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Tauran: “Quando chiudiamo la porta favoriamo l’estremismo”

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Vatican Insider - pubblicato il 01/03/17
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Dono all’umanità in un frangente storico attraversato da tensioni e discriminazioni, memento che «o c’è la guerra o c’è il dialogo» ma anche occasione di sincera «amicizia»: è stato questo il seminario ospitato il 22 e 23 febbraio da Al-Azhar (Cairo), il più prestigioso istituto dell’islam sunnita, nelle parole del cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, che ha guidato nella capitale egiziana la delegazione vaticana per un appuntamento che marca la ripresa ufficiale dei rapporti tra la Santa Sede e l’istituto islamico dopo le incomprensioni degli anni passati. Il passato ora è alle spalle, le emergenze del presente, tra la violenza del cosiddetto Stato islamico, la questione dell’educazione, il tema delle migrazioni, chiedono di superare ogni diffidenza nei confronti del dialogo interreligioso, che, sottolinea il Porporato francese, «è il miglior antidoto alla violenza, ma anche al relativismo». E impegnarsi insieme per la pace nel mondo come credenti appartenenti a due grandi religioni. 

Eminenza, la sua visita al Cairo ha segnato la riapertura del dialogo tra Al-Azhar e la Santa Sede: qual è il suo bilancio? Si è parlato della pausa del passato, del noto discorso tenuto da Benedetto XVI a Ratisbona? E come prevede che si svilupperà questo rapporto in futuro?  

«Al Cairo le due parti erano d’accordo di voltare pagina e quindi ci siamo messi attorno al tavolo per vedere cosa possiamo fare oggi e domani. Ho trovato nella delegazione di Al-Azhar persone di grande qualità intellettuale e anche umanamente molto aperte. Si può dire che c’era un clima di amicizia, di grande rispetto per le opinioni degli altri. Veramente un’atmosfera molto bella. C’è consapevolezza delle difficoltà che oggi hanno le religioni, del fatto che fanno paura, e della necessità di essere credenti coerenti. Mi auguro che questo tipo di iniziative continui nel futuro perché non c’è alternativa: o c’è la guerra o c’è il dialogo». 

Il grande imam, lo sheikh Ahmad Muhammed Al-Tayyib, ha affermato, in una recente intervista alla Stampa, che «Al-Azhar, con il concetto di “cittadinanza” al posto di quello “delle minoranze”, non fa che resuscitare una vecchia pratica che il profeta stesso aveva adottato nella prima società islamica a Medina»: quali sono le implicazioni per le comunità cristiane del Medio Oriente? Può essere anche una chiave per affrontare il tema della persecuzione dei cristiani mediorientali?  

«Di questa idea della cittadinanza si parla molto nel mondo islamico, specialmente nella componente più aperta. È positivo perché innanzitutto ogni credente è cittadino: non è cittadino o credente ma cittadino e credente. E questo mette inoltre da parte la nozione di “minoranze”: se siamo tutti cittadini di un paese collaboriamo, sia individualmente sia tramite la comunità religiosa alla quale apparteniamo, al bene comune. Noi apprezziamo questa concezione di cittadinanza. Quando uno si sente rispettato nella sua religione si collabora più volentieri al progetto della società». 

Più in generale, sullo sfondo della presenza di Daesh, il cosiddetto Stato islamico, quale ruolo sta avendo Al-Azhar nella galassia musulmana mondiale? Come valuta impegni quali la formazione degli imam, anche in Europa, e la revisione dei testi scolastici per eliminare le deviazioni introdotte, per usare ancora le parole di Al- Tayyib, da «coloro che usano violenza e terrorismo e dai movimenti armati che pretendono di lavorare per la pace»?  

«Importante è l’educazione, a scuola e all’università. E quindi Al-Azhar, essendo anche una istituzione culturale prestigiosa, può cambiare le mentalità. Questo mi pare che sia una priorità. La formazione degli imam è anche molto importante, perché hanno influenza sul modo di pensare e di agire. Quanto ai testi scolastici, non si può dialogare con grande amicizia e fraternità e poi trovare che in alcuni libri i cristiani sono definiti “miscredenti”. I professori che abbiamo incontrato al Cairo lo hanno capito. Ogni volta che io mi riunisco con un gruppo di musulmani insisto molto su questo: non si può dialogare, da un lato, e, dall’altro lato, parlare di cristiani come miscredenti. Da questo punto di vista è importante l’educazione. Così anche è importante il modo di proporre la storia di un paese, poiché è lì che si forma lo spirito patriottico, e per questo la cultura e le fonti devono essere credibili. Se la chiave dell’educazione è la scuola e l’università, il contenuto deve corrispondere alla verità. 

La presenza di Daesh è una grave minaccia alla credibilità del dialogo. Anche per quanto riguarda i giovani che combattono in questa organizzazione terroristica c’è un problema di educazione nella famiglia e nella scuola, come vengono cresciuti, qual è il loro futuro e il loro progetto di società, perché la maggior parte di questi giovani che combattono nel Daesh sono frustrati. Mi ricordo sempre di aver letto un’intervista di un giovane di Melbourne che combatteva a Damasco e spiegava la propria scelta dicendo: io ho visto per tutta la mia vita mio padre tornare esausto dal lavoro e questa vita io non la voglio fare. L’educazione, anche in questo caso, è importante». 

La questione dell’islam si intreccia, almeno nel dibattito politico in Europa e negli Stati Uniti, con il tema dell’immigrazione e dell’integrazione: ne avete parlato al Cairo? Qual è la sua visione? Lei concorda con l’analisi di Olivier Roy che pone l’accento sulla «islamizzazione del radicalismo» più che sulla «radicalizzazione dell’islam»?  

«Condivido il punto di vista di Roy sulla islamizzazione del radicalismo, aggiungendo che c’è anche il tentativo di islamizzazione della criminalità. Della questione dell’immigrazione abbiamo parlato al Cairo. Nella dichiarazione congiunta finale si fa riferimento alla necessità di individuare le cause dei fenomeni della violenza, da cercare nella povertà, nell’ignoranza, nell’abuso politico della religione e nella comprensione sbagliata dei testi religiosi. Io credo che dobbiamo riconoscere che non ci conosciamo abbastanza. Tante difficoltà vengono dall’ignoranza, sia da parte dei cristiani che da parte dei musulmani, e questo è terribile. Dobbiamo essere molto più interessati, perché il dialogo interreligioso presuppone una certo interesse per gli altri, una certa “curiosità” per conoscerli o conoscerli meglio. Ne approfitto per dire che il dialogo interreligioso è il miglior antidoto al relativismo, perché la prima cosa che uno fa è testimoniare la propria fede. Quando dicono che il dialogo favorisce il relativismo non è vero, ovviamente se il dialogo è fatto bene».  

Stefania Falasca ha scritto su Avvenire che «il Papa ha preso in esame la possibilità di recarsi in Egitto. Il 6 febbraio scorso il patriarca Ibrahim Isaac Sedrak e i presuli in visita ad limina della Chiesa patriarcale di Alessandria dei Copti hanno presentato per iscritto un invito formale a papa Francesco. Un invito che fa seguito a quello già arrivato da altri vescovi, dal presidente della Repubblica Abdel Fattah Al-Sisi, ricevuto in udienza dal Papa il 24 novembre 2014, e anche da Ahmed Al-Tayyib, il Grande Imam di Al-Azhar». Che significato può avere un viaggio del genere?  

«Il Papa è stato invitato, un giorno o l’altro troverà il modo di andare in Egitto. Un viaggio che sarebbe, oltre a un sostegno alla Chiesa locale, un incoraggiamento al dialogo interreligioso specialmente quello promosso da Al-Azhar». 

Qual è l’approccio della Santa Sede nel dialogo con l’islam in un frangente storico nel quale lo stesso islam è attraversato da alcune tensioni tra sciiti e sunniti?  

«Noi siamo solidali con i veri musulmani che vedono la loro religione traviata e tradita da organizzazioni terroristiche come il Daesh. Inoltre, cristiani e musulmani rappresentano il 58% dell’umanità. Se vogliamo che l’umanità sia in pace, gli appartenenti a questo 58% devono essere fratelli e sorelle». 

Le ultime raccomandazioni della dichiarazione congiunta finale, ha riportato L’Osservatore Romano, riguardano azioni concrete per contrastare in modo realistico e fattibile il terrorismo e le organizzazioni terroristiche, per esempio prosciugandone le risorse e fermando chi le rifornisce di denaro e di armi, chiudere gli accessi alle comunicazioni social al fine di proteggere i giovani dalle loro devastanti ideologie. Può approfondire questo punto?  

«Nelle ultime parole che ho pronunciato al simposio ad Al-Azhar ho insistito sul fatto che la grande crisi che conosciamo in Occidente è la crisi della trasmissione dei valori. Siamo stati incapaci di trasmettere valori come la pace, la famiglia, l’onestà, la solidarietà, così che abbiamo una generazione di giovani che sono eredi senza eredità e costruttori senza modelli. Allora io penso che una riunione come quella del Cairo è un dono che facciamo all’umanità intera e che ci permette di capire che quando chiudiamo la porta o ci imponiamo con la violenza, anche verbale, favoriamo l’estremismo». 

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