Il gesto clamoroso di Marie Collins di lasciare la commissione vaticana per la Tutela dei minori è stata davvero una «scossa all’albero», come l’ha definita il Segretario di Stato Pietro Parolin. La donna irlandese, abusata da un prete quando era ragazzina, si è dimessa spiegando di averlo fatto a motivo di alcune resistenze riscontrate in Curia romana. L’episodio specifico citato è stata la decisione della Congregazione per la dottrina delle fede di non accogliere una richiesta della commissione che invitava a rispondere sempre direttamente alle vittime.
Con pacatezza, alcuni giorni dopo, è intervenuto il cardinale Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Spiegando che il suo dicastero «ha il compito di fare un processo canonico. Il contatto personale con le vittime è bene sia svolto dai pastori del luogo. E quando arriva una lettera, chiediamo sempre al vescovo che sia lui ad avere cura pastorale della vittima, chiarendole che la Congregazione farà tutto il possibile per fare giustizia. È un malinteso che questo dicastero, a Roma, possa occuparsi di tutte le diocesi e ordini religiosi nel mondo. Non si rispetterebbe il principio legittimo dell’autonomia delle diocesi e della sussidiarietà».
Le parole del cardinale, che peraltro si è sempre dimostrato molto fermo nella lotta alla pedofilia clericale, possono essere spiegate in questo modo: la Dottrina della fede fa fatica a svolgere in tempi celeri i processi, che durano anni, vista la loro quantità. Per rispondere direttamente a centinaia di lettere ci sarebbe bisogno di più risorse umane. La stessa Commissione per la Tutela dei minori – che non ha il compito di occuparsi dei singoli casi ma deve invece proporre iniziative per contrastare il fenomeno proteggendo i bambini – fa fatica a rispondere a tutte le lettere e le segnalazioni che riceve. Va inoltre ricordato che la Congregazione per la dottrina della fede ha funzioni di tribunale e di questo bisogna tener conto nella modalità della risposta, che non dovrebbe in alcun modo pregiudicare il processo o condizionare il giudizio finale. È vero che, avendo le forze necessarie, si potrebbe comunque rispondere direttamente notificando l’arrivo della denuncia o della richiesta. Ma c’è da domandarsi quale effetto avrebbe sulla vittima una semplice ricevuta e un linguaggio notarile.
Non sono infatti rari i casi in cui le vittime raccontano di essere state ferite di nuovo, dopo gli abusi subiti, per le risposte troppo burocratiche o difensive da parte dei vescovi e delle curie diocesane. Quando nella comunicazione prevale un linguaggio giuridico e la preoccupazione per l’andamento dei possibili futuri processi – con annesse cause per risarcimento danni – non esiste empatia né capacità di mostrare compassione e vicinanza per chi denuncia di essere stato abusato.
Allo stesso tempo bisogna fare attenzione a non cadere in quello che Müller ha definito un cliché, cioè la rappresentazione del «Papa buono» che ha la «Curia cattiva» intenta a remargli contro. Non c’è dubbio che questo cliché sia stato applicato nella storia più o meno recente della Chiesa. E non c’è dubbio nemmeno che in alcuni casi non si trattasse affatto di un cliché ma di una realtà: come non ricordare i contrasti e le resistenze più o meno felpate alle aperture di san Giovanni XXIII? Le prese di distanze verso Giovanni Paolo I o le dialettiche interne alla Curia nei primi anni del pontificato di san Giovanni Paolo II? O ancora, le lentezze con cui (non) si mettevano in pratica le indicazioni di Benedetto XVI? Oggi peraltro gli esempi possibili si sprecano. Ma il cardinale Müller ha ragione quando invita a non generalizzare. Peraltro, un’attenta lettura di quanto ha dichiarato la stessa Marie Collins dimostra come lei stessa non abbia voluto fare di ogni erba un fascio secondo il cliché consolidato «Papa buono» e «Curia cattiva», riconoscendo invece l’esistenza di tanti uffici vaticani collaborativi con la commissione anti-pedofilia.
Detto questo, al netto delle esagerazioni, dei luoghi comuni e delle reazioni emotive, non si può però ignorare l’istanza, anzi il grido contenuto nella decisione di Marie Collins. Un grido che arriva da parte di chi ha conosciuto la terribile esperienza degli abusi da minorenne, i silenzi, le complicità, gli insabbiamenti, le sottovalutazioni e soprattutto quella sottile e perversa capacità clericale di far apparire la vittima come colpevole e il colpevole come vittima.
Provocando complessi auto-colpevolizzanti proprio nel bambino o nella bambina abusata. Senza comprendere fino in fondo quanto sia profonda la ferita nell’anima dei piccoli violati e quanto più grave sia questo crimine orrendo quando a compierlo sono i sacerdoti ai quali le famiglie hanno affidato i loro bambini perché li educhino alla fede. Dovrebbero essere i vescovi, ha ricordato il cardinale Müller, a mostrare accoglienza, compassione, comprensione, vicinanza. Sono i vescovi nelle rispettive diocesi a dover rispondere. Ma è comprensibile da parte delle vittime chiedere risposte anche da Roma.
Le regole della giustizia, del processo canonico, le norme quasi emergenziali promulgate da Benedetto XVI e confermate dal suo successore Francesco, ci sono. Ciò che deve crescere è una mentalità e una cultura in grado di testimoniare vicinanza e comprensione alle vittime. Una vicinanza e una comprensione che di certo non passano attraverso i commi del Diritto canonico o l’elencazione di ciò che compete o non compete a questo o a quell’ufficio. Del resto non va dimenticata la personale testimonianza degli ultimi due Pontefici, che ripetutamente e coraggiosamente – anche a costo di creare malumori curiali o ecclesiali – hanno incontrato le vittime. Le hanno accolte, le hanno ascoltate, hanno pianto con loro. Hanno dato loro una risposta.
Come uscire dall’empasse, e tener conto sia della realtà contingente della Curia romana e delle regole processuali, sia del grido rappresentato dalla decisione di Marie Collins? Innanzitutto uscendo dagli opposti estremismi, dalle visioni che dipingono a tinte cupe gli ambienti curiali come irredimibili magari per esaltare il protagonismo della figura papale (come accade ora e come è accaduto spesso negli ultimi cinquant’anni). E uscendo pure dal sottile sarcasmo clericale che sotto il paravento dei codicilli mostra insofferenza per il fatto che una commissione vaticana della quale fanno parte donne ed ex vittime pretenda di fare raccomandazioni ai prelati, per di più sperando che questi le prendano in considerazione. Ciò che forse occorre è un surplus di sensibilità, cercando soluzioni nuove, che senza interferire con i processi possano testimoniare che la Chiesa è davvero vicina a chi ha subito queste violenze.
Non è detto infatti che a rispondere alle singole vittime debba essere la Congregazione per la dottrina della fede. A farlo potrebbe essere un altro ufficio, autonomo e slegato dai lacci giuridici dei procedimenti, in grado di dare direttamente un segno di attenzione e vicinanza a chi si dichiara vittima di abusi.