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Quella serpe di Gesù. A proposito di una polemica sterile che porta frutto

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Giovanni Marcotullio - Aleteia - pubblicato il 11/04/17
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Un noto giornalista ha recentemente attaccato Papa Francesco per le audaci espressioni con cui, in un’omelia, il Santo Padre ha enfatizzato la realtà effettiva dell’opera della redenzione. Polemiche non nuove, e purtroppo pretestuose. Ma che offrono spunto a utili ricapitolazioni

Il quale non commise peccato,
né sulla sua bocca si è trovato inganno.

(1Pt 2, 22)

La prossima volta apparirà
senza peccato
a quelli che lo aspettano
per la salvezza.

(Eb 9, 28)

Ci risiamo: ogni volta che qualcuno ripesca il passo veterotestamentario del serpente di bronzo (o di rame, a seconda delle traduzioni), la cosa finisce in un’esecuzione pubblica. L’ultima volta è toccata a Papa Francesco. La penultima a Darren Aronofsky. La prima a Gesù stesso.

Quanto ad Aronofsky, ne scrissi in tempi non sospetti, ovvero all’uscita di “Noah”, il kolossal con Russell Crowe che ancora una volta ha narrato la storia del diluvio universale: naturalmente il mito genesiaco è lontanissimo dal passo dei Numeri in cui si narra del deserto, ma uno degli elementi più criticati della pellicola fu l’introduzione di una pelle di serpente che i patriarchi si tramandavano di padre in figlio insieme con la benedizione paterna. Ora però non facciamo confusione: in un contesto genesiaco il serpente è facilmente proprio il tentatore edenico, e difatti nel film di Aronofsky si comprende chiaramente che quel cimelio sacro consegnato di patriarca in patriarca nient’altro era che una muta del “serpente antico”. Come si poteva dunque interpretare quell’elemento come positivo? Si può, naturalmente: basta conoscere la gnosi ofita e naassena, e condire quelle conoscenze con qualche riferimento sethiano. Eh, sì: si fa presto a dire “gnosi”, almeno stando a quanto spesso si legge online… Tuttavia non è questo l’argomento che ci preme oggi, quindi per placare le ansie degli scettici irriducibili basti ricordare che nella navata centrale di sant’Ambrogio a Milano due colonne sorreggono da una parte una croce e dall’altra un serpente. Ah, sono di età longobarda, di quando dunque il dogma cristologico era già definito da diversi secoli.

Ma non distraiamoci: torniamo a Gesù, primo autore di questa benedetta confusione. Essì, perché se il Messia non avesse tirato fuori quell’immagine stramba (e compromessa!) dall’antico rotolo del Levitico, probabilmente a oggi il serpente di Mosè sarebbe relegato a uno dei tanti fatti strani dell’Antico Testamento – di quelli che il lettore medio dimentica al voltare di pagina.

E invece no: Gesù trovò opportuno rifarsi a quell’episodio per esprimere convenientemente il proprio destino.

E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il figlio dell’uomo sia innalzato – perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Così tanto, infatti, Dio ha amato il mondo, da dare il figlio unigenito – perché chiunque ha fede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna.

(Gv 3, 15-16)

Ora, noi abbiamo imparato dal Concilio Lateranense IV che un’analogia è una “notevole somiglianza in una dissomiglianza ancora più evidente”, e quindi – poiché ovviamente il Santo Padre conosce altrettanto bene il dettato conciliare, e visto che evidentemente nessuno dubita che Gesù non sia il diavolo – la sfida intrigante è dedicarsi a scoprire fino a dove si spinga la “notevole somiglianza” tra Gesù e il serpente.

E per cominciare bisogna liberarsi da una lettura biblica ingenuamente sinottica, considerando quanto segue:

  1. Il testo dei Numeri non ha alcun contatto con il racconto della vicenda edenica nella Genesi, e poiché le datazioni sono sì complesse, ma si può dire con una certa sicurezza che i primi capitoli del Genesi sono almeno leggermente più recenti della redazione finale di Numeri, non pare filologicamente corretto interpretare l’episodio nel deserto alla luce di quello nel giardino;
  2. Gesù, tuttavia, conosce l’uno e l’altro testo, e alla sua epoca il serpente (da lui citato, non negativamente, anche in Mt 10, 16) è comunemente inteso come simbolo di scaltrezza, inafferrabilità e inaffidabilità.

Quindi se l’autore di Numeri poteva non sapere dell’accezione negativa che il serpente avrebbe preso nei secoli, Gesù non poteva ignorare che al suo tempo la cosa sarebbe stata presa come un’immagine inquietante. Ma a ben vedere l’elemento inquietante è già nel testo di Numeri, perché l’antidoto ai “serpenti brucianti” non è una cosa diversa dai serpenti, ma per l’appunto l’immagine artificiale (quello che in greco si direbbe l’idolo) di un serpente. E c’è di peggio: in Nm 21 gli stessi “serpenti brucianti” sono mandati da Dio (in raffigurazioni come quella del Chiostro dei Domenicani, a Bolzano, si vede infatti che piovono dal cielo!).

A una lettura superficiale sembrerebbe quindi che Dio si comporti con stile mafioso: prima manda una banda a malmenare il popolo e poi manda un energumeno fortissimo che può neutralizzare la banda. Blasfemo, senza dubbio. Ma sono letture superficiali e/o malevole, appunto, queste che vanno a rintracciare la bestemmia nei testi sacri e (se serve) nelle omelie dei papi: la realtà è che i “serpenti brucianti” sono riportati dal testo sacro come il giusto castigo di una libera colpa del popolo, e per l’attributo della giustizia l’agiografo li fa risalire direttamente a Dio. Il fatto che l’antidoto – cui sempre Dio provvede – abbia la stessa forma dei castighi indica due cose: sul piano teologico, che la giustizia e la misericordia sono prerogative dell’unico Dio; sul piano antropologico-esperienziale, che le pene sono da una parte il castigo per le colpe e dall’altro la medicina che ne guarisce le ferite (e questo è un corollario teologico che mostra come in Dio la giustizia e la misericordia non confliggono e non si alternano, ma cooperano alla salvezza dell’uomo).

Gesù, uomo-Dio, si colloca in entrambi i piani, e proprio la parola greca con cui sopra designavamo il serpente metallico – “εἶδολον” [idolo] – offre un importante spunto sul piano propriamente cristologico del simbolo: “idolo” è infatti parola strettamente imparentata con “idea”, e un contesto segnato dal platonismo, come quello in cui si elabora il dogma cristologico, coglie in questa assonanza il fatto che il serpente di metallo entra in gioco cronologicamente dopo i “serpenti brucianti”, ma proprio nel suo essere “idolo” afferma una priorità ontologica sugli stessi. In parole povere: Gesù viene prima dei nostri peccati; Gesù viene prima dello stesso bisogno di redenzione dell’uomo (san Tommaso non sarebbe d’accordo, su questo, ma san Bonaventura sì). Non a caso è solo il Quarto Vangelo (quello che comincia affermando l’anteriorità e la priorità del Figlio su tutte le cose) a riportare le parole di Gesù sul serpente di Mosè.

E veniamo alla parte più teologicamente forte di “Gesù-serpente”: tutti noi facciamo l’esperienza di come i peccati che commettiamo, mano a mano che si radicano in noi in forma di quelle cattive abitudini che chiamiamo “vizi”, diventino una specie di “seconda natura”, per noi. Difatti Tertulliano usa l’espressione “quasi una seconda natura” per parlare del peccato, e Agostino adopera la stessa per designare la morte (che del primo è conseguenza).

Ebbene, siamo tutti d’accordo sul fatto che Gesù «non commise peccato», come recita il bellissimo inno della Prima lettera di Pietro, ma professiamo ugualmente, con la Prima lettera di Giovanni, che

chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo pecca fin dal principio.
E per questo si è manifestato il Figlio di Dio: per dissolvere le opere del diavolo.

(1Gv 3, 8)

Quindi, come la mettiamo? Perché la Lettera agli Ebrei si premura di precisare che nella seconda venuta Cristo verrà “fuori dal peccato”? Perché, di fatto, l’innalzamento del “figlio dell’uomo” non potrebbe produrre la salvezza di chi crede in Cristo, se Cristo non si fosse misticamente fatto mordere da tutti i serpenti brucianti che per le loro colpe rincorrevano gli uomini. Cristo non commise colpe, diremmo allora con linguaggio scolastico, ma si assunse tutte le pene: la sua croce sintetizza il peccato di tutto il mondo e diventa salvifica (e adorabile, come in questi giorni ricordiamo!) proprio perché vi viene immolata, offerta e ricevuta la Sua divina innocenza. Diventando il Cireneo di ogni uomo, e a patto che accogliamo “il dono di Dio”, Cristo trasforma ogni singolo “serpente bruciante” che ci rincorre nella via della nostra redenzione.

Questo tutti i cristiani della storia hanno sempre creduto e professato; e anche noi oggi possiamo essere grati a chi ha alimentato l’ennesima polemica sterile in principio e fruttuosa in fine. Rileggere la bella pagina del compianto cardinal Biffi ci ha ricordato che il cristianesimo conserva sempre, nei limiti imposti dal dogma, la vivacità della più grande storia mai raccontata. Che salva chi la ascolta come un bambino.

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