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Com’è cambiato il vaticanismo

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Vatican Insider - pubblicato il 04/03/17
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La nascita di una iniziale forma “strutturata” di vaticanismo per come lo intendiamo noi oggi può essere fatta risalire agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, sotto il pontificato di Pio XI, quando venne organizzato un primo embrione di sala stampa vaticana. Era la famosa “banda Pucci” – dal nome del prelato della Segreteria di Stato, Enrico, che l’aveva costituita – ad occuparsi di stilare le prime note informative vaticane e passarle ad agenzie e giornali. Facendo un calcolo aritmetico, e considerando pressappoco un ventennio per ciascun salto generazionale, possiamo dire di essere giunti alla 5ª generazione di vaticanisti; una genealogia professionale, insomma, che è “sopravvissuta”, fino ad oggi, a 8 pontificati… Questa circostanza temporale può essere un valido motivo per porsi qualche domanda sullo stato della professione, e provare a ipotizzare possibili nuovi slanci.   

A che cosa servono le fonti 

Vorrei partire dal tema delle fonti. Lasciando da parte quali sono, come ottenerle e come curarle mi soffermerò piuttosto a riflettere su “a che cosa servono”. Una prima domanda che viene da pormi è la seguente: le fonti, in questo ambito dell’informazione religiosa, servono per raccontare l’istituzione Chiesa (il suo sviluppo, il suo dinamismo, i progressi, in definitiva le novità che la riguardano) o piuttosto i retroscena (ciò che è sconosciuto ai più, ciò che è spesso difficile da provare, ciò che in definitiva può non essere vero ma è verosimile)? E la risposta che mi do è che la diffusione/pubblicazione del solo retroscena, isolato da ogni contesto e presentato in solitudine, non dovrebbe assurgere al rango di informazione; siamo infatti di fronte ad un dato parziale, che sfugge al racconto generale di un avvenimento o di un cambiamento in atto, e serve soltanto, nel migliore dei casi, a sparare nel mucchio o a solleticare curiosità.  

Raccontare la complessità 

Lo stesso retroscena, 99 volte su 100, è fatto di contenuti negativi, certamente parziale rispetto alla complessità dell’Istituzione nel suo insieme e per le eventuali persone che vi sono coinvolte. Eppure, la vera sfida non è raccontare le “cose brutte” della Chiesa (del Papa, della Curia, dei Vescovi e giù a scendere fino al sagrestano), il difficile è raccontare la complessità di un’istituzione millenaria che risponde alle molteplici inquietudini della società in tutto il mondo. Piuttosto che appiattirsi sulle bad news, che richiamano di per sé l’attenzione in modo istintivo, occorre invece portare in primo piano le informazioni rilevanti, anche quelle che di primo acchito non sembrano interessare a nessuno, eppure sono quelle con cui interpretare la realtà in cui viviamo con uno sguardo più profondo e adeguato alle situazioni di oggi. Cercarle costa, e richiede di “uscire”… 

Uscire… dal Vaticano 

Uscire, innanzitutto, …dal Vaticano, quindi dallo strettamente istituzionale. Superare cioè una concezione della professione dell’informatore religioso per la quale siamo solo interessati alle beghe di palazzo, a ciò che accade al di là delle Mura, e ci preoccupiamo quasi niente di ciò che avviene invece al di qua del Tevere. Questa “uscita” coinvolge anche i nostri schemi mentali… e ci chiama a guardare le cose con una visione più ampia; ad ascoltare di più e a giudicare di meno – direbbe Papa Francesco – e non per moralismo, ma per correttezza professionale: prima di poter raccontare, devo aver compreso un minimo dei fatti che voglio narrare, e per comprenderli bene devo mettermi all’ascolto, azionare i sensi (vedere?), avvicinarmi il più possibile. Se resto chiuso nella mia torre d’avorio, non rendo un buon servizio né agli altri né a me stesso. 

Guardare la popolo 

Nel caso della Chiesa, non possiamo prescindere dal fatto che ci troviamo di fronte ad una realtà duplice, che ha una componente istituzionale (il Vaticano e le sue gerarchie) e una componente umana e spirituale (il Popolo di Dio, la gente della strada e la sua fede). Come vaticanisti oggi dovremmo guardare senz’altro ad entrambe, ma forse un po’ di più al popolo, a coloro che edificano la Chiesa con la loro carne. Devo dare atto a Luigi Accattoli di aver intrapreso, da tempo immemore, questo tipo di esperienza, raccogliendo quelle belle “storie di Vangelo” da uomini e donne della strada, che testimoniano veramente ciò che dicono di professare, e che lui ha raccolto in diverse pubblicazioni. Uscire significa anche verificare quanto l’indirizzo del Magistero attecchisce in mezzo a questo popolo, e dove particolarmente, fosse pure in Africa o ad Haiti. 

Opinioni a tutti i costi 

Si dice spesso che la gente non legga, che il numero delle tirature sia in perenne erosione, il mondo editoriale alla deriva; c’è insomma crisi di lettori. Ma siamo sicuri che le cose stiano veramente in questi termini? Piuttosto, leggendo alcune cronache e vedendo certi modi di fare informazione, mi viene il dubbio che ci sia crisi di… scrittori. Gli stessi scrittori che dovrebbero piuttosto “uscire”, come accennavamo prima. Se vogliamo riconquistare il lettore, forse dobbiamo imparare a rifuggire dalla tentazione del fare opinione a tutti i costi e spesso a buon mercato. Un giornalista che fa solo l’opinionista ha smesso di cercare i fatti, le storie, e la sua “opinione”, se è in buona fede, è pur sempre limitata, perché non è più irrorata dal necessario contesto che ti porta – per continuare l’esempio – fuori dalla tua torre d’avorio. Voglio dire, è giusto esprimere opinioni, meno giusto è semplificare la realtà in base alla propria limitata esperienza. Ripeto: non c’è nulla di male a comunicare agli altri il proprio punto di vista personale poiché è una tendenza tipicamente umana. Però semplificare è un modo – sbrigativo, direi – per aver meno paura della complessità e della libertà e così non assumersi alcuna responsabilità concreta.  

Lasciarsi interrogare dai dubbi (quelli veri!) 

Allora dovremmo imparare ad accontentarci un po’ meno di ciò che ci viene dalla nostra esperienza che, per quanto illuminata, è pur sempre limitata. Sintetizzando in slogan ciò che ho detto, occorre imparare a: 1) capire oltre le apparenze; 2) pensare di non essere mai arrivati; 3) lasciarsi interrogare dai dubbi (quelli veri!). Tornando Oltretevere e al Papa: per chi crede Egli è una guida ed è il pastore che conduce il gregge, successore del primo degli Apostoli e Vicario di Cristo; per chi non crede è il leader di 1 miliardo e 300 milioni di cattolici nel mondo: in entrambi i casi merita rispetto! Quanto alla fonte primaria dell’istituzione Chiesa, possiamo dire che con gli anni è diventata un po’ più trasparente; ultimamente forse un po’ più tempestiva; e sicuramente cerca di aggiornarsi continuamente per migliorare…  

Non esistono fake news 

La sfida per noi giornalisti, piuttosto, è quella di rendere fruibile quella fonte, senza alterarla, al di fuori dei canali ufficiali: se il Papa ha detto “ciao Pippo”, ed ho la possibilità di verificare che effettivamente l’ha detto, potrà non piacermi, potrò non essere d’accordo, ma del Papa sempre il suo “ciao Pippo” devo trasmettere, altrimenti – professionalmente – sto barando… E probabilmente sto alimentando – e così mi collego al punto successivo – quel bacino di fake-news di cui oggi il mondo, anche quello professionale, sembra tanto lamentarsi. Ma a lungo andare, per il tanto parlarne e il poco applicare, pure le fake-news si stanno convertendo piuttosto in qualcosa di fashion, perché se le cito o le condanno fa trendy. Allora dirò una cosa un po’ fuori dal coro: le fake-news non esistono! Una notizia o “è” ed è vera, oppure “non è”. E se “non è”, non esiste e non può neanche essere falsa. È tutta un’altra cosa: manomissione, inganno, un testo che scimmiotta l’informazione e la notizia… la possiamo chiamare come vogliamo, ma proviamo a recuperare anche l’importanza del linguaggio, in modo da riconquistare la dignità del lavoro che facciamo. 

Fonti confidenziali 

Un campanello d’allarme che ci deve far riflettere, visto che parliamo di fonti, è legato a tutto quel mondo delle interviste o rivelazioni concesse off–the-record (in via confidenziale). Se quello che mi stanno raccontando è “scottante”, io mi domanderei sempre: perché questo Cardinale o funzionario di Curia lo sta dicendo proprio a me? E perché se la cosa merita attenzione, la sta rivelando in maniera anonima? In questo caso io proverei ad ascoltare – cosa che comunque devo sempre fare – la cosiddetta “terza campana”. Ciò non toglie che quelle informazioni che ho appena acquisito, casomai in forma anonima, mi servano come contesto per comprendere meglio quale sia il clima che si respira nei sacri palazzi. Ma se butto in pagina questo presunto dato scottante, isolato da tutto il resto, mi sto rendendo probabilmente complice di un regolamento di conti, o nella migliore delle ipotesi di un pettegolezzo da comari.  

Il ruolo dei social 

Oggi si parla tanto dei social e della rivoluzione che questi hanno portato anche nell’ambito dell’informazione. Sappiamo bene, se guardiamo alle ultime statistiche, che circa il 35% delle persone oggi si informa principalmente attraverso Facebook e solo occasionalmente ricorre ai giornali. Si dice pure che sono proprio i social i maggiori diffusori delle cosiddette bufale. Se riflettiamo un attimo, possiamo convenire che non può essere colpa del contenitore; farlo sarebbe allontanare il problema e ritirarsi (ancora una volta) nella propria torre d’avorio delle comodità. Il contenitore “vive” di quello che ci mettiamo dentro. E a riempirlo siamo noi, liberamente: nessuno ci obbliga a postare, infatti, una foto che ci ritrae o una dichiarazione d’amore. Allora sopraggiunge la sfida, e una domanda: che uso vogliamo fare dei social? Intanto, per il giornalista, consultarli significa ampliare il proprio campo di indagine, perché è come avere a portata di mano un’agenzia di stampa 24 ore al giorno, e questo è sicuramente un regalo. Per quanto riguarda il problema delle bufale o delle informazioni non verificate, si apre un vasto mondo in cui operare: portare anche in questo ambiente quel contributo di interpretazione della realtà, soppesando dati e ampliando il contesto, fornendo documentazione e approfondendo le discussioni, oltre ad avere un dialogo diretto e “senza filtri” con i lettori o con i protagonisti delle vicende che potremmo/vorremmo raccontare. 

Una professione cambiata 

Senza dubbio, grazie ai social – e per fortuna o purtroppo, direbbe qualcuno – , la professione è cambiata. Dal momento che tutti siamo abilitati ad acquisire globalmente dati e contenuti, ciò dimostra che non esistono più (forse perché non ce n’è più bisogno) i cosiddetti mediatori in senso classico, coloro che si frapponevano tra l’accaduto e il destinatario dell’informazione, presentandone una propria versione. Oggi ciascuno raggiunge direttamente “il luogo dell’accaduto” e ne legge i risvolti secondo la sua sensibilità. Qui però subentra una necessità, ed è quella dell’educazione. Educare le persone, i cittadini, a “leggere” la realtà; educare se stessi, in quanto professionisti dell’informazione, a saperla leggere e raccontare. Educare la propria capacità “visiva” (di comprensione), educare a fornire le necessarie chiavi di lettura.  

Formare e accompagnare le persone 

Insomma, in questo nuovo contesto comunicativo e informativo siamo chiamati a formare le persone, ad accompagnarle, a chiarire loro i dubbi piuttosto che alimentarli, a semplificare i dati complessi. Noi non parteggiamo, offriamo piste interpretative per comprendere meglio. Poiché non siamo più “padroni” dell’informazione, il nostro contributo di tempo ed energie deve essere disinteressato; dobbiamo amare la verità, che però è sempre più ampia rispetto a noi, non siamo noi! Può tornare utile leggersi o rileggersi, per chi lo avesse già fatto, il Manifesto della comunicazione non ostile firmato a Trieste il 17 febbraio. Si tratta di 10 spunti consapevoli e altrettante applicazioni pratiche – per qualcuno forse scontati – che possono orientare la professione. 

L’aizzatore di tifoserie precostituite 

Ogni tanto, quindi, fa bene esercitarsi a lottare contro possibili atteggiamenti patetici e autoreferenziali; a superare quei tic che ci rendono monotematici nei racconti della realtà che facciamo o unidirezionali rispetto ai soggetti su cui scriviamo. Il giornalista non è un aizzatore di tifoserie precostituite e pre-elaborate. Piuttosto, è uno che “rombe le bolle”, per usare un termine social, uno che aiuta ad uscire da quelle famose echo chambers (stanze degli echi) dove siamo già tutti d’accordo e ci osanniamo a vicenda. Ecco, questo intendo quando faccio riferimento agli educatori e all’educazione in ambito informativo. Un lavoro da veri artigiani. 

Nostalgia del “garzone” 

Termino. A proposito di artigianato, duole dirlo, ma un’altra consapevolezza che dobbiamo assumere, se guardiamo allo stato odierno della professione giornalistica – e a tutte le professioni in generale –, lo dico con il massimo rispetto per tutti, è che negli anni è andata scemando la figura del garzone, colui che nella bottega dell’artigiano trascorreva la giovinezza per imparare il mestiere e, una volta che il mastro si ritirava per godersi la pensione, ne rilevava l’attività e soprattutto l’esperienza. Forse sarebbe il caso di provare a riallacciare questo cordone ombelicale reciso, desiderando lasciare eredi, provando ad essere un po’ meno gelosi della propria esperienza e un po’ più educatori, formatori, insomma maestri nella professione. Solo così potremmo dire di aver contribuito a cambiare un pezzo di mondo. 

* Corrispondente della rivista Palabra (Madrid) – Docente di Position Papers alla Pontificia Università della Santa Croce e coordinatore dell’Ufficio Comunicazione del medesimo Ateneo. 

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