“Il mio nome è Rifugiato”, opera “artigianale” per costruire la memoria sull’esodo migratorio più grande dalla II Guerra MondialeSamia Sleman Kamal era una bambina di 13 anni circondata dall’amore dlela sua famiglia prima che i terroristi dello Stato Islamico la sequestrassero e la trasformassero in una schiava sessuale.
“Mi nombre es Refugiado” (“Il mio nome è Rifugiato”, 159 pagine, Editorial UOC), opera uscita in vari Paesi dell’America Latina, è un’opera interessante perché riesce a dare una voce e un volto ai protagonisti della “tragedia più grande dopo la II Guerra Mondiale”, parafrasando Papa Francesco. Le autrici Irene L. Savio e Leticia Álvarez Reguera hanno percorso i Balcani e tutta l’Europa coprendo la crisi migratoria.
Irene, nata in Italia e allevata in Argentina, è corrispondente a Roma, Leticia dice di essere una giornalista intrappolata ad Atene. Hanno lavorato in vari media audiovisivi e stampati di Spagna e America Latina.
Il libro usa materiale dei viaggi delle autrici e riporta i racconti di Nonna Emilia, diventata a sorpresa soccorritrice in un’isola greca, o del venditore di automobili a Vladisa Culjak, testimone dello sfollamento forzato di intere famiglie in Croazia.
Irene e Leticia narrano i difficili momenti attraversati da siriani, iracheni e curdi. A migliaia sono fuggiti dal terrore e dalla guerra, lasciandosi dietro tutto per ricominciare. “Ma l’Europa non era il paradiso”. Nour ha letto la Bibbia, ma dopo che l’Europa ha fatto andare in pezzi il suo sogno di arrivare in Germania ha voluto tornare in Siria e morire lì.
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Di seguito, per gentile concessione delle autrici, riportiamo una dimostrazione del mosaico di dolore, sacrificio e speranza di questa epopea migratoria attraverso una delle sue protagoniste, Samia Sleman Kamal, bambina schiava dello Stato Islamico.
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Le ho chiesto se sapeva di essere molto coraggiosa per il fatto di essere stata una schiava sessuale dello Stato Islamico e di volerlo raccontare ora. È rimasta in silenzio. Poi, con l’innocenza dei suoi quindici anni, ha risposto.
“Ero sola. Mia mamma e mio papà non c’erano. O facevo qualcosa o morivo”.
Alle tre di pomeriggio eravamo nell’edificio nel quale viveva dal suo esilio a Heilbronn, una cittadina di 120.000 abitanti nello Stato del Baden-Württemberg, nel sud della Germania, in cui eravamo arrivate dopo esserci perse varie volte.
Era il giugno del 2016. Heilbronn, come le altre città della Germania occidentale, ha un’aria tranquilla e rurale, ora costellata da centinaia di occhi e carnagioni scuri e toni rumorosi, riflesso del gran numero di immigrati arabi giunti negli ultimi mesi.
Abbiamo suonato il campanello nell’anonimo edificio di tre piani; Samia Sleman Kamal non era in casa. Vista la nostra mancanza di puntalità aveva approfittato per andare a recuperare qualche istante della sua infanzia rubata andando a giocare in cortile con due fratelli più piccoli.
La casa ci è sembrata un luogo provvisorio, privo di qualsiasi ornamento e memoria della famiglia yazidi che ora la occupava: Samia, i suoi sei fratelli, uno zio e la madre Khalida. Essendo yazidi, minoranza etnicamente curda e di religione preislamica, Samia era caduta nelle grinfie dello Stato Islamico ad appena 13 anni, il 3 agosto 2014, data in cui migliaia di combattenti del violento gruppo di fondamentalisti islamici ha assaltato il distretto iracheno di Sinyar e varie località della Siria in una nuova escalation di brutalità il cui obiettivo sono stati proprio gli yazidi.
L’aggresione a Samia è stata successiva all’occupazione dell’importante e multietnica città di Mosul, avvenuta due mesi prima. Fin dal primo momento il progetto, studiato minuziosamente, ha consistito in una sistematica pulizia etnica della zona di Sinyar, limitrofa alla Siria e prima patria di una comunità di 400.000 yazidi.
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In poche ore, il 3 agosto e nei giorni successivi, migliaia di yazidi uomini e bambini di più di 12 anni sono stati giustiziati sommariamente, mentre le donne sono state rese schiave, vendute e violentate ripetutamente, e i più piccoli inviati nei campi di indottrinamento e formazione jihadista. Non è stata opposta resistenza.
“Samia sta arrivando”, ha detto il più grande dei fratelli. La ragazzina è apparsa in un batter d’occhio, come se fosse un fantasma, vestita con una camicia nera e dei jeans, a piedi scalzi e con le unghie con lo smalto rovinato.
I capelli, nerissimi ed estremamente lunghi, la facevano sembrare ancor più piccola del suo metro e 45 di altezza. Non era né una donna né una bambina. “Sa che mentre parliamo ci sono migliaia di yazidi ancora sequestrate? Sono già passati quasi due anni”, ci ha detto con una disinvoltura incredibile per un’adolescente.
Qualche settimana prima Samia aveva offerto la sua testimonianza davanti all’ONU, e l’associazione Global Jewish Advocacy le aveva consegnato un premio. Forse non avrà mai giustizia e una corte penale non punirà mai gli aguzzini che hanno abusato di lei per mesi, ma ha voluto comunque raccontare la sua storia.
Le abbiamo detto che se si sentiva più a suo agio poteva chiedere al fratello di lasciarci sole. Lei ha assentito, e girando la testa si è rivolta al ragazzino, che è subito uscito dalla stanza. Poi Samia ha iniziato a parlare.
“Sono nata a Herdan, un villaggio circondato da un paesaggio arido e montuoso, tra Mosul e Sinyar. Il 29 ottobre del 2000, o forse qualche giorno prima, non lo so con precisione, perché in Iraq non si è mai prestata molta attenzione alla data di nascita di una persona. Mi hanno preceduto tre fratelli e altri tre sono venuti dopo di me. Mio padre mi voleva molto bene. Lui e mia madre faticavano per guadagnarsi da vivere, e quindi lavoravano giorno e notte nei campi di Sinyar.
Mi dicevano che per me volevano qualcosa di diverso, che non fossi così povera. Mia madre era analfabeta e non voleva lo stesso destino per me, diceva. Io le credevo. Presto, tuttavia, ho visto i miei sogni frustrati. Ho capito che eravamo una minoranza, che vivevamo in una situazione di pericolo dalle radici profonde. Solo con Saddam Hussein, mi hanno detto, noi yazidi avevamo goduto di un po’ di protezione, ma è stato rovesciato tre anni dopo la mia nascita e impiccato nel 2006. Non pensavo molto alla politica. Non sapevo cosa stava per succedere.
Erano le quattro del pomeriggio del 3 agosto 2014. Tutto è accaduto molto rapidamente. Sono arrivati sui furgoni e hanno preso il controllo dei villaggi della zona in cui vivevamo, anche di Herdan. In due ore ci hanno riuniti tutti. Hanno separato le donne dagli uomini, e noi e i bambini siamo stati fatti salire sui camion, mentre gli uomini sono stati bendati. Non so cosa sia accaduto loro in seguito. Probabilmente li hanno uccisi, ma non lo so. Tra gli uomini c’era mio padre. Noi siamo state portate in una caserma militare e private di tutto ciò che avevamo di prezioso – gioielli e denaro. Ci hanno divise nuovamente in due gruppi: le donne anziane da una parte, quelle giovani dall’altra. Poi ci hanno trasferite a Tal Afar, nel Sinyar, e ci hanno rinchiuse in una scuola.
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Lì è finita la mia vita. Ci afferravano, toccavano il nostro corpo e ridevano. Sono rimasta in quella scuola quindici giorni insieme a mia madre, mia sorella, i miei due fratelli più piccoli e mia nonna. Tutti i giorni violentavano varie ragazze. Hanno iniziato dalle più giovani, tra i nove e i quindici anni; le penetravano senza pietà. Quando non si divertivano con noi vivevamo circondate da immondizia, ammassate le une sulle altre in quelle che prima erano state le aule in cui avevamo imparato a leggere e a scrivere. Ci davano il minimo per far sì che non morissimo rapidamente. Io avevo tredici anni e potevo già dire addio alla mia infanzia.
Mi hanno deflorata. Non mi ricordo più neanche che aspetto avesse quello che l’ha fatto”.
Estratto del capitolo “Alemania, willkommen. Samia”, del libro “Mi Nombre Es Refugiado” (Editorial UOC). Di Irene L. Savio y Leticia Álvarez Reguera.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]