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Per Gramsci la religione è necessaria

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 27/04/17
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Ottant’anni fa la scomparsa dell’intellettuale italianodi Franco Lo Piparo*

«La religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo».

Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica “Sotto la Mole” dell’edizione torinese dell’«Avanti!» il 4 marzo 1916. L’osservazione antropologico-filosofica è parte di un articolo che prende lo spunto dalla notizia di una fattucchiera che aveva visto aumentare la sua clientela in seguito alle vicende belliche.
Tesi simili lo studente Gramsci le avrà lette in testi di Croce, Gentile e Bergson. La frase che immediatamente segue ne è la spia: «L’uomo grosso non ha sostituito (perciò diciamo che è grosso) nulla alla religione. La vita si chiude per lui nel cerchio delle occupazioni quotidiane».



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Registriamo che la religione non è né l’oppio dei popoli e nemmeno una sovrastruttura destinata a collassare una volta cambiato l’assetto socio-economico su cui si regge. «È un bisogno dello spirito». Ha a che fare con la natura dell’uomo indipendentemente dai modi in cui quel bisogno nella storia si declina.
Le numerose annotazioni, disseminate nei Quaderni, sulle religioni e sulla fede che le sorregge non mettono mai in discussione il principio. Lo ribadiscono e lo rafforzano. Il Quaderno 6, ad esempio, cita, facendola propria, una pagina in cui Plutarco osserva che chi viaggia per il mondo potrà imbattersi in «città senza mura e senza lettere, senza ricchezze e senza l’uso della moneta, prive di teatri e di ginnasi. Ma una città senza templi e senza dei, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né i sacrifizi per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’ha mai veduta, né la vedrà mai». Detto con parole se è possibile ancora più chiare: non esistono società dove non venga praticata una religione.

Questo è solo un punto di partenza. Nei Quaderni circola con insistenza una tesi che solo gli occhiali marxisti o marxisteggianti degli interpreti non hanno consentito di porre nella giusta luce. Se le religioni si fondano sulla fede (e così stanno le cose), le religioni-fede non sono un fattore aggiuntivo, anche se ineliminabile, delle società umane ma il cemento strutturale necessario che fa di una molteplicità di individui un gruppo sociale coeso, sia esso partito politico o popolo-nazione o chiesa o altro ancora.
Occorre una precisazione semantica sulla parola «fede». Fides è il termine con cui nella vulgata latina del Nuovo Testamento viene tradotta la parola greca pístis. Il termine, nel lessico filosofico greco, indica lo stato d’animo di chi ha fiducia in qualcuno o qualcosa perché è persuaso, per un qualche motivo, della sua verità e/o giustezza. La pístis-fede ha quindi a che fare con la persuasione e la credenza. «Essere persuaso che…» ha lo stesso significato di «credere che…». Non a caso i fedeli sono anche credenti.

Questo è il significato della parola fede-fiducia che dalla Retorica di Aristotele giunge al Nuovo Testamento e da lì si diffonde nel lessico delle lingue moderne. Con questo senso Gramsci usa la parola fede neiQuaderni.
Sulla fede-fiducia in determinati valori culturali e nelle istituzioni che li incarnano poggia il potere invisibile che ciascuno di noi si porta dentro e che ci fa agire in un modo e non in un altro perché fortemente persuasi che sia giusto comportarsi in quel modo. Questo potere invisibile il Gramsci giovane lo chiamava prestigio e, nei Quaderni, lo chiamerà egemonia.
Persone e istituzioni di cui ci si fida e alle cui regole culturali di comportamento ci si conforma per consenso spontaneo sono, nel giudizio silenzioso di chi ne subisce il fascino, persone e istituzioni che, godendo prestigio e ispirando fiducia, esercitano egemonia. Quaderno 12: «Il consenso (…) nasce storicamente dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione».

Una pagina del Quaderno 11 si sofferma a lungo sull’argomento. «Nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede». Le argomentazioni razionali, anche se importanti, hanno in ultima analisi un valore strumentale. Se l’argomentazione razionale fosse preminente, «a un uomo del popolo (…) potrebbe capitare di dover mutare le proprie convinzioni una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente superiore». Questo non accade perché «l’elemento più importante della sua concezione del mondo è indubbiamente di carattere non razionale, di fede». E continua: «Ma fede in chi e in che cosa? Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui». Ed ecco la conclusione: ai fini della diffusione popolare di una nuova concezione del mondo «la forma razionale, logicamente coerente, la completezza del ragionamento che non trascura nessun argomento positivo o negativo di un qualche peso, ha la sua importanza, ma è ben lontana dall’essere decisiva».

Una fede-egemonia realizzata vive come insieme di certezze di senso comune che chi vi aderisce dà per scontato che non vale la pena mettere in dubbio. L’insieme di certezze indubitabili nella sistemazione teorica che ne fa Gramsci è simbolicamente rappresentato dal mito-Principe che per questo «non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta» (Quaderno 13). «Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico».
La Chiesa cattolica è assunta nei Quaderni come esempio paradigmatico di fede-egemonia ben riuscita. Sono molte le pagine in cui l’argomento viene trattato. I punti forti del successo sono fondamentalmente due, tra loro complementari.

L’alto livello della elaborazione teorica non è disgiunto dalla capacità politica tradurre in apparati culturali popolari la teoria. Le figure fondanti della Chiesa sono due: Cristo generatore di una nuova e rivoluzionaria Weltanschauung, san Paolo organizzatore della Weltanschauung. «Essi sono ambedue necessari nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta» (Quaderno 7).



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La Chiesa cattolica non è elitaria ma sa fare convivere e interagire l’alto e il basso, i suoi intellettuali e il popolo dei credenti. «La forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione intellettuale di tutta la massa “religiosa” e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che “ufficialmente” si formino due religioni, quella degli “intellettuali” e quella delle “anime semplici”. (…) risalta la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrattamente razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra intellettuali e semplici. I gesuiti sono stati indubbiamente i maggiori artefici di questo equilibrio» (Quaderno 11).
Le filosofie immanentiste hanno provato a seguire l’esempio della Chiesa ma hanno fallito. «Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i “semplici” e gli intellettuali».

Sorgono delle domande che Gramsci non pone. E se la causa del fallimento risiedesse tutta nell’immanentismo di quelle filosofie? Una filosofia che non può e non sa dare risposte appaganti alle domande sul senso ultimo della vita e della morte può diventare religione e Chiesa?
E se le filosofie immanentiste non fossero capaci, per motivi di principio, di fuoriuscire dalle egemonie-fedi settoriali? Il cristianesimo non è solo una egemonia-fede ma una egemonia-fede globale: non si occupa di questo o quell’assetto socio-economico ma del senso del vivere. E se il fallimento egemonico delle filosofie immanentiste nascesse dalla presunzione di occupare un terreno che non appartiene a loro? Gramsci questo non lo dice ma non è incompatibile con lo spirito liberal-democratico che anima i Quaderni.

*Professore di filosofia del linguaggio all’università di Palermoe vincitore nel 2012 del premio Viareggio saggistica con il libro «“I due carceri” di Antonio Gramsci» (Donzelli editore)

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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