrebbero risolversi con il voto di domani.

 

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