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Fuga dai libri

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 30/04/17
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In Italia aumentano i non lettoridi Lucio Coco

La notizia di fonte Istat che i non-lettori in Italia sono circa 33 milioni è rimbalzata su tutte le agenzie di stampa. Si tratta di una cifra enorme, ma forse il dato più inquietante è che rispetto al 2010 ci sono 4.300.000 lettori in meno. È come se, nel corso di sette anni, fosse scomparsa una regione di lettori grande come il Piemonte o l’Emilia-Romagna. Un altro dato risalta dalla ricerca Istat sulla lettura in Italia — prendendo come riferimento lo stesso settennio (2010-2016) — ed è quello che il numero di lettori che fa uso di internet è passato dal 33,2 del 2010 al 47,7 del 2016.

Evidentemente è proprio in questa relazione con l’uso della rete che va cercata la causa del drastico calo del numero di chi si accosta alla lettura. È chiaro che navigare, chattare, seguire gruppi facebook, whatsapp e così via sottrae tempo ed è, credo, nella esperienza di tutti vedere in un parco giochi che i genitori sono più presi a scorrere pagine virtuali sugli schermi degli smartphone che a leggere quietamente un libro mentre prestano attenzione ai propri figli.

Lo scivolamento delle pagine di internet su questi terminali rappresenta un enorme distrattore. Non agevola certo la concentrazione e l’attenzione che sono richiesti quando ci si mette a leggere; è come se nell’epoca del web i milioni di pagine che si possono sfogliare e raggiungere in pochissimi secondi favorissero quell’antico demone che i monaci definivano dell’evagatio mentis, del vagare cioè della mente, e che nella loro profonda sapienza psicologica collegavano al demone meridiano dell’accidia.

Il crollo dei lettori di questi ultimi anni è sicuramente dovuto alla facile scappatoia che offrono tablet e telefoni sempre più performanti, capaci di rendere immagini sempre più nitide, belle e accattivanti, e di alimentare, con la loro possente memoria, sempre più la spesso inutile chiacchiera dei gruppi. Un libro invece è il contrario di tutto questo.

In primo luogo chi legge fa esperienza della propria solitudine. «La prima lezione — infatti — che impariamo dalla lettura è come stare soli» (Jonathan Franzen). Essere o rimanere disconnessi il più delle volte ci mette di fronte proprio a questa esperienza angosciante della solitudine, perciò si cerca nuovamente campo come chi soffre di apnea cerca l’aria.

Attraverso il libro, ovviamente un buon libro, si arriva al contatto con se stessi. Le righe che si scorrono, mentre vengono lette, sono sempre una decifrazione di sé. Un libro in questo senso è sempre come una lente che ci permette di guardare dentro di noi. Molto spesso ciò può spaventare e si preferisce la chiacchiera, lo stordimento, la fuga da sé, oggi resa ancora più possibile e immediatamente fruibile dal compulsivo ricorso ai social-media.

La crisi della lettura (quei 4,3 milioni in meno di cui si è detto prima) oggi va forse dunque cercata proprio nell’affermazione di questi nuovi strumenti di comunicazione che favoriscono la distrazione, la s-concentrazione e aumentano il deficit di attenzione. Leggere è invece un atto volontario; chi sceglie di leggere deve fare un patto con se stesso per legarsi per un certo tempo a un determinato libro: «Riuscire a stare fermi, seduti per una mezz’ora è una conquista. E anche la lettura lo è» (Eraldo Affinati). L’atto del leggere esige una educazione contro tutte le passioni che vorrebbero puntualmente distoglierci dalla pagina. E ancora una volta allontanarci da noi stessi, da quello che siamo, dal limite che rappresentiamo.

 

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