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Avremo sempre questa retorica sulla violenza contro le donne?

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Paola Belletti - pubblicato il 24/04/17
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Dalla critica all’ultimo libro di Serena Dandini, alcuni motivi per dissentire dai termini di una battaglia imposta“Avremo sempre Parigi”. E anche una uscita fresca sulle donne e il loro reale,  misconosciuto, valore?

Parrebbe di sì.

La recente pubblicazione, per i tipi della Rizzoli, di Serena Dandini  ne conferma il longevo e poliedrico talento di attrice, presentatrice, scrittrice.

La chiave con la quale entra e fa entrare i suoi lettori nelle atmosfere della Ville Lumière è efficace e suadente.

Lo stratagemma dell’(dis)ordine alfabetico per mettere insieme riflessioni, descrizioni e incontri è forse un po’ furbesco. Non tenta una vera sintesi, ma lascia i testi nella loro morbida disgregazione confidando che sia la persistenza aromatica di Parigi in quanto tale a dare coerenza all’esperienza del lettore.

La G sta per Gare, ad esempio, e la V per Verne.

Tra i tanti racconti e ritratti ce n’è uno in particolare che presenta la storia di una pittrice animalier,  Rosa Bonheur. La descrizione di questa donna parte da un quadro esposto al Museo d’Orsay, l’ex stazione ferroviaria parigina che oggi ospita una esposizione.

Raccontare, di per sé, non ha nulla di ideologico.  Incoronare una figura di fine Ottocento come eroe  ante litteram di diritti rivendicati oggi da minoranze piuttosto aggressive invece sì.



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Rosa era omosessuale e intendeva, dopo la sua morte, rendere partecipe la donna con cui aveva condiviso la vita, di tutti i suoi beni. Lasciò un testamento in suo favore. Vuoi non pensare alla attualissima lotta per i diritti cosiddetti civili? E alla strada che ancora ci resta da percorrere, di buona lena, per arrivare ad una società autenticamente giusta ed egualitaria? Ma non è finita qua.

La pittrice, per dipingere animali, pare si recasse nei mattatoi cittadini travestita da uomo. Prima donna in Francia a godere della Legione d’Onore, la Bonheur doveva sottoporsi ogni sei mesi ad un esame per ottenere dalla prefettura il permesso di abbigliarsi da uomo (anche questa abitudine è pochissimo diffusa tra la popolazione mondiale eppure è oggi proposta con sospetta insistenza come una necessità vitale), cosa allora proibita per una donna. Serena di questa sua scelta di racconto confessa: “E’ bello a Parigi vedere meno quadri, ma conoscerne la storia”.

La Dandini è da anni impegnata in progetti di contrasto alla violenza sulle donne. (Uno dei suoi contributi più notevole e notato è l’opera teatrale “Ferite a morte” intorno alla quale ruotano altre iniziative di attivismo sul tema).

Se escludiamo il ritratto e l’uso di questa ultima figura, lo sguardo che la scrittrice posa sulle donne appare spesso largo e sensibile alle reali differenze uomo-donna (nobile retaggio del caro vecchio buon senso?).

Ho una sola grande obiezione che vorrei condividere con chi leggesse: non siamo stanche? Di questo continuo “sensibilizzarci” sul tema? Di questo ripetersi di toni da denuncia, di casi di violenza e oppressione usati in modo strumentale? Non è questo, aggiungere violenza a violenza?

Dell’introduzione arbitraria, ma dall’uso ormai quasi obbligatorio, di termini cacofonici come femminicidio (che infatti il correttore del programma di scrittura, retrogrado, ancora mi segna in rosso?)

Certo, potrebbe servire a sottolineare la particolare gravità del crimine. Ma è già grave. Lo è profondamente e radicalmente, in ogni caso. Uomo o donna che sia.

L’unica grande domanda critica che pongo è proprio questa: perché schierare uomini e donne gli uni contro le altre? Non c’è innanzitutto una alleanza da riconoscere e semmai da rafforzare?



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Chi ha messo queste barricate? E perché i termini usati, il modo di descrivere i fenomeni, almeno come categorie culturali e filosofiche, assomigliano così tanto a quelle della lotta di classe?

Ed in linea con questa interpretazione della storia e della realtà sociale mi pare che questo, come altri testi che registrano grande risonanza di pubblico e ottimi risultati di vendita, si prefiggano di contribuire ad educare, anzi addirittura rieducare, le donne di domani.

Mi preoccupa che il “Dalli allo stereotipo!” stia diventando sempre più urlato e che accenda reazioni sempre più scomposte, non ancora da folla manzoniana, ma con qualche riconoscibile tratto da psicosi sociale sì.

Sarà che lo scopo della “sensibilizzazione” sul tema su di me ha raggiunto il suo scopo, l’allergia, però non posso fare a meno di riconoscere toni e intenti simili su diversi fronti.

L’editoria è uno dei reparti meglio attrezzati.

Abbiamo i ritratti per bambine ribelli che si candidano a nuove favole della buonanotte.

Abbiamo le donne disposte a finire su un caso letterario annunciato per dirsi “pentite di essere madri”.



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Va bene tutto. Va benissimo che si possa ancora scrivere ciò che si ritiene in coscienza di voler scrivere.

Ma non siamo stanche di tutta questa retorica e tutta nella stessa direzione, con lo stesso colore, gli stessi stilemi, gli stessi argomenti?

Le solite cose segnate col marchio di fabbrica “trasgressione” o “progresso”; alle volte, invero, ci sono entrambi i marchi, come due linee dello stesso Brand.

La liberazione dagli stereotipi e dalle trappole di genere non deve essere riuscita come intendeva l’autrice e chi la promuove, perché Parigi sotto la penna della Dandini diventa, manco a dirlo, una donna: (è una donna e come tale) “resiste ai colpi e ti fa lanciare il cuore oltre la paura”.

Frasi come queste, dette sempre in nome delle donne e senza prima averle interpellate; frasi che ci dipingono tutte insieme, con tratti così simili, trovo siano un tentativo uguale e contrario a ciò che si ripromettono di combattere. Sono macchiette, sono tipizzazioni. Non sono io, non siamo noi.

 

 

 

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