C’è l’egiziano Mohamed, diciottenne musulmano che racconta del suo compagno di classe che lo bullizzava da anni perché «diverso» e che ora è il suo migliore amico. C’è Sofia, la ragazza cattolica con la croce d’oro al collo che, seduta a Villa Sciarra, ricorda l’amicizia stretta in Inghilterra con una coetanea turca che gli confidava la sofferenza per il suo Paese. E c’è Cesare, adolescente ebreo, che spiega di aver paura ad andare in giro per Roma con la kippah perché «può essere pericoloso». Poi ancora Mosil che vuole tornare in Israele a servire il suo «popolo di appartenenza»; Matteo che si chiede perché tutti gli immigrati sbarchino in Italia ma che comunque invoca il «rispetto» per l’altro; Tasnim, la figlia dell’imam, che è stanca delle battutacce contro l’hijab (il velo islamico) sul suo capo e che è pronta a spiegare il motivo per cui lo indossa «a chi me lo chiede e non a chi mi attacca».
Le loro sono le voci di ragazzi «normali», con ai piedi le All Stars e i pantaloni coi “risvoltini”, che il giorno vanno a scuola e la sera a passeggio, ma che provengono da diverse religioni e tradizioni, accomunati tuttavia da un unico desiderio di «felicità» per il futuro e per un presente sconvolto da guerre e massacri compiuti in nome di Dio. Tutte le loro testimonianze si intrecciano nel docufilm di Gualtiero Peirce “Almeno credo” , presentato oggi in anteprima alla Filmoteca vaticana, che andrà in onda la sera del 9 marzo su Tv2000. Un’opera che è il prosieguo di un progetto avviato nel 2007 (il 5767 dell’anno israelitico e il 1527 dell’anno islamico) dal titolo “Primo giorno di Dio”, andato in onda su Rai Tre, che riprendeva gli stessi ragazzi dai 5 agli 8 anni mentre apprendevano, nelle tre classi confessionali di Roma (la cattolica “Antonio Rosmini”, l’istituto ebraico “Vittorio Polacco” e la scuola integrativa della moschea “El Fath”) i rudimenti delle rispettive fedi: fare il segno della Croce, recitare il salāt (la preghiera islamica canonica ndr), intonare lo Shemà. E soprattutto imparare a conoscere quel Dio che, dopo un decennio, rimane «una presenza costante» nella vita di tutti.
«Dieci anni fa era un progetto spericolato», spiega il regista in conferenza, ringraziando i ragazzi che si sono resi nuovamente disponibili alla realizzazione del docufilm. «Ci hanno accolto con un sorriso e con la stessa fiducia, forse perché non abbiamo tradito la loro». «Avevo paura che da adolescenti perdessero la spontaneità dei bambini, che non avrebbero raccontato con la stessa forza – confida -. Sentendoli parlare mi hanno tolto dalla testa questo povero pensiero e restituito invece il pensiero di giovani che credono in Dio, nella vita che sboccia, nel futuro e negli altri, senza riserve».
«Se il futuro è fatto da gente come loro, forse ce la possiamo pure fa…!», scherza Peirce con accento romanesco. Lo stesso che si sente spesso nei 70 minuti del documentario – Mohamed soprattutto che dice: «Dio ce vede a tutti, sa chi fa der bene e chi der male» – a dimostrazione che tutte le testimonianze raccolte non sono costruite ma rese spontaneamente. «Le parole con cui questi ragazzi si raccontano nascondono domande importanti», ha sottolineato monsignor Marco Gnavi, responsabile per l’Ufficio Ecumenismo del Vicariato di Roma. Questo film indica «l’atteggiamento da adottare verso i giovani: accompagnare, seguire, dare ascolto alle loro inquietudini, ai loro dubbi o alle certezze di fede».
I dubbi, ad esempio, della rossa Elena che da piccola affermava di vedere i suoi genitori come Dio «per il bene che mi dimostravano», e che ora confessa: «Non ho avuto conferme di questa presenza negli anni». Oppure le certezze di Alessio che ammette: «Non ricordo di preciso cosa ci diceva la maestra, ma quello che ci ha insegnato mi è rimasto dentro». «Quello che viene seminato non lo troviamo nella stessa forma dieci anni dopo», ha spiegato Gnavi; tuttavia, «le domande dei bambini rimangono aperte negli adolescenti, si mettono in un cassetto ma poi si ritrovano davanti alle sfide della vita». Sfide come la morte, la giustizia, le responsabilità e le colpe dell’età «adulta» e il «rispetto» in una società che ne sembra sempre più carente. In tutti «c’è la ricerca e il conforto della fede che non si esprime con le certezze dogmatiche ma come un valore dell’anima». E questo «richiama noi grandi a non eludere le domande dei giovani, perché – e lo dico da parroco – quando un prete o chiunque cerca di spiegare la fede, se non ti capiscono i bambini hai fallito. Puoi essere anche un grande esegeta o un poveraccio, ma solo se ti fai capire dai bambini riesci nel tuo compito».
D’accordo Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, accompagnata in conferenza da alcune maestre della scuola ebraica ripresa nel video: «Non dobbiamo guardare ai bambini con la supponenza di sapere più di loro per esperienza, per maturità e via dicendo, anzi dalle loro voci dobbiamo trovare spunto per maturare e semplificare un mondo che ci complichiamo troppo», ha detto. In tal senso è fondamentale recuperare il ruolo delle religioni, «elemento di decadenza del nostro tempo», in modo da «riconquistare qualche strumento in più per affrontare il mondo con maggiore serenità».
Un mondo che «sta andando male», ha detto schietto l’imam della Moschea della Magliana, Sami Salem, le cui due figlie, Mariam e Tasnim, sono tra le protagoniste del documentario. «Questo film dimostra che ci sono persone pronte a cambiare il mondo in modo giusto: i bambini. Loro h anno il cuore puro e noi non dobbiamo macchiarlo con pregiudizi e notizie sbagliate o con la cattiveria. Le loro parole testimoniano che la pace possiamo costruirla, che i pregiudizi possiamo superarli, che le difficoltà possiamo lasciarcele alle spalle».
Dunque “Almeno credo” è «una lezione per tutti, un piccolo contributo alla costruzione di un mondo migliore», ha chiosato Paolo Ruffini, direttore di Tv2000: «Il mondo è loro che sono giovani». Giovani che pregano «l’amico» Dio per sentirsi più «sicuri» nelle loro paure, che partono in erasmus in Europa, in pellegrinaggio alla Mecca, in viaggio in Israele. Che da “grandi” vorrebbero diventare «una psicologa», «uno chef», «una criminologa», «un pilota di aerei». E che alla domanda su come si vedono tra altri dieci anni rispondono quasi tutti allo stesso modo: «Mah, vorrei essere solo felice…».