«Vi ringraziamo di non averci abbandonati. Non lo dimenticheremo mai». Erano arrivati con il terrore della guerra negli occhi, sono ripartiti con la gioia di sentirsi amati e con la speranza della pace. I profughi del Carmel di Bangui hanno smontato le tende e hanno salutato i frati che per tre anni e tre mesi li hanno accolti. Un progetto finanziato dall’Alto Commissariato per i profughi dell’Onu in collaborazione con il Governo centrafricano e con altri partner ha permesso alle persone (anche a quelle di stanza nei pressi dell’aeroporto) di rientrare nei quartieri della città e di riprendere con un piccolo incentivo economico una vita normale.
Quando la mattina del 5 dicembre 2013 i Carmelitani aprirono le porte del loro convento non potevano certo pensare che avrebbero scritto una straordinaria pagina di accoglienza. «Fuggire o cacciarli sarebbe stato da vigliacchi. Abbiamo compreso – racconta padre Federico Trinchero – che quel pezzo di strada andava fatto insieme. Perché lasciarsi sfuggire un’occasione del genere? Accoglierli ci è sembrata da subito la cosa giusta da fare. Forse se ci avessero detto che i profughi sarebbero diventati migliaia ci saremmo spaventati e avremmo rifiutato. Dal punto di vista umano e cristiano è un’esperienza che ci ha profondamente segnato e che ricorderemo tra le più belle e intense della nostra vita. Non siamo eroi. Ognuno ha fatto la propria parte, giorno dopo giorno». Hanno incrociato più di 10mila volti che sono diventati familiari. «C’è chi è nato e chi è morto, chi si è ammalato e chi è guarito, chi ha trovato un lavoro e chi l’amore della sua vita o chi ha ritrovato la fede o semplicemente la forza di perdonare perduta nei meandri della guerra…».
Il campo con la sua terra rossa schiacciata e dura come il cemento è ormai deserto. «C’eravamo così abituati e affezionati alla loro presenza, alle loro esigenze e al loro rumore che abbiamo percepito un senso di vuoto e un silenzio a cui non eravamo più abituati. Ma questo capitolo intenso e straordinario della storia del Carmel doveva comunque concludersi. Il sindacato dei bambini ha protestato un po’, ma ha dovuto arrendersi alle decisioni dei grandi. Capiranno più avanti che non si cresce bene in un campo profughi. Soltanto dopo la partenza dei nostri ospiti ci siamo accorti di quanto fosse popolato e di quante cose, per evitare i saccheggi, erano state raccolte e accumulate nelle tende». Ora si lavora per rimettere tutto in ordine, in attesa che la stagione delle piogge faccia nuovamente crescere l’erba. All’ingresso della proprietà rimangono ancora attivi il mercato con il bar, il cinema e una piccola officina meccanica per i quartieri limitrofi.
Lo scorso gennaio i frati hanno celebrato una Messa di ringraziamento per «i benefici di questi tre anni: il Signore non ci ha mai fatto mancare la sua protezione e la sua provvidenza. Molti di confessione protestante hanno voluto unirsi alla Celebrazione. Abbiamo terminato la Messa sulla collina al centro della nostra proprietà con la benedizione di Bangui e l’implorazione del dono della pace» che non è più un’utopia nel Paese dove il Papa ha scelto di aprire il Giubileo straordinario della misericordia.
Vietato, però, abbassare la guardia. Se la situazione è migliorata nella capitale, lo stesso non si può dire per altre zone come Bocaranga o Bambari. «Piccoli gruppi di ribelli – non sempre ben identificabili, spesso divisi tra loro e poco chiari nelle rivendicazioni – continuano purtroppo a compiere azioni criminali causando vittime innocenti, seminando paura e costringendo la popolazione ad abbandonare i centri abitati. Con molta fatica la missione dell’Onu cerca di arginare questi fenomeni che, si spera, dovranno assolutamente essere sradicati per permettere a tutto il Paese – non solo alla Capitale – d’imboccare risolutamente il cammino della pace e dello sviluppo». Non è il momento di abbandonare il Centrafrica. «C’è una nazione non da ricostruire, ma da costruire per la prima volta e non possiamo farcela – questo l’appello finale di padre Federico – senza il contributo di tutti».