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“Le persone affette da sindrome di Down danno alla società molto più di quello che ricevono”

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Red el hueco de mi vientre - pubblicato il 07/03/17
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Molti ritengono che sia “meglio non averle”Jesús Flórez e sua moglie, Mª Victoria Troncoso, si dedicano da una vita alle persone affette dalla sindrome di Down. Alla guida della Fondazione Sindrome di Down della Cantabria (Spagna) per 35 anni, nel 2006 hanno ricevuto il Christian Pueschel Memorial Research Award, premio concesso dalla principale organizzazione statunitense dedicata alla sindrome di Down.

Mª Victoria è laureata in Giurisprudenza e diplomata in Pedagogia Terapeutica, Jesús ha insegnato Farmacologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università della Cantabria ed è esperto nella ricerca sulla sindrome di Down. Autori di libri e articoli di ricerca, hanno viaggiato in molte città della Spagna e dell’America Latina parlando della realtà che vivono le persone con la sindrome di Down e le loro famiglie.

Sono genitori di 7 figli, tre dei quali morti durante la gestazione o poco dopo la nascita. Dei figli viventi, due figlie hanno disabilità intellettive: la più grande, di 52 anni, è affetta dalla sindrome di Koolen-deVries, la più piccola (40 anni) dalla sindrome di Down.

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Didascalia foto: Membri della Rete El Hueco de mi Vientre nella Fondazione Sindrome di Down della Cantabria (accanto a Jesús F, Mª Victoria T ed Elisa U). Febbraio 2017

Nella vostra vita, nella vostra famiglia, c’è esperienza di sacrificio, di malattia, di dolore e sofferenza, ma anche di molto amore e di gioia… Dopo tanti anni, cosa direste che pesa di più?

In effetti abbiamo avuto e abbiamo molte esperienze di dolore e sofferenza, ma questo è inerente all’essere umano. Quasi tutte le persone, nel corso della loro vita, hanno esperienze di questo tipo. Nel nostro caso, essendo più grandi, ne abbiamo avute varie, ma è anche vero che le gioie e le soddisfazioni sono state tante e grandi. Non solo perché alcune sono state così di per sé, ma perché abbiamo imparato a goderci migliaia di piccole cose alle quali in genere non si dà valore e non si presta attenzione.

Abbiamo anche imparato a non rammaricarci né a fare una tragedia di piccoli contrattempi o contrarietà che spesso danno dispiacere a molte persone. Pesano quindi di più l’amore, l’allegria, le soddisfazioni, le cose buone. Tutto questo ci aiuta ad affrontare con maggior serenità e più forza le sofferenze e i momenti difficili.

Dall’altro lato, l’apprendimento e il vivere la sofferenza ci hanno aiutati ad essere più comprensivi e compassionevoli – ovvero a “com-patire” – nei confronti di altre persone che si sono sentite accompagnate o sostenute.

Com’è il primo contatto con i genitori che ricorrono alla Fondazione Sindrome di Down della Cantabria?

Il primo contatto con i nuovi genitori – sia durante la gravidanza che nelle prime ore dopo la nascita – ha sempre qualcosa in comune perché è facile per noi metterci nei loro panni: “Quanto state male! Quel tunnel scuro di ora a poco a poco si aprirà alla luce”. Già nel primo incontro, o in quelli successivi, escono fuori le prime paure e i primi dubbi. Alcuni sono ingiustificati e irreali, perché si basano su informazioni non corrette. Di fatto, quando diciamo la verità togliamo loro un peso.

Altre preoccupazioni possono svanire perché verificano direttamente che molte famiglie hanno superato quella situazione e vivono tranquillamente la propria vita. Molti genitori, vedendo altri, hanno affermato: “Se ce l’hanno fatta loro possiamo farcela anche noi”, o “Se vedi questa madre e suo figlio tanto sorridenti e contenti, anche noi saremo così tra poco”, o ancora “Se questa madre può portare avanti il suo lavoro anche se a part time lo farò anch’io”.

Non è necessario fare grandi cambiamenti nella vita personale e familiare, anche se degli adattamenti servono perché, soprattutto all’inizio, ci sono compiti extra con aspetti sanitari e di assistenza particolari.

Stabilito così un rapporto cordiale, amichevole e rispettoso, possiamo rispondere a quasi tutte le loro domande e alleviare la maggior parte del peso che sentono. E ovviamente iniziano a sentirsi sicuri verificando il sostegno tecnico che offre la Fondazione.

Quali paure accompagnano questi genitori? Non ritenersi capaci di curare il proprio figlio, il rifiuto sociale…?

Le paure sono tante e in ogni famiglia alcune pesano più di altre in funzione di personalità, valori, cultura, famiglia e amici. C’è poi il ruolo tanto negativo della società, che anche se con leggi a favore delle persone disabili continua purtroppo a promuoverne l’eliminazione prima di nascere. “Meglio che non nascano perché è una cosa terribile e indesiderabile!”

Se tutte le risorse che si impiegano per la loro distruzione venissero impiegate per sostenere le famiglie durante la gestazione e per avviare programmi sanitari ed educativi a favore di chi ha una disabilità congenita o acquisita, avremmo una società più degna di chiamarsi umana, e sono certa che sarebbe più felice.

Le paure che segnala sono reali e logiche. Per questo è tanto importante sia accompagnare serenamente i genitori che una formazione adeguata, obiettiva e aggiornata che senza nascondere i problemi offra soluzioni efficaci.

Jesús è autore di un libro dal titolo Síndrome de Down. Comunicar la noticia: primer acto terapéutico. Com’è nata l’idea di scrivere questo testo?

Dopo tanti anni, i genitori continuano a lamentarsi della scarsa considerazione e umanità con cui i professionisti sanitari affrontano il momento in cui devono comunicare la notizia che è nato, o che è stato generato nel caso della diagnosi precoce, un figlio affetto dalla sindrome di Down. Ci sono senz’altro belle eccezioni, ma la lamentela è generalizzata. I professionisti evitano il contatto, danno informazioni scarse, antiquate, incomplete; non mostrano umanità. E troppo spesso nel caso della diagnosi prenatale tendono in modo sottile o aperto all’eliminazione del figlio. In queste condizioni, è molto difficile che i genitori possano ponderare e prendere una decisione ben informata. Il libro apporta ragioni e testimonianze perché i professionisti del settore sanitario svolgano un’attività basata sulle prove, non sui pregiudizi.

Come viene accolta la notizia dai genitori, e quali modelli di azione o chiavi si raccomandano al momento di informarli e di accompagnarli da parte dei professionisti sanitari?

È ormai un assioma che non c’è un bel modo per comunicare una cattiva notizia, né per riceverla, ma anche questo ha le sue sfumature. Ricevere la notizia che tuo figlio ha un problema non è affatto piacevole, e se il problema durerà per tutta la vita ancora meno. Partiamo da questa base. Ci sono però modi e modi per dare la notizia e per aiutare a far sì che questa notizia venga ricevuta in un ambiente di comprensione e affetto.

Si può comunicare un problema e punto finale o si può comunicare un problema e segnalare le molteplici soluzioni che esistono per affrontarlo, basandosi sulle prove reali. Questo cambia radicalmente la situazione, perché nel primo caso non c’è che dolore, mentre nel secondo c’è dolore, lo so perché l’ho vissuto, ma accarezzato dalla speranza.

Ciò fa sì che i genitori vivano la loro pena in modo del tutto diverso, e nel caso della diagnosi prenatale che si preparino con maggior conoscenza e maggiore affetto a ricevere il proprio figlio. Tralascio, naturalmente, i casi dei genitori che adottano volontariamente un figlio con la sindrome di Down.

Nel libro sostiene che alcuni ospedali hanno già istituito connessioni con i gruppi di sostegno alle famiglie, anche se dipende dalla buona volontà di una persona che lavora nell’ospedale senza che ci sia un legame sistematizzato o istituzionale. Perché è importante questa connessione, e come si potrebbe migliorare?

È importante perché per quanto i professionisti sanitari possano sapere e cercare di agire in modo adeguato, per certi aspetti nessuno può farlo meglio delle famiglie che vivono quotidianamente con la sindrome di Down. Sono loro che fanno parte dei gruppi di sostegno.

Basta quindi che in ogni ospedale (reparto Maternità, Genetica e Diagnosi) ci sia un protocollo in cui si include l’obbligatorietà di eseguire il collegamento con l’associazione o il gruppo di sostegno corrispondente. Ovviamente bisognerà avere l’autorizzazione dei genitori, ma devono sapere dell’esistenza di questo servizio e della convenienza di avvalersene. Ci sono Paesi in cui questo è obbligatorio per legge.

Credete che l’amore – esercitato nella cura di vostra figlia affetta dalla sindrome di Down e con il vostro impegno nella Fondazione Sindrome di Down della Cantabria – sia una luce per la ricerca? Aiuta a porre una buona domanda alla ricerca, a cercare le cause dei problemi?

Non ci sono domande migliori di quelle che nascono nella quotidianità, perché ci portano a indagare sulle cause. Ho buoni esempi a disposizione. E c’è un valore aggiunto: l’esposizione dei risultati va accompagnata dall’autorità che dà l’esperienza personale. La credibilità, allora, si moltiplica a beneficio di tutti.

Cosa apportano le persone con la sindrome di Down alle famiglie e alla società? È questa l’immagine che c’è nella società e tra i professionisti? Perché?

Le persone con la sindrome di Down apportano alla società ben più di quello che ricevono, anche se ovviamente non è quantificabile in denaro, in termini di euro, in risultati economici. Nel corso di più di 50 anni di vicinanza a persone con disabilità intellettive, di tutta la Spagna e di vari Paesi latinoamericani (Messico, Guatemala, El Salvador, Colombia, Paraguay, Bolivia, Brasile, Cile, Argentina, Uruguay), abbiamo acquisito un’esperienza che ci permette di affermare che il 90% di queste famiglie e delle persone che le circondano ha assicurato che il figlio o l’amico disabile è servito a sviluppare capacità che non avevano, che le hanno rese persone migliori, che non potevano concepire la propria famiglia senza quel membro disabile, che permette loro di affrontare altre situazioni difficili della vita con forza e serenità.

Se questa è l’esperienza delle famiglie, che sono le cellule della società, si dovrebbe vedere, vivere e trasmettere a livello sociale e politico, anziché dire che è “meglio non tenere” queste persone, che è una situazione che “non si può affrontare”, che “saranno disgraziate”, o ancora un falsa compassione, o sostituire la vera accettazione e partecipazione alla società – come suoi membri per il fatto di essere umani – con leggi, decreti e perfino aiuti economici che non investano chiaramente sulla loro piena integrazione sociale.

Cosa vi ha dato personalmente questo lavoro e quali sono i momenti più ingrati, se ce ne sono?

María Victoria: Personalmente mi ha aiutato molto. Mi è servito e mi serve per sviluppare capacità che non sapevo di avere. Mi sono messa, e mi metto, al servizio degli altri con grande soddisfazione. È il mio dovere.

Ho imparato e continuo a imparare molto, e mi sento spinta a condividere, ad aiutare, a migliorare questo pezzetto della società sconosciuto a molti e così poco apprezzato come quello delle persone con disabilità intellettive.

I momenti più ingrati per me sono stati quelli in cui alcuni professionisti hanno detto: “Ma perché?”, “Perché metterle gli occhiali se non leggerà?”, “Perché iscriverla ad alcune attività se non le toglieranno la sindrome di Down?”, “Perché curarle la polmonite con gli antibiotici?”, “Credi che avendo la sindrome di Down qualcuno vorrà assumerla?”

E ci sono momenti duri, grazie a Dio poco frequenti, anche quando alcuni genitori non sono capaci di buttarsi alle spalle la propria frustrazione e restano così nel corso degli anni, soffrendo e impedendo al figlio di andare avanti con un buono sviluppo emotivo, il che compromette il resto delle sue aree di sviluppo e progresso.

Jesús: Al di sopra di tutto, la convivenza con le famiglie che soffrono mi ha aiutato a guadagnare in umanità e comprensione, in quella forma di intelligenza che chiamiamo intelligenza emotiva. E questo ha avuto ripercussioni sul mio modo di trattare gli altri – i miei studenti, i miei colleghi, i miei amici. Ho perfino acquisito una percezione nuova del mondo. Da un altro punto di vista, mi è servita per approfondire la realtà piena della persona con la sindrome di Down: la sua biologia e la sua personalità. Una cosa che ho potuto trasmettere sia alle famiglie che a persone che svolgono professioni molto diverse.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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