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Il sangue dei bambini africani nei nostri smartphone

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Aleteia - Valerio Evangelista - pubblicato il 06/03/17
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L’utilizzo di alcuni metalli rende ai colossi della tecnologie miliardi, ma quasi sempre il processo di estrazione coinvolge il lavoro di bambini piccoliAl giorno d’oggi è difficile trovare qualcuno che non faccia ampio uso di cellulari, tablet, computer portatili e altri dispositivi elettronici. Gli smartphone sono diventati ormai degli strumenti insostituibili, con cui controlliamo freneticamente appuntamenti, e-mail e impegni. Sono in pochi però a sapere che le batterie che alimentano questi dispositivi vengono prodotte con coltan e cobalto, due materiali ottenuti attraverso il lavoro – sfiancante ed estremamente rischioso – di uomini e bambini nelle miniere della Repubblica democratica del Congo (Rdc).

Il cobalto, una componente essenziale delle batterie per smartphone e computer portatili, rende miliardi a multinazionali come la Apple e la Samsung; ma la maggior parte dei lavoratori coinvolti nell’estrazione guadagna pochi centesimi al giorno, in condizioni pericolosissime. Secondo l’Unicef, nel 2014 circa 40.000 bambini lavoravano nelle miniere delle regioni meridionali della Repubblica Democratica del Congo. Prevalentemente, nelle miniere di cobalto.

La mancanza di regolamentazione adeguate consente alle aziende di non rendere conto dell’intero processo produttivo, e quindi viene meno l’obbligo di rintracciare le proprie linee di rifornimento di cobalto. La maggior parte del cobalto del mondo proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, e ci sono altissime probabilità che lo smartphone con cui tu stai leggendo questo articolo, così come il computer che io sto utilizzando per scriverlo, contengano una batteria con del cobalto estratto dai bambini congolesi.

Un’inchiesta del giornalista di Sky News Alex Crawford ha mostrato che tra i lavoratori coinvolti nell’estrazione del cobalto sono presenti addirittura bambini di soli 4 anni. Crawford ha raccontato la storia di Dorsen, di soli 8 anni. Benché lavori 12 ore al giorno, con qualsiasi condizione atmosferica, spesso non riesce a guadagnare il necessario per mangiare tre pasti al giorno. Il suo amico Richard, di 11 anni, ha detto di avere continui dolori per tutto il corpo, a causa del lavoro fisico particolarmente faticoso.

I lavoratori scavano i tunnel delle miniere – che non hanno sostegni e che potrebbero crollare con una semplice pioggia – a mano e senza alcun materiale protettivo.

“Ci sono migliaia di miniere non ufficiali, non regolamentate e non monitorate”, si legge nell’articolo, “in cui uomini, donne e bambini lavorano in quelle che possono essere descritte soltanto come condizioni di schiavitù. Ci siamo persino imbattuti in un gruppo di bambini, tra cui una ragazzina di quattro anni, che raccoglievano le singole pietroline di cobalto (…) Tra loro c’era anche una donna incinta che teneva in braccio un bambino piccolo. Nessuno di loro indossava guanti o maschere, benché l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiari che l’esposizione al cobalto e l’inalazione delle sue polveri possano causare problemi di salute a lungo termine”.


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Una delle persone intervistate, Makumba Mateba, ha un enorme tumore alla gola che ritiene sia dovuto all’acqua contaminata. “Beviamo solo l’acqua proveniente dai siti minerari (…) sono sicuro che è stata quella a farmi male”.

Sul Guardian Frank Piasecki Poulsen racconta la sua scioccante esperienza nelle miniere di Bisie. “Dei gruppi armati sorvegliavano un cancello realizzato con dei bastoni, e chiunque entrasse o uscisse dal sito doveva dare loro dei soldi. Un villaggio di fango e sacchetti di plastica in cui erano intrappolate 15-25mila persone“.

Poulsen ricorda la prima volta che vi ha fatto accesso: “Era come entrare nel cortile dell’inferno. Ovunque c’erano donne che offrivano servizi sessuali ai passanti, come se stessero vendendo verdure. (…) Ogni cosa portata nel villaggio viene tassata alla porta d’ingresso: una bottiglia d’acqua costa diversi dollari, un chilo di carne ne costa 12. Ma dato che andarsene costa di più, molte persone vi rimangono dentro per poter ottenere un pasto”.

In un rapporto dell’anno scorso, Amnesty International e Afrewatch hanno chiesto alle aziende di apparecchi elettronici e alle fabbriche automobilistiche di dimostrare che il cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo grazie al lavoro minorile non viene usato nei loro prodotti.

LE AZIENDE COINVOLTE

Attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smart phone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili.

Amnesty International ha contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE.

Una ha ammesso la relazione“, si legge nel rapporto, “quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto l’evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso indagini. Nessuna delle 16 aziende è stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto.

Il fatto certo è che la Repubblica Democratica del Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale e che oltre il 40 per cento del cobalto trattato dalla Huayou Cobalt proviene da quello stato.

Mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici o batterie automobilistiche fanno lucrosissimi profitti, calcolabili in 125 miliardi di dollari l’anno, e non riescono a dire da dove si procurano le materie prime, nella Repubblica Democratica del Congo i bambini minatori – senza protezioni fondamentali come guanti e mascherine – perdono la vita: almeno 80, solo nel sud del paese, tra settembre 2014 e dicembre 2015 e chissà quanto questo numero è inferiore a quello reale”.

MA PERCHÉ PROPRIO I BAMBINI?

Glenn Lesak, responsabile dei programmi di Save The Children in Congo, sostiene che quella dell’estrazione del cobalto sia “un’industria concentrata sullo sfruttamento del lavoro minorile”, aggiungendo che “nel processo lavorativo i bambini sono fondamentali perché possono intrufolarsi in cunicoli minuscoli scavati nei letti fluviali“.

Un’elite ristretta ha fatto una fortuna dal commercio del coltan, mentre chi raschia il minerale da miniere improvvisate vive nella disperazione. “C’è una manciata di persone molto ricche, e il resto non ha nulla“.

Gli utenti finali – le aziende telefoniche e informatiche – dicono di non importare nulla dal Congo, ma esistono dei modi per aggirare le milizie e chi vende questi metalli.

“[Le aziende] si limitano a prendere questi materiali dai porti di altri paesi, tra cui Ruanda, Uganda e Sud Africa”.


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Oltre quattro milioni di bambini del Congo non vanno a scuola, e un terzo dei minori di cinque anni è sottopeso. L’aspettativa di vita è di soli 44 anni, e l’80% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ritiene che il profitto del coltan abbia sovvenzionato le guerre in Ruanda e in altri stati africani. Il Ruanda ha guadagnato 250 milioni, in soli 18 mesi, dalla vendita del coltan, sebbene nei suoi confini vi sia pochissima quantità di questo minerale. Secondo le agenzie internazionali i soldati l’avrebbero rubato al Congo costringendo donne e bambini a estrarlo dalle miniere.

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