«Compresi che sarei finita sposa a un uomo molto più grande di me e, soprattutto, che avrei dovuto dire addio per sempre alla scuola, ad appena 11 anni. Così fuggii». Sembra l’incipit di uno di quei bei romanzi a sfondo sociale, che si leggono per ritrovare fiducia nell’umanità. Invece è l’inizio di una storia, per quanto incredibile, tutta vera. A raccontarla a Vatican Insider, con l’orgoglio mite di chi ha abbattuto uno dopo l’altro stigma e stereotipi legati alla propria condizione, divenendo simbolo di liberazione in Nigeria e nel mondo, è la diretta protagonista, Hauwa Ibrahim.
A Roma per partecipare al convegno “Liberare le donne dalla violenza”, organizzato dall’Ufficio di informazione del Parlamento europeo, l’avvocatessa nigeriana e docente ad Harvard, spiega il senso dell’8 marzo e la volontà di cominciare una vera rivoluzione pacifica a partire dalle donne. Anzi, dalle madri. «Anni fa, dopo essere stata chiamata dall’ex presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, a far parte del Comitato Presidenziale per le ricerche delle 219 ragazze rapite da Boko Haram, ho preso diretto contatto con il mondo dei terroristi – racconta -. Al di là di alcuni folli ideologi, la maggior parte degli uomini che fanno parte di Boko Haram, così come dell’Isis (in seguito è stata chiamata anche dal Principe giordano Hassan bin Talal per lavorare in un campo profughi con i giovani attratti dalla rete estremista islamica, ndr) è composta da ragazzi che attendono solo di venire valorizzati e che, vedendo frustrate le proprie speranze, cedono all’orrore del fondamentalismo. Nell’incontrarli mi sono resa conto che molto più dei droni, degli eserciti, delle torture, può un semplice soft-power, quello delle madri».
Il primo esperimento di questa strategia, Ibrahim lo ha messo in atto quando le fu concesso di incontrare le madri di alcuni membri di Boko Haram arrestati. Le convinse ad andare in carcere a visitare i figli e a riallacciare un legame con loro. «Le due mamme pensavano che i figli fossero morti, i ragazzi che le madri si fossero dimenticate di loro. Quando si incontrarono, si abbracciarono e presero a piangere senza sosta. Uno dei due, si gettò al collo della mamma e non la lasciava più, come fosse tornato bambino. Sono certa che in quell’incontro sia avvenuto tra tutti i protagonisti un profondo cambiamento». Convinta del potere pacifico che le madri possano esercitare non solo sui propri figli, l’avvocatessa ha fondato Mother’s Without Borders: Steering Youth Away from Violent Extremism e cominciato a riunire donne da tutto il mondo per intraprendere azioni volte a recuperare i giovani irretiti dal fondamentalismo e ristabilire pace e riconciliazione.
«Ho capito che il fondamentalismo è una mistificazione della spiritualità e che l’unico modo per combatterlo è dall’interno, pescando nella tradizione o riferendosi ai principi basilari. Tra questi, per esempio, c’è il legame fortissimo che nell’Islam si istaura tra figli maschi e madri, è un rapporto quasi sacro che si rifà alla frase del Corano che recita “Il paradiso giace ai piedi delle madri”. Una madre può molto più di tanti altri. In fondo è lo stesso metodo che uso in tribunale per difendere le donne nigeriane dalla Sharia». Da quando nel 1999 la Sharia è stata introdotta in 12 stati della Nigeria del Nord andando a interessare oltre 50 milioni di abitanti, la legale ha cominciato a intraprendere azioni legali in protezione delle donne condannate alla lapidazione per adulterio, riuscendo nell’incredibile impresa di divenire la prima donna a entrare ed esercitare il ruolo di avvocato difensore in una corte islamica. Ha rappresentato pro bono più di 150 donne e salvato le vite a moltissime di loro.
«Secondo la Sharia – spiega Hauwa sorridente – una donna per essere condannata deve aver commesso adulterio all’aperto, essere stata vista contemporaneamente da 4 uomini – tutti obbligatoriamente sani di mente -, deve ammettere di aver commesso adulterio, deve essere rimasta incinta e deve essere comprovato che sia capace di intendere e di volere. Non è difficile dimostrare che la soddisfazione di tutte queste condizioni è quasi sempre impossibile. E io lo faccio in tribunale da anni, non con un codice di procedura civile o penale in mano, ma con la Sharia».
Inattaccabile dal punto di vista esclusivamente legale, influente grazie alla fama conquistata a suon di lotte e visibilità in tutto il mondo, determinata come quel giorno che scappò di casa e si presentò alla scuola superiore di Gombe, a due giorni di viaggio dal suo villaggio nel Nord-Est della Nigeria, ottenendo di essere iscritta, Hauwa Ibrahim è ormai un monumento di liberazione e, dal conferimento del premio Sakharov, un riferimento stabile anche in Europa, come spiega l’eurodeputata Silvia Costa con lei panelist al convegno: «Hauwa è un vero e proprio modello di lotta culturale, politica, mediatica per noi donne europee. È la dimostrazione pratica di quanto la donna sia soggetto pieno della politica e non oggetto. Sono le donne il primo motore del cambiamento e solo grazie a un loro maggior coinvolgimento si potrà fare la differenza».
A lei si rivolgono le ragazze e le madri del suo Paese per essere salvate dalla condanna a morte. A lei guardano donne di tutto il mondo nella speranza che i propri figli vengano salvati dal terrorismo. Con lei trovano ispirazione nella lotta per i diritti umani e civili molte persone di ogni continente. A guardarla e sentirla, viene da pensare quanto ancora sia incredibilmente inibito il ruolo femminile nel mondo, a ogni livello, e ci si chiede cosa debba succedere perché ci si convinca a dare alla donna potere, spazio di decisione, di mediazione, di risoluzione. Probabilmente è la domanda giusta da porsi in questo giorno in cui gli auguri, più che a loro, andrebbero fatti a noi.