Nonostante le rassicuranti dichiarazioni di rito sulla «pace fatta» e sullo spirito di «ritrovata comunione», venti di crisi continuano ad agitare i rapporti tra il Patriarca greco-melchita Grègoire III Laham e ampia parte dell’episcopato di quella Chiesa cattolica orientale. Il Patriarcato ha da poco diffuso un comunicato per ribadire che il Patriarca resta al suo posto, alla guida del Patriarcato, e addirittura si appesta a varare «nuovi progetti», con l’intenzione di raddoppiare i propri sforzi, «sia sul piano locale che su quello internazionale», per «alleviare le sofferenze della popolazione nella crisi in atto, soprattutto in Siria, Iraq e Palestina». Ma proprio il comunicato, come una sorta di excusatio non petita, ha l’effetto di confermare le tensioni perduranti in seno al Sinodo melchita. Mentre da Damasco si diffondono le voci di una lettera di rinuncia del Patriarca, già inviata a Roma.
La prima, clamorosa manifestazione del malessere regnante in seno al Sinodo melchita c’era stata nel giugno 2016: allora, il Sinodo della Chiesa cattolica greco-melchita, dopo essersi aperto il 20 giugno presso il seminario di Ain Traz, a sud-est di Beirut, era stato interrotto e rinviato a data da destinarsi, dopo che un certo numero di vescovi avevano fatto mancare il numero legale richiesto per la validità dell’assemblea sinodale. Dei 22 vescovi melchiti allora in carica, solo 11 si erano presentati alla seduta inaugurale dell’assemblea. Già allora, le tensioni e i malumori si concretizzavano nella richiesta di dimissioni del Patriarca Grégoire III, sostenuta da un gruppo di almeno dieci vescovi, per procedere poi all’elezione di un nuovo Patriarca. Alla base del dissenso c’erano anche questioni di ordine finanziario e amministrativo, con le accuse rivolte al Patriarca di aver dilapidato il patrimonio della Chiesa. In un suo pronunciamento successivo al rinvio del Sinodo, Grègoire III, richiamando disposizioni riproposte anche dalla Congregazione vaticana per le Chiese orientali, sottolineava che il diritto canonico orientale non contempla la possibilità di imporre al Patriarca le dimissioni contro la sua volontà, e che tutte le eventuali controversie dovevano essere affrontate all’interno dell’Assemblea sinodale.
Dal 21 al 23 febbraio scorsi, il Sinodo del Patriarcato melchita è tornato a riunirsi presso la sede patriarcale di Raboué, in Libano. A rendere possibile la riuscita dell’assemblea sinodale ha contribuito anche l’opera di persuasione condotta dai Nunzi apostolici in Siria e Libano, il cardinale Mario Zenari e l’arcivescovo Gabriele Caccia, ambedue eccezionalmente presenti ai lavori sinodali. Alla fine dell’Assemblea, era stato diffuso un comunicato dai toni incoraggianti, nel quale i partecipanti all’incontro rendevano grazie al Signore per aver donato loro lo «spirito di riconciliazione fraterna» per ristabilire la pace nella Chiesa e «riprendere il cammino di comunione». Nel comunicato si faceva cenno al tono «sconveniente» utilizzato da alcuni vescovi nelle polemiche, e agli «errori di gestione, con tutta probabilità involontari» notati da alcuni vescovi nell’amministrazione del patrimonio. Si fissavano anche le date della prossima Assemblea sinodale, messa in agenda dal 19 al 24 giugno 2017, e si rimarcava che, nel frattempo, i nuovi membri permanenti del sinodo patriarcale, da rinominare, avrebbero «assistito» il Patriarca nelle sue funzioni.
In realtà, da Damasco, fonti vicine al Patriarcato sostengono che durante l’Assemblea sinodale di febbraio il Patriarca, su pressione della maggioranza dei vescovi, avrebbe firmato una lettera di rinuncia dal proprio ministero patriarcale.
La lettera sarebbe stata già inviata a Roma, da dove non sarebbe arrivata al momento alcuna risposta. Secondo alcuni osservatori, le indicazioni dalla Santa Sede potrebbero arrivare solo dopo il tempo di quaresima e la celebrazione della Pasqua. Ma c’è chi ipotizza anche che il Patriarca non abbia reale intenzione di dimettersi: in questa chiave andrebbe letto anche il comunicato appena diffuso dall’ufficio per le comunicazioni del patriarcato, che fa riferimento esplicito ad articoli apparsi sui media locali, contenenti accenni a possibili dimissioni del Patriarca, e invita gli operatori dei media a pubblicare solo notizie di cui sia stata verificata l’attendibilità.
Al di là delle indiscrezioni e dei personalismi, lo stato di malessere della Chiesa melchita è uno dei segnali più eloquenti delle difficoltà «interne» vissute in seno alle gerarchie e al clero di molte comunità cristiane del Medio Oriente, messe a nudo dalle convulsioni provocate dai conflitti e dalle contrapposizioni settarie.
Alcuni giorni fa, l’arcivescovo Samir Nassar, alla guida dell’arcieparchia di Damasco dei maroniti, nella sua lettera quaresimale ha annoverato tra i primi fattori di sofferenza che affliggono le Chiese di Siria anche l’emorragia dei sacerdoti fuggiti da Damasco durante gli anni di guerra civile, privando i fedeli rimasti del loro conforto pastorale. Il Patriarca caldeo Louis Raphael I Sako ha condotto una lunga battaglia per denunciare l’esodo di sacerdoti e religiosi fuoriusciti dalla propria Patria ed emigrati – senza il consenso dei propri vescovi – in Occidente. E mentre il tessuto ecclesiale locale sembra in molti luoghi dissiparsi, cresce il numero di operatori ecclesiali assorbiti a tempo pieno nelle operazioni di «fundraising» e nella gestione di risorse raccolte a favore dei «cristiani perseguitati».